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Alfonso Cardamone
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DISMISURA A DISMISURA - 2
posidone e i sette a tebe

Parte Seconda
 
Ma, prima di procedere oltre nell'esame del significato che può avere nei Sette l'invisibile, eppure condizionante, presenza di Posidone, facciamo un passo indietro e torniamo ai misteriosi recessi del tempio di Eleusi, là dove, in occasione della celebrazione della nascita dell' Anno Nuovo, come abbiamo detto, si svolgeva una processione di fiaccole. Ebbene, Graves ci avverte che il nome di Labdaco, genitore di Laio e secondo la tradizione mitologica nonno di Edipo, significherebbe "aiuto con le torce", allusione diretta a quella sacra processione, che salutava l'ingresso nel tempio del Fanciullo Divino recato dentro un cesto di vimini da mistagoghi vestiti da pastori. Edipo, a sua volta, abbandonato fanciullo dai genitori ed "esposto" agli elementi perché non sopravvivesse, nel tentativo di eludere l'oracolo delfico, venne salvato da "pastori" e allevato presso la corte del re di Corinto. Ricordiamo, a questo proposito, il riferimento di Graves ai Misteri Istmici: d'altra parte una versione del mito non parla di "esposizione" sul monte Citerone, ma riferisce che Edipo sarebbe stato abbandonato dentro un'arca alle onde del mare, che lo avrebbero trasportato direttamente fino alla spiaggia di Corinto.
Inoltre, assumendo che il particolare dei piedi trafitti (da cui Oidipous = "dai piedi gonfi") possa appartenere al periodo tardivo e non iniziale dell'elaborazione mitologica, il suo nome in origine avrebbe potuto essere Oedipais = "figlio del mare rigonfio", in ciò tradendo un suo legame non solo con Posidone ma, ancora una volta, con la Triplice Dea, qui nella sua versione lunare. La luna, che attrae le maree, è collegata al mondo delle acque marine, e Anfitrite, la dea Luna nell'aspetto di signora del mare, è sposa di Posidone!
Edipo, dunque, è figura del mito che nasconde una natura sacrale connessa alla tradizione matriarcale. Ma, attenzione: Edipo è anche, e contemporaneamente, lo straniero che provoca la morte della Sfinge, la dea lunare della Tebe primitiva e matrilineare, a cui il nuovo re doveva atto di sottomissione e di devozione prima di sposare la sua sacerdotessa, la regina in nome e per conto della quale soltanto poteva regnare. La Sfinge -sappiamo- era anche un simbolo calendariale, Leonessa alata con coda di serpente, essa imperava su un anno a due stagioni: il leone simboleggiava la parte crescente, il serpente la parte decrescente. La morte della Sfinge -come scrive Graves- allude probabilmente alla soppressione dell' antico culto minoico della dea e ad una riforma del calendario in senso patriarcale. Anche la figura di Edipo, dunque, è come quella di Posidone segnata dall'ambiguità e dalla doppiezza: sta in mezzo. Ambiguità e doppiezza che vanno particolarmente riferite al conflitto matriarcale/patriarcale e che come tali precipitano nella sostanza sotterranea (iniziatica?sacrale?) dei Sette contro Tebe. Pierre Vidal-Naquet, nel saggio Gli scudi degli eroi (in Vernant e Vidal-Naquet, Mito e tragedia due, Einaudi 1991), dedicato alla scena centrale dei Sette, ricorda il "brusco cambiamento" che, a partire dal verso 653, subisce Eteocle. Citando Gilbert Murray, così sintetizza: "Fino al verso 652 Eteocle è un uomo 'freddo e calmo, ha la mente pronta e la preoccupazione morale del suo popolo'; è, in breve, il leader ideale della polis. E poi, ecco la svolta: 'In un baleno Eteocle diviene un altro uomo. La sua freddezza e il suo autocontrollo sono scomparsi. È un uomo disperato, dominato, schiacciato dalla maledizione' ". E lo studioso si chiede: "Cosa è accaduto?". È accaduto che I Sette è una tragedia che non rappresenta la vicenda drammatica di un personaggio, ma interpreta drammaticamente un conflitto di principi e di valori. Eteocle rappresenta i principi ed i valori del mondo patriarcale, che sembrano aver vinto, e per questo si oppone