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Mario Amato
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LETTERE DA LONTANO - Prima Parte
ROMANZO
 
PREFAZIONE

Affascinanate e suadente. Ho viaggiato per terre e città bellissime e misteriose. Ho letto con enorme piacere nomi e citazioni di autori, le cui opere desidero al più presto conoscere, tanta è la passione che l’Autore trasmette nel trattarle. Originale, e nello stesso tempo toccante, il paragone tra le acque, la vita e la letteratura! Mi piacciono molto i frequenti riferimenti ai fiumi e ai ponti.
Marenza Motta

Ho appena finito di leggere il romanzo, mi ha temporaneamente fatto dimenticare la giornata disastrosa di ieri. Dico quello che mi è sembrato (ritengo che raramente le impressioni personali dei lettori combacino alla lettera con le intenzioni degli autori). Se l’Autore voleva farmi rimpiangere ancor di più un mancato viaggio, c'è riuscito alla perfezione. Il personaggio di Iris è stupendo, indiscutibilmente il mio ideale femminile: forte, appassionata, coraggiosa, capace di amare in modo libero e altruista. Iris è un'eroina da romanzo, uno di quei personaggi che fanno venir voglia di innamorarsi; non è la donna amata dal protagonista (veramente non si è innamorato di lei?), eppure è l'unica che può salvarlo dai suoi sensi di colpa. Il suo inseguimento mi fa venire in mente la "ricerca" dei romanzi epico-cavallereschi, in cui però è più importante il viaggio stesso piuttosto che l'arrivo.
Il primo capitolo ha il sapore di Leopardi in bocca (sembra quasi che descriva il borgo recanatese soprattutto quando fa un riferimento alle campane) ma senza quel rapporto drammaticamente conflittuale che si percepisce nel poeta di Recanati. Non so identificare bene la ragione, ma ho l'impressione che le prime pagine non scorrano allo stesso modo in cui procede magnificamente il resto dell'opera, ma forse il fiume nasce a fatica dalla roccia; utilizzo il verbo scorrere perché questo stesso romanzo soggiace al paragone tra vita, letteratura e fiumi già evidenziato; esso fluisce liberamente trasportato dalle acque dei ricordi, tra diversi "Passati". I diversi periodi del testo sono tra loro legati non da coordinate temporali fisse, ma da sensazioni, emozioni, impressioni che fanno scattare il meccanismo del ricordo, portandoci avanti e indietro in luoghi diversi.
Mi piacciono soprattutto le descrizioni dei fiumi e dei paesaggi, sembrano raffigurazioni pittoriche, tanto vivide sono le immagini che evocano. Mi piace il modo in cui vengono tratteggiati i personaggi, la relazione di amicizia tra Federico, Fiona e Pablo, così intima e condivisa, così romanticamente idealizzata come i sogni di giovinezza; anche il modo in cui Federico si pone rispetto a ciò che visita: ad esempio quando immagina Franz passeggiare nei giardini chiedendosi se pensasse alla sua Sissi, alla fine dell'Impero oppure se semplicemente desse da mangiare agli uccellini.
La scrittura è affascinante, fa venir voglia di visitare i luoghi evocati, di leggere gli autori citati (e mangiare i cibi descritti!) ed è commovente al punto da muovere involontariamente alle lacrime.
Mi è davvero piaciuto!

Dominique Palladini (Alfiere della Repubblica Italiana)

Ricordi, immagini e parole che si richiamano l’un l’altre. Echi di passioni, segreti e dolori che s’inseguono. Luoghi percepiti come cari anche da chi ne ignorava l’esistenza perché luoghi di silenzi, di incontri, di vita. Piani temporali paralleli che tuttavia riescono ad incontrarsi nelle parole di una donna, emblema dell’amore vero e disinteressato. Dolcissima lettura che permette ad ogni“viandante” di riscoprire il cuore della propria umanità.
Marialucia Di Bona


CAPITOLO PRIMO


Campane


All’alba, seduto su una panchina sul ponte antico di Heidelberg, sotto il quale scorre eterno il Neckar, Federico scriveva una lettera. A quell’ora il ponte era libero dal chiasso dei turisti. Federico pensava a quando, anni addietro, sedeva su quella panchina insieme a un amico spagnolo e ad un’amica finlandese, e parlavano di letteratura, arte, storia, e di amori e speranze, e così scorreva la giovinezza, ma pensava anche a quanti altri s’erano seduti su quella panchina da quando il ponte era stato costruito. Ogni tanto gli veniva in mente il verso della poesia di Hölderlin “Sul ponte mi prese l’incanto/ nell’ora che ci passavo”. Quanti altri avevano scritto lettere seduti su quella panchina? Ogni tanto posava la penna e guardava il Neckar scorrere, ricordando passeggiate lungo la riva. Heidelberg era l’ultima tappa del suo viaggio ed era logico che finisse all’alba, perché all’alba era iniziato due mesi prima. Egli interrompeva la lettera, perché era difficile raccontare il viaggio. Si dice spesso che la vita è un romanzo, tuttavia scriverla, la vita, è difficile. Ecco, gli sarebbe piaciuto poter scrivere come fluiscono i fiumi, e del resto i fiumi come i romanzi alternano il loro ritmo. Ma c’era anche il fatto che Federico era nato e vissuto in un paese, a parte il periodo universitario, e per scrivere romanzi bisogna essere cittadini. In città ci si può sedere al tavolo di un Caffè, guardare le persone che camminano e immaginare mille vite; i paesi invece sono fatti per brevi storie.

