dismisura a dismisura 
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Alfonso Cardamone
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DISMISURA A DISMISURA - 1
posidone e i sette a tebe

Parte Prima
 
Eteocle: -Uomini di Cadmo! Dire pronti rimedi, via via: è dovere, per chi è attento, fedele ai suoi impegni di Stato. Dal ponte pilota il paese, manovra la barra. Ciglia immote, inquiete. Senza riposo .
Che parole son queste con cui, dalla Rocca Cadmea della città di Tebe, si rivolge Eteocle, re ed usurpatore del diritto a governare del fratello, a una folla di giovinetti e di anziani (gli uomini validi impegnati tutti sulle mura, alla difesa)? Parole con cui inizia Eschilo la tragedia I sette contro Tebe, ultima della sua trilogia edipica. E che parole queste altre con cui il Secondo Semicoro chiude la medesima tragedia?
-Noi siamo con lui (con Eteocle). Come lo Stato e come il diritto comanda. Sì -dopo i Celesti, e il trono di Zeus- quest'uomo strappò dall'abisso il paese di Tebe: l'avrebbe inondato marea forestiera d'armati. Senza riparo
Una metafora marinara apre la tragedia, una metafora marinara la conchiude. La prima, atta a rappresentare e ad esprimere Potenza e Dominio (del reggitore dello Stato), la seconda a significare Violenza (degli assalitori di Tebe). Ma ciò che soprattutto sorprende è che per l'intero arco della tragedia sempre Potenza-Dominio e Violenza vengono rappresentate ed espresse da metafore e similitudini attinenti al mondo marinaro o, comunque, delle acque, salse o dolci che siano.
Ecco il Messaggero, venuto ad Eteocle a recar nuove dal campo, dove i Sette si preparano all'assalto, invocare il re come colui che, dotato di buona esperienza di manovra alla barra, sul ponte, abbia, egli solo, la possibilità il compito ed il dovere di rafforzare la chiglia di Tebe, prima che turbini raffica di Ares, poi che pronta è l'armata argiva ad arrecare tempesta mugghiante come marea in terraferma. Poco più avanti il Coro delle Vergini tebane, atterrito dal fragore che s'alza dal suolo calpesto dallo stuolo incalzante dei cavalieri, paragona la dilagante armata nemica di gente al galoppo a marea vasta che, fulminea, straripa dal campo. E le Vergini un'appassionata preghiera levano agli dèi affinché dalla città minacciata volgano via la sorgente atra tempesta. Mentre alla loro commossa fantasia le elmicrestate squadre dei nemici, che frementi nell'aria alzano soffi rabbiosi di morte, appaiono quale spumeggiante marea di eroi che, rigurgitando, accerchia la cinta. Ed a quale repertorio di immagini fa ricorso Eteocle quando aspramente redarguisce il Coro che, a suo giudizio, indebolisce la difesa? Leggiamo:
- S'è mai visto il nostromo scovare rimedio che salva, sbandando su e giù per il ponte, con lo scafo spossato sull'abisso che bolle?
Né diversamente si comporta il Coro nella sua replica:
- Ma io venni di volo agli idoli antichi dei Potenti. M'abbandonavo agli dèi: fuori, tempestava le porte, ruggiva tempesta omicida.
E sono ancora le Vergini tebane che, precorrendo la fine della città col pensiero, vedono i prodotti della terra, i doni della zolla, prossimamente ridotti a rovina di frutti confusi, per terra… piombare come impasto opaco, immenso… in cieche fiumane.
Più avanti, Eteocle, che ha appena assimilato gli assalitori a una ciurma riarsa dalla febbre del male, viene ancora una volta invocato dal Messaggero, a conclusione dell'episodio della rassegna degli episemi degli scudi, come colui che ben sappia provvedere a guidare lo Stato al suo porto.
E, infine, la stessa lotta feroce che l'un contro l'altro oppone i re fratelli, vera radice della minaccia che rischia di travolgere Tebe e lo Stato, così viene rappresentata dal Coro:
- È un abisso. Risacca di mali c'inonda. Flutto che piomba. Eccolo, svetta il seguente, culmina in tre, e rigurgita alla fiancata di Tebe.
Mentre maturano ormai -peso che schiaccia- gli epiloghi delle imprecazioni antiche, anche il luogo comune della sapienza antica si volge a cercare immagini del tipo che abbiamo detto:
La rovina sfiora la miseria e passa: ma l'abbondanza spessa, carnosa, d'uomini incontentabili produce lanci di zavorra, dal ponte.