duramente, sprezzantemente al Coro delle Vergini tebane. Quest'ultimo rappresenta i principi ed i valori della tradizione matriarcale, sconfitta ma non ancora rassegnata. Il conflitto prepara, anzi deve preparare l'avvento di Antigone! E l'episodio centrale della rassegna degli episemi degli scudi è la crittografia sacrale di quel conflitto e di questo avvento. Sette sono le porte di Tebe. Sette i campioni argivi all'assalto. Sette gli eroi tebani alla difesa. Alla prima porta, quella di Preto, Tideo e Melanippo. All'ultima, che non a caso non ha nome, ma è la settima per antonomasia, Polinice ed Eteocle. Il primo duello apre un ciclo. L'ultimo lo conclude. Ed il primo è già un annuncio dell'ultimo e quasi di quello un doppione. Un gioco di specchi, di rimandi mitologici e simbolici sulla sfondo della lotta per il Potere. Un conflitto sanguinoso che oppone fratello a fratello, gemello a gemello. In un groviglio di riflessi e di richiami, solo apparentemente caotico e indecifrabile, in cui precipitano concezioni sacre e calendariali, tradizioni diverse legate ai criteri ed ai rituali della successione regale. Intanto, il numero: sette. Come l'antico calendario planetario. E certo verrebbe voglia di cimentarsi nel tentativo di interpretare in tal senso le sette stazioni dei guerrieri, utilizzando gli emblemi degli scudi, che potrebbero avere, come pare fosse costume, la funzione di rappresentare, in opposizione, esorcizzandole, le qualità degli avversari. Ne per una tale operazione mancherebbero convincenti supporti interpretativi.
Basti pensare che la Porta del Nord, quella dove prende posizione d'attacco il giovane eroe figlio d' Atalanta, Partenopeo, sul cui scudo campeggia la Sfinge, corrisponde alla tomba di Anfione (anche lui un gemello, fratello di Zeto! ). E vale la pena di ricordare che Tebe fu costruita, proprio a partire dalla "tomba di Anfione", a forma di lira, con sette porte corrispondenti, secondo alcuni autori, simbolicamente alle sette corde dello strumento e ai sette pianeti, il che ci riporterebbe all'antichissimo calendario settimanale dei Titani, in uso nella Grecia pelasgica, che sarebbe stato soppresso dopo le invasioni degli elleni patriarcali. "Tale calendario -scrive Graves- si articolava sui mesi divisi in quattro settimane di sette giorni, ciascuno retto da una delle sette potenze planetarie. Anfione e i suoi dodici figli, nella versione omerica del mito (...) rappresentano forse i tredici mesi di questo calendario". Il fatto poi che Anfione, secondo il mito, per innalzare le mura di Tebe inferiore (Cadmo aveva già edificato la città alta) si fosse servito del potere magico di una lira a tre corde anzicché sette, non guasterebbe questa ricostruzione, ma la confermerebbe: ché quella lira era stata costruita in onore della Triplice Dea che regnava sulla Terra, nell'aria come Luna, e nell'Oltretomba, e corrispondeva alla divisione primitiva dell'anno tripartito di cui il simbolo calendariale era la figura mostruosa della Chimera, corpo di capra, testa di leone e coda di serpente. Quando scomparve il segno della capra, la Chimera si trasformò in Sfinge, dea lunare di Tebe e simbolo del calendario matriarcale a due stagioni. Tuttavia il tentativo non ci porterebbe lontano. Almeno non quanto il riferimento congiunto all' Anno Sacro e al Grande Anno ed al rapporto che, al loro interno, si realizzava tra i gemelli. Solo di passaggio ricorderò che Posidone, Dio-cavallo, dall' Inno omerico descritto al tempo stesso come domatore di cavalli e salvatore di navi (Tebe abbiamo visto è una città-scafo!), genitore dei magici cavalli Pegaso e Arione, è anche strettamente associato alla figura variamente significativa dei gemelli. Divinità originariamente appartenente alla categorie degli dèi zodiacali, successivamente divenuti dèi dell'Olimpo, Posidone, prima di divenire un grande dio fu, secondo Jean Richer (Geografia sacra del mondo greco, Rusconi 1989), guardiano di un antico segno zodiacale del cavallo in seguito sostituito da quello dei gemelli.