Il pensiero andò di nuovo all’alba del primo gennaio in cui era iniziato il viaggio, una grigia alba dopo una notte insonne. Quella notte Federico l’aveva trascorsa cercando di riordinare alcune lettere, che giacevano ormai aperte sulla scrivania, mentre egli guardava dalla finestra il fumo grigio che saliva dai comignoli, segno che già le donne si erano alzate per preparare il pranzo della festa, fumo che si confondeva con il grigio del cielo. Finalmente suonò il campanello; Federico sapeva che era il suo amico Franco che veniva a prenderlo per accompagnarlo alla stazione. Piegò le lettere e le infilò nella tasca laterale della sacca da viaggio, poi se la mise a tracollo, salutò Anna, una badante ucraina che viveva con lui da sei anni, e scese velocemente le scale. Mentre saliva nell’automobile echeggiarono tocchi di campana, il cui lento ritmo annunziavano che un abitante del paese era morto. Federico guardò nuovamente il fumo dei comignoli e gli parve che esso insieme al suono delle campane salutasse lui e quella vita che se ne era andata per sempre.

Il Neckar nasce tra le paludi e scorre fino ad unirsi al padre Reno. Allo stesso modo nascono i romanzi: c’è prima un indistinto, paludoso rimuginare di idee, immagini, ricordi. Scorre a volte tra una serie di alte verdeggianti colline, creando un panorama bellissimo, altre volte rallenta il suo corso, curva, come nella narrazione si devia per le digressioni, poi di nuovo accelera e scorre veloce. Chissà quante storie potrebbe narrare quel fiume. Tra le tante c’erano anche le storie di alcune giornate di Federico, come quella della riconciliazione con le cipolle. In una giornata di Settembre, con il cielo nitido e terso come solo in Settembre accade, Federico aveva deciso di intraprendere una lunga passeggiata, aveva costeggiato il Neckar per quasi venti kilometri, fermandosi spesso ad osservare il paesaggio o a chiacchierare nel suo buon tedesco con qualche persona incontrata lungo il cammino; poi, nel pomeriggio inoltrato aveva traversato un ponte e s’era incamminato sulla via del ritorno. Finalmente a sera era arrivato a Heidelberg, stanco, soddisfatto per il cammino percorso e affamato. Si era seduto ad un tavolino all’aperto in un ristorante dinanzi a Leopold Brücke, aveva socchiuso gli occhi mentre giungeva dall’interno un forte odore di cipolle. A Federico non piacevano le cipolle, eppure aveva gradito quell’aroma. Il cameriere si avvicinò ed alla domanda dell’avventore aveva risposto che a quell’ora avevano pronto solo Zwiebeln Suppe; aveva allora ordinato una birra scura e mentre la sorseggiava il cameriere aveva portato al tavolo vicino una elegante zuppiera e nell’aprirla da essa si era sprigionato un intenso profumo, che, come si dice, aveva aperto ancor più lo stomaco vuoto di Federico. “Abbiamo solo la zuppiera per quattro” “Va bene”. Finalmente la cena fu servita: la zuppa era composta di cipolle, lenticchie, fagioli, pane nero abbrustolito sul fuoco e pezzi di carne di maiale cotti alla brace e ripassati nel vino Riesling. Federico mangiò l’intera porzione per quattro. La riconciliazione con le cipolle era compiuta.

In auto Franco raccontò la sua notte di capodanno: era una storia che Federico già conosceva, perché l’amico amava narrare il suo successo con le donne, che erano sempre brune e sensuali. A volte queste storie divertivano Federico, altre lo annoiavano, ma in quella mattina egli non ascoltava, non perché avesse sonno, ma perché i suoi pensieri erano lontani, divisi tra passato e futuro. Iniziava il suo viaggio di ricerca di una donna, ma non certo del tipo (se si può dire degli esseri umani che esistono tipi) di quelle che descriveva il suo amico; di quella donna Federico sapeva soltanto che esisteva e conosceva soltanto il cognome della madre, che aveva incontrato anni prima sul ponte, su quel ponte che sembrava dirigere i fili della sua storia e di quella di suo fratello. In fondo tutte le storie sono originali, perché nessuna è uguale all’altra, forse per il semplice motivo che cambiano sempre i personaggi. Le lettere che Federico aveva nella valigia erano della donna incontrata sul ponte, in un’alba di venti anni prima. Federico, nella sua permanenza a Heidelberg, svolgeva a sera il lavoro di cameriere in una birreria e si tratteneva fino a tardi per lavare i piatti, poi, dopo un brevissimo riposo, verso le quattro del mattino si recava in un forno a prendere del pane che metteva nel cestino della sua nera vecchia bicicletta, comprata di seconda o terza mano, e lo portava ad alcuni ristoranti; gli piaceva pedalare fra antichi vicoli, sentire il suono delle ruote sul selciato, respirare intensamente il profumo del pane e dei dolci appena sfornati. In una di quelle mattine, sul ponte vecchio, aveva conosciuto Iris, l’autrice di quelle lettere che lo avevano tenuto sveglio. Egli aveva cominciato dalla prima lettera, seguendo le date.