Dalla metafora d'apertura in avanti Tebe è -possiamo ben dire con Ezio Savino, di cui abbiamo seguito l'ottima traduzione garzantina- scafo di nave in acque agitate: il testo risulta trapunto "di metafore continuate, che si muovo tutte in una stessa area semantica... l'idea di una periclitante instabilità è ottenuta attraverso parole che riguardano l'imbarcazione, la navigazione, la tempesta". A noi resta da aggiungere solo che quella instabilità della nave/città/stato, provocata dall'urto della Violenza esterna contro la Potenza e il Dominio, prerogative massime del despota/pilota, risulta ulteriormente aggravata da una latente irrisolta doppiezza ed ambiguità interne. Ma vale la pena, intanto, notare che anche quando la battaglia si è finalmente placata e la folata arrogante di guerrieri nervosi è stata definitivamente respinta dai difensori delle sette porte (consumato il duplice sacrificio con cui Eteocle e Polinice, dandosi l'un l'altro morte, hanno portato a compimento la maledizione di Edipo), Tebe, ormai salva, viene assimilata a nave che miracolosamente, dopo spaventevole tempesta, torni a posare sopra un mare in bonaccia.
Tebe naviga in pace. Tra gli schiaffi dell'abisso agitato, non stiva acqua la chiglia.
È verosimile -ci chiediamo- che questo ossessivo paesaggio metaforico, questo orizzonte ristretto al mondo delle tempeste equoree siano da addebitarsi ad un accumulo casuale o ad una inadeguatezza della fantasia creatrice a sua volta limitata da un bagaglio retorico inusitatamente modesto? Come se un poeta grandissimo, quale Eschilo, non potesse contare su altre frecce al suo arco, per conferire evidenza persuasiva ai concetti di Potenza-Dominio e di Violenza, che questo ricorrere e rincorrersi di immagini legate all'acqua e solo all'acqua. O non sarà piuttosto più ragionevole, oltre che più giusto e più rispettoso del genio poetico di Eschilo -genio, anticipiamo, profondamente legato alla concezione misterica del sacro- pensare all'opposto che quell' orizzonte particolare, quell' apparente monotonia di riferimenti siano il frutto di precise rigorose intenzionalmente allusive scelte di stile e di poetica? Ma di quale poetica e di quale sfera di allusività e di connotazione?
Un primo dato da cui partire ci è offerto dalla stessa storia personale di Eschilo, a cui toccò in sorte di avere i natali in Eleusi, principale centro dei misteri legati alla celebrazione dei riti in onore della Grande Dea. E che tale sorte non fosse stata insignificante nella formazione spirituale del poeta è indirettamente dimostrato dalla fioritura di leggende che già in periodo classico crebbero intorno alla figura del poeta ricollegando a quei misteri i casi particolari della sua vicenda umana. Una, in particolare, ci sembra significativa: quella che lo volle protagonista di un processo di empietà "che gli sarebbe stato intentato per aver rivelato i misteri di Eleusi e che sarebbe stato causa del suo esilio nel secondo soggiorno in Sicilia" (R. Cantarella, Introduzione alle Tragedie, Torriana, 1989). E se pure si dovrà convenire con altri circa l'infondatezza di quell'avvenimento, resta il fatto che non sia assolutamente da ritenersi trascurabile il ricorso disinvolto della tradizione ad un assioma che veniva evidentemente dato per scontato. L'iniziazione di Eschilo ai misteri eleusini sarebbe stata in effetti considerata cosa talmente ovvia e risaputa da autorizzare operazioni fantasiose di ricostruzione di eventi decisivi della sua vita (come appunto il secondo viaggio in Sicilia) proprio a partire da quell'assioma. Ora, noi sappiamo che l' "avvento" (l'eleusis appunto) più importante dei Misteri Eleusini e, forse -come aggiunge Graves in I miti greci, Longanesi 1983- anche degli Istmici, era la cerimonia celebrativa dell' Anno Nuovo, durante la quale una processione di fiaccole salutava l'ingresso, nel tempio dedicato alla dea Demetra, del Fanciullo Divino, recato dentro un cesto di vimini da mistagoghi vestiti da pastori. Trascurando per il momento il personaggio del Fanciullo Divino, concentriamo la nostra attenzione sulla Grande Dea di Eleusi. Brimo veniva chiamata, la dea "furente", ed i misteri ne celebravano, in occasione dei festeggiamenti propiziatori dell' Anno Nuovo, il matrimonio rituale e simbolico con il proprio paredro, premessa all'immediata