Ma torniamo al Grande Anno. Nell' Introduzione a I miti greci, Robert Graves scrive: "Il sistema religioso olimpico fu poi accettato come un compromesso fra la tradizione ellenica e quella pre-ellenica", e, cioè, sei dee e sei dèi in un unico Concilio divino, prima che Era venisse subordinata a Zeus e Dioniso spodestasse Estia, assicurando con ciò la preponderanza alle divinità maschili. Il "poi" trae giustificazione e senso dalla progressiva, anche se violenta sostituzione, in Grecia, del matriarcato con il patriarcato, di cui conservano tracce i racconti mitologici: "Nell' antica mitologia greca si riflettono soprattutto quei mutevoli rapporti tra la regina e i suoi amanti, che iniziano con il sacrificio annuale o biennale del divino paredro e terminano ...col tramonto del matriarcato". Le fasi di questo passaggio possono così essere riassunte: 1) fase in cui la ninfa tribale "si sceglieva ogni anno ...il re che sarebbe stato sacrificato alla fine dell'anno e che diveniva così un simbolo della fertilità"; 2) fase in cui "il re moriva quando la forza del sole, con il quale il re si identificava, cominciava a declinare a mezza estate, e un suo gemello o supposto gemello diventava allora l'amante della regina per essere a sua volta sacrificato a metà inverno"; 3) fase in cui il "re agiva come rappresentante di Zeus o di Posidone o di Apollo", e in questa fase Era, la Luna, "personificava l'atteggiamento conservatore"; 4) fase in cui, indebolita finalmente la tradizione matrilineare, il re riesce a regnare a vita mentre la successione patrilineare diviene la regola (Graves si spinge fino a cronoligizzare queste fasi con l'affermarsi ed il diffondersi nel bacino del Mediterraneo ed in Grecia delle civiltà pre-elleniche prima, e con le successive invasioni elleniche che a quelle si sovrapposero, a partire dall'inizio del secondo millennio, distinguendo tra le invasioni eolica e ionica, che si sarebbero infiltrate "abbastanza pacificamente tra le popolazioni pre-elleniche", accordandosi con la teocrazia femminile, e quelle achee e doriche che finirono per imporre la successione patriarcale). In questo quadro, il Grande Anno si affermò quando "si cominciò a considerare troppo breve il periodo di regno concesso al divino paredro": allora l'anno di tredici mesi "fu prolungato nel Grande Anno di cento lunazioni, nell'ultima delle quali l'anno solare e l'anno lunare coincidevano approssimativamente". L' episema dello scudo di Tideo, che apre la rassegna dei Sette contrapposti a Sette, è un trionfo lunare, quello di Polinice, che la chiude, come in un cerchio, un trionfo solare! Tideo il cinghiale e Polinice il leone, ambedue cacciati dalla propria città e ambedue alla ricerca di una successione violenta sul trono che ritengono in diritto di rivendicare. Ambedue aggiogati (prima ancora del Cavallo Nero, Arione), sia pure metaforicamente, al carro di Adrasto, di cui hanno sposato ciascuno una figlia. E il carro di Adrasto, come stiamo per vedere, ha una funzione fondamentale nella tragedia .
Ma c'è di più, Tideo, vero doppio di Polinice, quasi di lui gemello elettivo per singolare sorte similare, non divora forse alla fine del duello -secondo la tradizione- il capo del suo avversario (gesto rituale il cui significato vedremo più avanti), Melanippo, anche questi Cavallo Nero; lui, Tideo, che già aveva ucciso un altro Melanippo, suo fratello in Calidone, ragion per cui era stato bandito dai concittadini?