Caro Antonio,
Sono triste, non solo perché sei lontano e non so quando sarà possibile tornare a trovarti in Italia, nel tuo bel paese, ma anche perché in realtà dovrei farlo al più presto. Il viaggio di ritorno si è svolto con serenità, anche se tante ore in treno sono stancanti. Porto con me l’odore della tua terra, le voci del tuo paese, della tua casa, dei tuoi genitori, che sono stati tanti cari con me e che vorrei chiamare anch’io Mamma e Papà. Vedi, Antonio, ho qualcosa di importante da dirti, ma è difficile trovare le parole. Ecco, semplicemente, aspetto un bambino da te, sono incinta. Quando ho dato la notizia ai miei genitori, essi non sono stati contenti, ma adesso, che sono già al secondo mese, mamma è piena di cure e papà fa progetti sul suo futuro da nonno. In realtà non so se sarà un maschio oppure una femmina, ma a volte, a sera, racconto a questo piccolo essere che è dentro di me, del nostro amore, dell’Italia, dei suoi nonni lontani. Sappi che non ti sto chiedendo niente, ma mi sembrava giusto che tu sapessi. Se vuoi rispondermi, conosci il mio indirizzo e puoi chiedere a Federico anche di tradurre in tedesco le tue eventuali lettere. Spero di non aver commesso troppi errori.
Tua Iris
Heidelberg, 25 settembre 19**


Quando era giunta questa lettera, già si era verificato l’evento che aveva segnato la vita di Federico e dei suoi genitori: Antonio era morto investito da un’automobile! La scomparsa di Antonio aveva accelerato la vecchiaia del padre, che aveva resistito soltanto un anno, e della madre che era deceduta l’anno successivo. Così Federico era rimasto solo nella grande casa, ora troppo silenziosa. Le voci di cui parlava Iris in quella lettera non c’erano più e neanche gli odori. Federico non aprì la lettera, ma ne giunsero altre ed anch’esse restarono per lungo tempo chiuse nelle loro belle buste gialle, che recavano in basso il disegno di un castello. Aprire quelle buste e leggerle parve per lungo tempo a Federico indagare sulla vita segreta del fratello ed egli sapeva che è male voler conoscere il cuore altrui. Solo dopo vent’anni, solo in quella notte di capodanno aveva trovato il coraggio di violare quelle profondità che si celano nelle parole che gli amanti si scambiano. Era stato scosso dalla sua precedente prudenza, perché Iris, pensava, aveva atteso una risposta, un segno. Che fare? Scrivere spiegando le ragioni del silenzio, del suo e di quello tragico del fratello? In verità aveva scritto qualche parola, ma gli pareva che nessuna chiarificazione sarebbe stata sufficiente. Meglio leggere tutte le lettere.

Il Neckar scorre unicamente nella regione del Baden Wüttenberg ed esiste un rapporto profondo tra gli abitanti di questa regione ed il fiume; i ponti sono stati progettati da sapienti architetti e costruiti da mani di abili operai, i vigneti sono stati piantati e coltivati da contadini esperti, eppure è per la presenza del fiume che coloro che abitano le cittadine toccate dal corso d’acqua si sentono orgogliosi, quasi come fossero stati loro stessi a scavare il solco sul quale scorre e non il buon Dio o la natura indulgente. Anche i “Badischer” chiamano padre il Reno, ma non lo cambierebbero con il loro Neckar, che con la sua anima entra nelle loro anime. Anche la vita scorre come un fiume: possiede rapide, curve, rallentamenti. Vita, fiumi, letteratura! Se la letteratura è un oceano senza fine, i suoi affluenti sono i grandi romanzi e i ruscelli sono formati dai brevi racconti.

Federico aveva telefonato al suo amico e gli aveva annunciato la partenza, pregandolo di accompagnarlo alla stazione. Franco era stato sorpreso dalla richiesta, ma aveva ugualmente acconsentito, senza chiedere le ragioni dell’improvviso viaggio dell’amico. Giunto a Heidelberg, nella sua Heidelberg, cittadina alla quale aveva dedicato molti pensieri e poesie, Federico si era recato a casa di Iris, ma non l’aveva trovata. I genitori della ragazza – per Federico era sempre la ragazza che aveva conosciuto vent’anni prima sul ponte- lo avevano accolto educatamente, ma non certo con entusiasmo. Non fu facile spiegare le ragioni del lungo silenzio. Finalmente, dopo la difficile conversazione, la madre di Iris informò Federico che ella si era recata a Vienna per delle ricerche per il suo ultimo libro, uno studio sulla corrispondenza diplomatica austro-ungarica avvenuta subito dopo l’attentato di Sarajevo. «Si potrebbe telefonare ad Iris» disse la donna «ma credo che sarebbe difficile una lunga conversazione su un argomento così delicato»; «Lo credo anch’io, ma devo confessare che sono venuto non solo per questa spiegazione, ma anche per conoscere … » «Tua nipote?» «Come si chiama?» «Antonia, naturalmente!».
Federico sapeva che Iris non aveva odiato il fratello ed il nome della figlia era una conferma.