nascita miracolosa del Fanciullo Divino. Ma Brimo non è altro che una epifania della Gran Madre Demetra, la Grande Dea pre-ellenica delle civiltà matriarcali e matrilineari dei paesi intorno al Mediterraneo. E se anche lo sposo con il quale la "dea furente" si univa, nei recessi del tempio, durante i Grandi Misteri, nel mese detto Bedromione, era conosciuto come Giasio o Trittolemo o Zeus, la verità è che il primitivo paredro della primitiva Demetra era Posidone. Il nome Posidone, o Poseidone, infatti, trarrebbe origine da un titolo religioso pregreco Posei-das, forma vocativa stabilizzatasi nell'uso, del tipo "Oh Marito (Signore) della Terra". Anita Seppilli, in Poesia e magia (Einaudi 1962), ha riferito l'interpretazione del Kretschmer, suffragata dalle ricerche linguistiche dello Schachermeyr, secondo cui il suffisso das, derivando dalla radice pregreca da (per cui Damater=Demeter=Madre Terra), qualificherebbe il primitivo Poseidone come il "Signore (Marito) della Terra", divinità dunque originariamente terrestre e ctonia. Il confronto con testi religiosi e poetici emersi dagli scavi di Ugarit, sulla costa siriana, di fronte a Cipro, confermerebbe la correttezza di questa interpretazione, proponendo la figura di.un dio della fertilità Aliyan Ba'al, "dio sotterraneo, e in particolare delle acque sotterranee, che porta il titolo di Ba'al Ars, 'Signore della Terra' (o Ba'al zebul 'Signore della profondità della terra')". Un confronto tra Posidone e Aliyan Ba'al si gioverebbe sicuramente dell'ulteriore connotazione di quest'ultimo come dio che "estende il suo dominio anche sul mare, perché le coste fenicie si distinguono per una particolarità ben nota agli antichi: le sorgenti d'acqua dolce emergono da entro il mare stesso lungo le coste". Ma anche volendo evitare di inoltrarci ulteriormente, in compagnia della studiosa di Poesia e magia, nel ginepraio di questo spericolato confronto tra il nostro Posei-das pre-ellenico e la divinità infernale di Ugarit che gli corrisponderebbe, resta documentato il fatto che il nome di Posidone (o di una corrispondente divinità equina, come equino già dovette manifestarsi il dio stesso) appare mischiato, nella cosiddetta "tavoletta delle offerte di Pilo", tra altri nomi di divinità coinvolte in un quadro estremamente significativo. Infatti, dalla tavoletta "risulta che santuari con ricchi doni erano dedicati alla Potnia -la Signora- accanto ad un wanax, il signore, l'antenato, il re della casa o dinastia". Il che ci riporta ancora una volta al rapporto tra il primitivo Posidone e la primitiva Demetra. Infatti, in Arcadia, a Telpusa, si venerava Demetra Erynis, l'irata (corrispondente all'antichissima "Demetra Nera" dalla testa equina del santuario ipogeo di Figalia, sempre in Arcadia) che, per sfuggire alle insidie di Posidone, si era trasformata in giumenta. Il dio infoiato non si arrese e, trasformatosi a sua volta in stallone, riuscì a possederla. Dall'unione animalesca delle due divinità nacque il cavallo archetipico, Arion o Erion, il magico cavallo dalla criniera nera, alato, immortale, che incontriamo anche nei Sette contro Tebe, cavalcatura di Adrasto, e che scorgiamo ambiguamente accennato anche nel nome, Melanippo, dell'eroe tebano opposto a Tideo. Da allora i cavalli, i cui zoccoli lasciano un'impronta falcata, sacri a Posidone, lo furono anche alla Dea Luna, una delle incarnazioni della Grande Madre, la Triplice Dea. In un altro mito, Posidone seduceva Melanippa (Cavalla Nera!), che gli partoriva due gemelli, successivamente esposti sulla montagna, e che -secondo quanto riferisce Graves- era rappresentata come la Madre Terra accovacciata nell'atto di presentare i gemelli dell' Anno Nuovo ai pastori, come rivelazione dei suoi Misteri. E può risultare interessante che, secondo Kerènyi, Posidone, in quanto sposo violento della Terra, "né serviva unicamente la donna, come gli esseri meramente fallici, né era un signore sovrano come Zeus": egli "stava in mezzo a questi due generi: quello dei servitori della Grande Madre e quello del padre olimpico". Così come a noi appare stare in mezzo -senza comparire- alle due schiere che si affrontano sotto Tebe nella tragedia di Eschilo. E non solo: ché il suo stare in mezzo ci sembra la chiave interpretativa dello stesso messaggio complessivo della tragedia.