Come in un caleidoscopio vorticoso di immagini che si sovrappongono e si sdoppiano senza posa, in una frammentazione e ricomposizione sconcertante della figura dei gemelli (oltre ai personaggi esaminati, quelli fondamentali, altri gemelli incontriamo nei Sette, sui quali non ci attardiamo solo perché il loro esame non molto aggiungerebbe alla nostra discussione...)! Il Re ed il suo tanist (successore di un re, nominato quando il sovrano è ancora in vita), il tragico alternarsi dell'uno all'altro nell' Anno Sacro prima e nel Grande Anno poi, le pratiche conseguenti all' accordo o al mancato accordo per la condivisione del potere e l'inevitabile sacrificio del Re (o dei Re) solari alla Grande Dea lunare alla fine di ogni mezzo anno di regno, o a conclusione del settimo anno: queste le immagini che sembrano balenare al fondo del caleidoscopio, quelle fondamentali dalle quali partono tutti i sorprendenti giochi di frammentazioni e di sovrapposizioni che rendono del tutto particolare questa tragedia di Eschilo. Nella Dea Bianca (Adelphi 1992), Graves ci racconta di un Eracle che nella leggenda appare come un re sacro pastorale, sovrano perché sposo della Divinità femminile, il quale, a metà dell'estate, alla fine di mezzo anno di regno viene ucciso ritualmente. A lui succede il proprio tanist, il gemello rituale, che regnerà per il resto dell' Anno Sacro (dopo avere sposato anche lui la regina che rappresenta la Dea Bianca signora della fertilità e della morte), per venire a sua volta alla fine ucciso da un nuovo Eracle, "I'Eracle dell' Anno Nuovo, reincamazione dell'ucciso, che lo decapita e ne divora il capo. Questa ripetizione del sacrificio eucaristico conferiva continuità alla regalità, giacché ogni re era per un certo periodo il dio-Sole amato dalla dea-Luna regnante". A questo tipo di Eracle si sovrappose la figura dell'Eracle re agricolo-pastorale, che regnava nel Mediterraneo orientale alternandosi anche lui con il proprio gemello. E in questo quadro si inseriscono le pratiche del cosiddetto Grande Anno, che si affermò in Grecia quando gli Achei cominciarono ad imporre la religione olimpica e la durata del regno si estese a otto, o anche a sette anni, "probabilmente perché ogni cento mesi lunari ha luogo un approssimativo avvicinamento tra i calendari lunare e solare" (ricordiamo gli episemi degli scudi di Tideo e di Polinice!). Al termine dell'ottavo, o del settimo anno di regno, il re doveva morire. Torniamo un momento al cocchio di Adrasto (cogliendo l'occasione per ricordare che il giro di pista sul cocchio era un simbolo di regalità) ed alla coppia cinghiale-leone. Occorrerà ricordare che il leone e il cinghiale erano i simboli animali rispettivamente della prima e della seconda metà dell' Anno Sacro e concordare con Graves, quando azzarda l'ipotesi che l'oracolo che consigliò ad Adrasto di porre fine alla rissa tra i pretendenti che aspiravano alle nozze con le sue due figlie Egia e Deipile aggiogando a un carro a due ruote il cinghiale (Tideo, la cui insegna era il cinghiale) e il leone (Polinice, la cui insegna era il leone) che combattevano nel suo palazzo, volesse in realtà proporre una soluzione amichevole alla tradizionale rivalità tra il re sacro e il gemello successore. Il regno sarebbe stato diviso in due parti e i due re avrebbero regnato insieme su ciascuna di esse (come secondo il mito accadde a Preto e ad Acrisio), anzicché regnare l'uno dopo l'altro sull'intero regno, come avrebbero dovuto fare e non fecero Eteocle e Polinice. Ecco perché alla porta di Preto, la prima, Tideo il Cinghiale, gemello elettivo di Polinice, combatte dalla parte del suo doppio contro Melanippo, eroe di Eteocle, mentre alla settima porta Polinice il Leone combatte fino alla morte (anzi, al sacrificio di entrambi) contro il gemello usurpatore Eteocle. Se Tebe non fosse stata la città della contraddizione e del conflitto, il Cinghiale della chiusura dell' Anno Sacro ed il Leone dell'apertura sarebbero stati, nel regno pacificamente condiviso, i gemelli naturali e sodali, Eteocle e Polinice!