Caro Antonio,
Non voglio più chiederti le ragioni del tuo silenzio. All’inizio avevo pensato di rinunciare al bambino, ma non lo farò. Io sono favorevole all’aborto, tuttavia questa vita dentro di me è già parte della mia vita. E della tua! Quando passeggio racconto storie, fiabe, parlo della nostra bella cittadina, ma anche di te, dell’Italia, dei suoi nonni. Non temere, non userò questo figlio o figlia, ancora non lo so, per costringerti ad un amore che forse in te è finito, che forse è durato solo un’estate. E non sono certo pentita. Se non avessi conosciuto tuo fratello, se non avessi accettato il suo invito, tutto questo non sarebbe accaduto. Non voglio però scrivere la parola “addio”, perciò ti dico arrivederci …
tua (forse) Iris


Il treno che lo portava a Heidelberg superò la frontiera tra Svizzera e Italia. Frontiere! Egli pensava a quelle strane linee tracciate sulle carte geografiche che separano lingue, culture, modi di vestire e di mangiare. Ricordò una frase letta in un racconto di Hermann Hesse: “Varcare i confini è il Nirvana”. Le frontiere si varcano anche con dolore. Federico pensò ad Anna, la donna ucraina che viveva nella sua casa e che aveva assunto come governante dopo la morte di sua madre. Ella non aveva varcato i confini con gioia, ma con dolore. Aveva lasciato marito, figli, madre per cercare un luogo dove vivere con dignità. Pensò ai nonni armeni della sua ex alunna Sirvat, che erano riusciti a varcare i confini e i cui corpi giacevano da qualche parte sul Mussa Dag, ma erano stati tanto previdenti da far fuggire la figlia prima che si scatenasse la follia. E quanti uomini e donne del suo paese erano emigrati per non tornare mai più! Federico non aveva varcato confini con dolore e sebbene ora questo viaggio fosse legato ad una storia infelice, egli non si sentiva tormentato. Recarsi altrove lo allontanava dalle preoccupazioni quotidiane, lo proiettava in un’altra dimensione, faceva sì che si sentisse una persona diversa da quella che viveva nella grande casa con Anna. Il rumore del treno accompagnava i suoi pensieri; sotto le ruote scorrevano i binari, come scorre l’acqua di un fiume.


