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Alfonso Cardamone
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DE NAPOLI RENDE GIUSTIZIA A CESARE PAVESE
 
In un breve saggio dedicato, anni fa, alle notti invernali di Bruno Schulz, mi capitava di segnalare la corrispondenza che è possibile stabilire tra le fermentazioni, le germinazioni e le diramazioni, che nelle Botteghe Color Cannella continuamente diffondono al di là dei propri limiti la materia della realtà, ed i vortici, le schiume, gli affioramenti che nell'opera di Pavese esprimono "la gioiosa certezza di una più ricca realtà sotto la realtà oggettiva". La realtà dell'arte, sottolineavo allora, per quei tramiti in Pavese si incarna in simboli mitici, universali indeterminati, che tentano via via di tradurre in immagini poetiche la tensione creatrice orientata al recupero del tempo mitopoietico dell'infanzia.

Oggi, in un ben più disteso ed impegnativo saggio, dedicato al complesso dell'opera di Cesare Pavese ("DEL MITO, DEL SIMBOLO E D'ALTRO - CESARE PAVESE E IL SUO TEMPO", Cassino 2000), Francesco De Napoli torna con vigore di analisi sulla sostanza mitica e simbolica dell'arte di Pavese, per sottrarla alla sottovalutazione a cui vorrebbe condannarla una certa critica "ufficiale" e codina.
Ricorderemo, a tale proposito, come ancora di recente, Alfonso Berardinelli, pur parlando della scrittura del nostro Autore come di una "sorta di realismo mitico" che "si risolve soprattutto in una ricerca di stile", proprio quello stile finisse poi per condannare come votato al fallimento di "esiti artificiosi".
Viceversa, nella sua ricerca puntuale ed appassionata, De Napoli fa piazza pulita di tutti quei giudizi critici che vollero l'opera di Pavese limitata o nel recinto asfittico delle sopravvivenze di un decadentismo tardivo, o in quello periferico e marginale della scrittura regionalistica. Pavese, se mai -scrive De Napoli-, "rappresentò in Italia il filone più fertile e vitale dell'esistenzialismo di derivazione europea". Come già ebbe modo di osservare Cesare De Michelis, egli riscoprì "nel mito la possibilità di raggiungere l'assoluto e l'essenza che al nome è legata. La poetica del mito permette di superare la disintegrazione della verità nei molti nomi del particolare". Pavese, infatti, ricorda De Napoli, avrebbe tentato, al fondo della propria esperienza di scrittore, di raggiungere "razionalmente una sintesi realtà/mito", sorretto da una sua dolente ma ineluttabile fedeltà alla libertà ed all'autenticità del sentire: "libero è solamente chi s'inserisce nella realtà e la trasforma" (Pavese, 1947).
De Napoli sa cogliere nella visione del mondo coltivata da Pavese il segno forte dell'ineluttabilità del destino, e cita da un articolo su l'Unità del 1946 : "Nel nostro mestiere non si va verso qualcosa: si è qualcosa". Ineluttabilità che non dà solo ragione della felice anomalia dello Scrittore rispetto alla teoria ed alla prassi dell'intellettuale organico ("Noi non andremo verso il popolo. Perché siamo già popolo e tutto il resto è inesistente. Andremo se mai verso l'uomo", da un altro articolo su l'Unità, del 1945), quanto, soprattutto, della sua scelta operativa, per cui, rileva De Napoli, essenziale è fare, lasciarsi vivere, senza pensare troppo al... da farsi. Ed a questa filosofia sarebbe, dunque, da riallacciare direttamente anche l'ultima fase del pensiero di Pavese, quella fondata appunto sulla "scoperta dichiarata e sofferta del mito". Ultima, ma non senza storia nell'evoluzione del pensiero pavesiano: "L'agire mitico fu sempre presente in Pavese", anche se inizialmente "in maniera inconsapevole", dal momento che Pavese, che non era semplicemente un divulgatore di cultura, ma un ricercatore puro, cercò sempre di descrivere "una realtà non naturalistica, ma simbolica", fondata sull'inseguimento di un mito laico, un mito senza fede, "concepito come una rivelazione vitale prima che poetica" e risolto in un ritmo intellettuale capace di trasformarlo nell'evidenza artistica dei simboli.


maggio 2001