Il cocchio di Adrasto ha dunque una funzione centrale nella tragedia. Ciascuno dei Sette aggressori, "uomini capi d'armata", dopo aver giurato, sotto le mura della città assediata, "o fare di Tebe macerie contorte, brutale razzia sul paese di Cadmo; o cadere, cementare col sangue questo suolo di Tebe", prima di lanciarsi nel fatale assalto (il vate Anfiarao già aveva vaticinato che solo il re di Argo, Adrasto, promotore della spedizione, si sarebbe salvato), sceglie "la propria reliquia: ghirlanda al carro d' Adrasto, per i vecchi, laggiù tra le mura di casa". Dunque, i campioni che, nonostante il cieco furore e la tracotante sicumera (Tideo e Capaneo sono i loro massimi esponenti!) da cui sono sospinti comunque alla battaglia, sono preavvertiti del destino di morte che li sovrasta, affidano i loro ricordi, da consegnare dopo la loro scomparsa ai parenti in patria, al carro di Adrasto, perché sanno che il puledro incantato, il negrocrinito figlio di Posidone, che vi è aggiogato, lo avrebbe ricondotto comunque in Argo. Ma non è, come potrebbe sembrare da questo assaggio, Posidone il dio alleato dei Sette aggressori. Dio della doppiezza e dell'ambiguità, dio sfuggente, Posidone domina su tutta la tragedia.
Si lascia intuire dietro Adrasto, ma non è schierato con gli eroi che morranno sotto Tebe: in realtà egli si situa, e sia pure ambiguamente e senza mai direttamente apparire, in mezzo o, se mai, a protezione della città di Tebe. Intanto, è vero che a fianco degli aggressori è collocata Pallade Atena, e sarà già questo a suggerire, per contrasto, l'invisibile presenza di Posidone accanto ai difensori. Tideo, il cinghiale, Tideo il vero doppio di Polinice il leone (come quello figlio incestuoso, come quello uomo dalle molte contese e ai suoi insanamente avverso, ancor più di quello forse feroce e spietato) è il protetto di Atena. E Atena, sappiamo, nei racconti che narrano delle lotte che gli dèi intrapresero per conquistare ciascuno città e territori da assicurare alla propria influenza, fu più di una volta in aspra contesa proprio con Posidone, a lei sempre soccombente. Come meravigliarsi, allora, se l' eroe che Eteocle pone a riparo della porta di Preto, la prima ad essere presa d'assalto da uno schiumante Tideo, è Melanippo, discendente della "semina d'uomini", gli sparti sorti dai denti del drago direttamente dalla terra, che addirittura nel nome "cavallo nero" porta -come abbiamo visto- un inequivocabile marchio posidonico? Posidone paredro della Madre Terra e della Terra scotitore, ancor prima che signore dei mari, Posidone dio-cavallo e di cavalli domatore, ancor prima che salvatore di navi. E soprattutto, Posidone dio della contraddizione e dell' apeiron. Come Eteocle, che cambia atteggiamento da un verso all'altro, e come Tebe, città al guado tra potere matriarcale e potere patriarcale. La mitica Atlantide, di cui discorre Platone, è la città in cui si incarna Posidone, signore del cavallo e del mare e sposo della Dea della Luna, come Anfitrite, e della Terra, come Demetra. E a noi appare come il modello archetipico della Tebe di cui abbiamo discorso. Pierre Vidal-Naquet, in uno splendido saggio su Atene e l'Atlantide, Struttura e significato di un mito platonico (in Il cacciatore nero, Editori Riuniti 1988), mentre riconosce nell' Atene delle origini l'espressione politica e mitica del Medesimo (definito dal principio della permanenza), con cautela filosofica rinuncia a riconoscere nell' Atlantide l'espressione politica dell' Altro ("Non diremo che essa è l'espressione politica dell' Altro, perché l' Altro non è").
Noi, meno condizionati dal ricatto della fedeltà al rigore filosofico, ci contentiamo di piegare spregiudicatamente i suggerimenti dello studioso alla nostra paradossale tesi e sostenere, di conseguenza, che così come la posidonica Atlantide è in qualche misura l'Altro, a sua volta la posidonica Tebe è l'espressione drammatica dell' Altro. Tebe, città della dualità e dell'apeiron, della contraddizione e della dismisura.