CAPITOLO SECONDO


Silenzi


Ugualmente scorrevano i binari verso Vienna. Federico trovò alloggio presso l’Hotel Austria, dove credeva di trovare Iris, che invece era già ripartita per un’altra città, ma il portiere non volle rivelare la meta. Disfatta la sacca e messo in ordine l’esiguo vestiario, verso mezzogiorno Federico uscì per visitare la città, che in realtà conosceva soprattutto dai romanzi letti. Non gli sembrava un caso che l’albergo si chiamasse “Austria”, anzi gli pareva che mancasse la parola “felix”. Decise che la prima tappa sarebbe stata Hofburg, ma proprio dinanzi alla residenza imperiale si avvide di avere fame o forse fu solo attratto dal nome del ristorante che suonava fascinoso e nostalgico “Kakaniehof” . Mangiò con lentezza, come era solito fare, guardando dai vetri della finestra i turisti che entravano ed uscivano da Hofburg, un piatto di gnocchi, una Wienerschitzel e una fetta di Apfelstrudel e bevve un bicchiere di Riesling. Poi incominciò la visita a Hofburg. Sul bianco scalone imperiale, coperto di un sobrio tappeto verde, si fermò e pensò al fruscio dei vestiti delle dame che si recavano a corte, onorate di partecipare alle danze. Ora invece si udivano le voci dei turisti, al cui flusso si accodò. Si può vivere e lavorare a Vienna come in un’altra città? Vienna è una città fantasma, qui tutto ha il sapore del passato e della storia, anche l’itinerario che si è costretti a seguire a Hofburg: appena terminato lo scalone bianco, coperto da uno spesso e sobrio tappeto color verde scuro, si è quasi obbligati a voltare a sinistra e ad entrare nel museo dedicato a Sissi. Tutti conoscono la storia dell’infelice Imperatrice, ma qui si respira il silenzio che la avvolse dopo il suicidio dell’unico figlio maschio Rodolfo, primo segno forse che l’Impero, ultimo sogno di uno stato sovranazionale dell’Europa, non sarebbe sopravissuto. Nella mente di Federico si formò l’immagine di Sissi seduta alla scrivania nell’atto di scrivere una lettera, ma la figura della principessa si trasformò in quella di Iris e nuovamente si sentì colpevole per i vent’anni durante i quali le lettere erano rimaste chiuse in un cassetto, in silenzio. Gli parve una colpa anche aver lasciato ora le lettere nella sacca, in albergo, ancora in una camera silenziosa. Intanto il gruppo a cui si era aggregato era giunto nella sala da pranzo. La tavola è apparecchiata, una candida tovaglia la veste come un abito nuziale, i bicchieri di cristallo splendono, i bianchi piatti sono cinti da un sottile filo d’oro, nel mezzo regnano insalatiera e fruttiera che terminano in alto con l’aquila bicipite sorretta dallo stemma asburgico, la croce bianca in campo rosso. In un angolo tace il grande camino. In tutte le stanze si trovano grandi stufe in piastrelle di porcellana. Gli imperatori provavano freddo. Sentivano freddo i soldati mandati a morire sui campi di battaglia per un mondo già spento, come il grande camino nella sala da pranzo. Nella mente di Federico si formarono le parole di un libro di Joseph Roth: Brindavamo su tavole apparecchiate alla morte(2). Per gli altri, per i futuri vincitori ardeva inestinguibile la fiamma dell’indipendenza e della nazionalità. Le guide turistiche non dicono chi sedeva dalla parte del camino, ma il buon senso suggerisce che un gentiluomo debba lasciare il posto alle donne e gli Asburgo erano gentiluomini. La sala è illuminata anche dai flash dei turisti, che poi lentamente sfollano. Federico restò solo a guardare ancora la tavola e sentì provenire da essa un silenzio infinito. La tavola è apparecchiata, ma non attende nessun commensale.
Scese lentamente lo scalone imperiale e ancora udì nella sua fantasia il fruscio delle vesti delle dame. Ora era nella sala del tesoro, dove sentiva realmente il lieve rumore delle vesti delle turiste, che forse immaginavano le collane, i diademi, gli anelli, reliquie di trascorse vanità, su di loro. In una delle vetrine una scultura di legno raffigura la morte di Ferdinando terzo d’Asburgo: l’opera, realizzata da un tale Daniel Neuberg (1621-1680), rappresenta otto scheletri intorno alla bara. I nomi segnano il destino? Daniel è il nome di un profeta; gli scheletri portano via l’Impero? Tra gioielli e vestiti l’opera è l’unica scena di dolore, ma forse anche abiti e monili che non saranno mai più indossati sono un segno del tempo che trascorre, degli Imperi che passano. Non resta che il silenzio.
Silenzioso era il giardino di Hofburg, dove finalmente Federico si trovò solo. Si comportava come un turista, ma non si sentiva tale e del resto era capitato a Vienna per caso; il suo viaggio aveva altre ragioni. Ora però, nonostante non lo volesse ammettere, era un turista. Non lo era stato a Heidelberg, città che, a suo dire, lo aveva adottato come un figlio. La sua vita era legata al Neckar, come quella degli abitanti del Baden: in riva al Neckar aveva scritto le sue prime fiabe, nella bella cittadina aveva scoperto fino in fondo la sua vocazione letteraria, sul ponte aveva conosciuto Iris. Nella sua anima il Neckar scorreva eternamente, anche quando ne era lontano. Per Iris ora si trovava a Vienna, passeggiando nel Burggarten: si trovò di fronte il monumento di Goethe. Chissà se i poeti meritino un monumento: quello dedicato a Goethe nel Burggarten è regale. Il poeta siede su una poltrona che pare essere un trono, le mani poggiate sui braccioli, guardando in basso, ma non sembra interessarsi di quanto accade sotto di sé, non sembra accorgersi del turista che giunge dalla scalinata e si trova sovrastato dall’imponente statua. Grandiosa è anche la figura di Mozart, che ha reso soprannazionale l’Austria più d’ogni Kaiser. Al Kaiser Franz Joseph Secondo è dedicato un marmo, ma egli non è ritratto in uniforme, bensì come un vecchio signore in borghese, con bastone e cappello. Forse l’Imperatore passeggiava nel parco dopo la morte dell’amata Sissi. Le sopravvisse, ma nell’Europa la regia imperiale monarchia stava morendo. Chissà a cosa pensava l’Imperatore durante quelle passeggiate nel parco? A Sissi, a suo figlio Carlo che non sarebbe mai stato un vero Kaiser, ai soldati inviati a combattere per difendere un mondo che anch’egli sapeva destinato a scomparire? O forse distribuiva soltanto briciole agli uccellini, come un vecchio in pensione, ma gli imperatori tramontano, non vanno in pensione. A Federico venne spontaneo augurare la “buona sera” alla statua, ma sottovoce, per timore di disturbare.
Si incamminò verso il centro. C’era abbastanza silenzio nelle strade; a Vienna non si è mai tra la folla come in altre città, ed anche questo era un segno della grandezza imperiale perduta, ma a Federico non dispiaceva il brusio sommesso, il camminare lento delle persone, che sembravano non essere state travolte dalla fretta che aveva segnato la modernità. Era ora in una grande strada, forse Karl o Joseph Straβe; gli era parso sempre ridicolo che la strada più importante di Heidelberg si chiamasse Hauptstraβe, ma comprese solo ora che quella designazione, Strada Principale, dava alla cittadina il carattere di una comunità cementata nel tempo della storia, fatta di storie di famiglie e di amicizia. Lasciandosi forse guidare dall’istinto, voltò in uno stretto vicolo; subito a destra la sua attenzione fu attratta dalla vetrina di un negozio di bambole: era un tripudio di minuti abiti di velluto, raso, seta, piccoli variopinti capolavori artigianali e la maestria della mano foggiatrice era vantata sull’insegna lignea incisa in caratteri gotici. Le bambole avevano quasi tutte i capelli biondi, solo qualcuna la chioma rossa, ma tutte una carnagione rosea o candida. Fra mille segni, questo gli apparve uno fra i più evidenti della Finis Austriae, del sogno di uno Stato sovranazionale nel quale più popoli, biondi o bruni, potessero vivere nel rispetto delle reciproche culture. “Ai miei popoli” iniziava l’Editto con il quale Franz Joseph secondo dichiarava guerra nel 1914. Bambole bionde! I grandi scrittori dell’Impero, Roth, Musil, Kafka erano bruni. Tempo dopo i loro libri bruciavano nei roghi insieme all’Europa in un incubo biondo. Mentre contemplava le Puppen dagli aurei capelli, vide riflessi nella vetrina un rabbino ed un giovane studente. Vestiti di nero i loro riflessi passavano inconsapevolmente fra le bambole bionde, ombre che passano fra l’ombra di un’Austria che fu, un’Austria non più felix, … ombre …
Di nuovo aveva fame. Di fronte al negozio c’era un ristorante. Entrò; una targa informava con orgoglio che in quel locale avevano suonato Haydn, Mozart e Beethoven. Mangiò un piatto di Rostbraten con cipolle e una fetta di Torta Mozart, forse in onore del compositore e della targa sul muro. L’odore delle costate di manzo arrosto e delle cipolle e, successivamente, della torta a base di crema di pistacchio, albicocche e mousse al cioccolato riempì l’olfatto ed il palato di Federico, come pure l’aroma dei due bicchieri di Tocai. Pagò il conto ed uscì. Non voleva ancora tornare in albergo e decise di entrare nella prima caffetteria. Aveva rinunciato al caffè espresso italiano per quello austriaco, che, sebbene acquoso, si poteva sorseggiare a lungo. Nel Café c’era poca gente ed egli poteva starsene raccolto in silenzio, guardando nella tazza la nera bevanda. C’erano tanti tipi di silenzio nella sua vita, anzi nella vita: il silenzio delle lettere rimaste chiuse nel cassetto, il silenzio delle partite a scacchi con il suo amico Renato, il silenzio delle biblioteche che frequentava, il silenzio della sua casa dove ora s’aggirava solo Anna, il silenzio delle ore che trascorreva accanto al camino leggendo, il silenzio delle aule della scuola dove insegnava quando, ogni mattina, arrivava molto prima che suonasse la campanella. C’era un altro silenzio colpevole, quello di una telefonata che aveva rimandato per lungo tempo: in quel tempo in cui abitava a Heidelberg, dove tutto il suo destino era stato scritto, una sua amica di università studiava a Lubecca, nella città di Thomas Mann, e Federico ne era innamorato. Quell’amore era nato nelle aule accademiche e sui gradini della facoltà, parlando di letteratura. Federico telefonò alla sua amica e chiese di poterla vedere e con sua grande gioia la risposta fu favorevole, nonostante egli non sapesse se il suo sentimento fosse ricambiato. Il giorno seguente, una domenica, viaggiò in treno fino a Lubecca, dove la incontrò. Come Federico, Patrizia, questo il nome della ragazza, studiava Germanistica. Nella città anseatica ella viveva con un gruppo di amici e per quella sera era prevista una cena al ristorante alla quale Federico partecipò, ma in quell’occasione comprese che il suo amore era senza speranza. Non si sentì né sconfitto né addolorato, né si sentì geloso del ragazzo tedesco che era seduto vicino a Patrizia. Passò il tempo della Germania per lui e per Patrizia, passò anche il tempo dell’università, ma ogni tanto si sentivano per telefono fino a quando la ragazza, ormai donna, gli annunciò le recenti nozze, non con il tedesco, bensì con un uomo di Roma, della sua città. Federico proferì i suoi auguri e sinceramente fu felice che la sua amica avesse trovato l’amore, tuttavia non la chiamò mai più, perché gli pareva di disturbare, di intromettersi in vite che non avevano più niente a fare con lui. Esistono però giorni in cui riaffiorano alla mente momenti che sembrano sepolti. Giunsero così alla memoria, dopo alcuni anni, i momenti trascorsi con Patrizia, le lunghe chiacchierate nei corridoi e sui gradini dell’università, la cena nel ristorante di Lubecca. Federico formò il numero di telefono ancora presente nella sua mente, ma la voce anonima annunciava che esso non esisteva; telefonò a casa dei genitori, scusandosi e dicendo che forse aveva perso il numero, ma il padre di Patrizia, che contrariamente alle abitudini delle famiglia aveva risposto, disse: «Lei non sa niente dunque? Patrizia ci ha lasciato». Federico non comprese immediatamente queste parole e replicò «Dov’è andata? Si è trasferita?», ma appena posta questa sciocca domanda capì e riattaccò il telefono, sconvolto. Il giorno seguente chiamò di nuovo e si scusò con la madre, che più tardi spedì una lettera narrando la terribile malattia della figlia e l’amicizia che aveva sempre serbato nel cuore per Federico.
Le strade di Vienna per le quali passeggiava Federico erano silenziose, c’era un vento lieve ma gelido e iniziavano a cadere piccoli fiocchi di neve. Dinanzi all’Hotel Austria c’era una cabina telefonica. Federico la guardò: sapeva che doveva telefonare a casa di Iris, ma rimandò.


CAPITOLO TERZO


Altri silenzi


La prima cittadina che il Neckar incontra nel suo corso è Rotweil: come suggerisce il suo nome, il colore predominante è il rosso dei tetti, che insieme al bianco delle strutture portanti degli edifici le conferiscono un aspetto da fiaba. Come ogni antica città, Rotweil ha l’orgoglio dei suoi monumenti: è la Kappellenkirche, la bianca chiesa gotica. Il grande poeta Rainer Maria Rilke detestava i campanili gotici, che gli sembravano, con le loro punte, lance dirette contro Dio. I tre portali sono decorati con statue; un bassorilievo ritrae un crociato in intimo colloquio con una donna. Forse l’ultimo addio!
Anche qui gli abitanti vivono insieme al fiume: nei giorni di festa si va a fare merenda sulla riva, dove i bambini giocano lieti; le mamme raccontano antiche storie delle ninfe del Neckar.


Nella camera d’albergo, già adagiato nel letto sotto il caldo piumone, Federico guardò il telefono, ma non allungò la mano. Guardò la sacca dove giacevano le lettere. Attraverso la stanza; tramite le luci della strada s’intravedeva la neve cadere copiosa. Silenzio delle lettere, silenzio del telefono. Rimandava la telefonata alla famiglia di Iris come aveva rimandato quella a Patrizia. C’era stato anche uno strano silenzio dell’amica, difficile da intendere. Durante la cena a Lubecca, che aveva segnato la definitiva rinuncia di Federico, Angelika, una ragazza che faceva parte del gruppo, gli si era rivolta: «Wann fährst du ab?» «Morgen» «Ach Schade!»(3). L’ultima esclamazione non aveva colpito particolarmente Federico, abituato a sentirla quasi come un intercalare del popolo tedesco. Tornato in albergo, a notte fonda qualcuno aveva bussato alla sua camera; la cameriera annunciò che c’era una visita. Angelika! Erano seguiti alcuni giorni felici, che a distanza di tempo sembravano irreali. Tornato a Heidelberg, quei giorni furono subito relegati nell’oblio e così anche più tardi a Roma, dove sentiva o vedeva ogni giorno Patrizia. Accadde che per due settimane Patrizia non fosse mai a casa, né frequentasse l’università. Infine ella rispose alla telefonata di Federico: «Dove sei stata?» «Scusa, Federico, ma è venuta un’amica di Lubecca e sono stata impegnata con lei» «Chi?» «Si chiama Angelika» «… E non mi hai chiamato?» «Perché, avrei dovuto?» «Sì!» «Perché?» «Domani ne parliamo all’università». Sui gradini della facoltà Federico raccontò a Patrizia la sua conoscenza (si dice biblica? ) a Patrizia, che rimase per un po’ in silenzio prima di dichiarare «Anche se l’avessi saputo, non ti avrei chiamato» «Perché, Patrizia? Mi hai fatto intendere che fra noi c’è solo amicizia» «Sì, Federico, ma tu davvero non capisci le donne!». Ancora adesso egli non capiva quel silenzio dell’amica, né quella risposta. Ancora adesso non capiva le donne. Con questi ricordi s’addormentò. All’alba Vienna era coperta dal manto bianco, ma c’era un bel sole. Federico guardò il telefono, ma decise di restare. Era pronto a trascorrere un’altra giornata da turista. Le strade erano più affollate del solito, da turisti e da ragazzi in visita d’istruzione. La Chiesa di Santo Stefano si trovava vicino all’albergo e questa fu la prima tappa. Si stava dicendo messa. Federico non era religioso, ma gli sembrò doveroso partecipare. Aveva sempre provato fatica nella posizione genuflessa, ma si inginocchiò quando tutti i fedeli lo fecero: essi però non restavano fermi nella postura, ma dondolavano lievemente; lo fece e la fatica scomparve. Pensò agli ebrei che aveva visto riflessi nella vetrina, che certamente dondolavano nell’atto della preghiera, pensò alla menorah che un giorno aveva rinvenuto nel solaio della sua casa. La sua casa silenziosa, con la croce e la menorah su un lungo tavolo posto ad un lato della sala da pranzo. Anna faceva il segno della croce al contrario. Anna si aggirava nelle stanze, donna venuta da una terra lontana, in cerca di una speranza. Nel suo paese era stata capo-infermiera ed ora vagava per le stanze silenziose accarezzando i vecchi libri di medicina del padre di Federico, li apriva e con sforzo e piacere leggeva i caratteri latini per lei insoliti e affascinanti. C’erano sui comodini vecchie ingiallite fotografie che ritraevano avi mai conosciuti, ma c’erano anche le foto che Anna aveva portato con sé, tra le quali una in particolare piaceva a Federico: rappresentava il bisnonno della donna ucraina, in costume nazionale, un kulaki a cui i sovietici avevano sottratto la terra, inizio di una vita avventurosa mai desiderata. Il vecchio kulaki aveva un atteggiamento fiero. Certamente parlava anche la lingua tedesca, perché a quel tempo quella terra sui Carpazi faceva parte del grande Impero asburgico.
Federico scambiò il segno della pace con un vecchio signore dai lunghi baffi bianchi, simili a quelli che incorniciavano il volto del bisnonno di Anna, e si allontanò lentamente, mentre ancora risuonavano le parole del sacerdote. Baffi asburgici! Il freddo era pungente, ma non c’era vento. Come il giorno prima, non aveva deciso alcun percorso e si faceva guidare dai suoi stessi passi, che lo conducevano da qualche parte. Da qualche parte! L’ubriacone Marmeladov dice a Raskolnikov in “Delitto e castigo” che ciò che è importante nella vita è avere qualche parte dove andare. Non è vero. La provvisorietà può essere più felice della vita sicura. Quando era stato studente e aveva lavorato per mantenersi, aveva vissuto periodi felici, poi quando, dopo la laurea, era stato assunto definitivamente come insegnante, la sua famiglia non esisteva più. Definitivamente! Quale vita può esserla? Tutti gli uomini sono precari, come gli Imperi. Federico si trovò dinanzi alla Cripta dei Cappuccini. Appena si entra sul muro, al primo pianerottolo, si legge a lettere cubitali la parola “Silentium” ed in silenzio egli scese le scale. Aveva visto molti monumenti nella sua vita, ma dinanzi ai resti dell’antica Roma o dinanzi a mura ciclopiche si pensa alla grandezza, mentre vicino ai sarcofaghi degli appartenenti alla famiglia imperiale si sente la transitorietà. L’unico sepolcro di fronte al quale ci si avvede della grande storia è quello di Maria Teresa. Nei nomi c’è il destino: il suo era duplice come la Regia Imperial Monarchia.
Federico risalì le scale quasi con fretta; ora voleva camminare per strade affollate, immergersi nel chiasso della vita, sentire voci, chiacchiericci, il brusio della città. Ma nevicava e la gente era poca. Entrò in una Konditorei ed ordinò una fetta di Sachertorte. Nel negozio di vecchie fotografie aveva comprato alcune cartoline e un piccolo calendario fatto dei quadri di Egon Schiele. Anche le bambole ritratte sulle cartoline erano candide e bionde. Le cartoline sono un vero culto nella capitale austriaca: raffigurano ogni aspetto della vita cittadina, pietanze, sale da bigliardo, quotidiani, mercati, valzer, Café, ristoranti, gente a passeggio. La cameriera era bionda.
Nei Caffè la Mitteleuropea è diventata eterna. Joseph Roth ha narrato su uno di questi tavoli la fine di un mondo, Stefan Zweig ha raccontato “Il mondo di ieri”, Egon Schiele ha vissuto il suo delirio ed ora i suoi quadri sono anche immagini per calendari: l’eternità per sfogliare il tempo appeso alla parete. Brindò in solitudine con il bicchierino di Kornschnaps, nessuno sedeva davanti a lui, ma non si sentiva solo, c’era l’Austria dei libri di Roth, Rilke, Musil, l’Austria dei libri, la sua Austria di carta!. I protagonisti de “La cripta dei cappuccini”(4) brindavano intorno a tavole imbandite intorno alla morte, che attendeva nei campi di battaglia. Chi tornò non trovò più il mondo che aveva lasciato. Chiese il conto e si diresse verso il telefono.
Mancava una visita che Federico sentiva come un obbligo morale: Mayerling! Nella Cripta dei Cappuccini la tomba di Maria Vetsera era assente. Dante fu più pietoso con Paola e Francesca e concesse loro l’eternità insieme, invece il sepolcro della baronessa è in qualche luogo di cui le guide turistiche non fanno menzione.

La mattina scorreva lentamente, come il Neckar sotto di lui. Udì lo sferragliare di biciclette. Senza alcuna ragione riaffiorò alla memoria il sorriso di Angelika. Si voltò in un’assurda speranza: erano ragazze giovani che attraversavano il vecchio ponte come aveva fatto lui tanti anni prima. Il volto di Angelika scomparve nell’acqua del fiume. L’appuntamento era per mezzogiorno; aveva ancora molto tempo per scrivere. Il tempo appeso alla parete! Forse Angelika qualche volta, sfogliando il calendario appeso al muro della cucina, pensava a quei pochi giorni lontani. Si erano seduti su molte panchine e molte panchine c’erano state nella vita di Federico sulle quali aveva scritto lettere, poesie, impressioni.


CAPITOLO QUARTO


Persone


I periodi della vita sono fatti di persone, ma anche di libri. Seduto su panchine Federico aveva soprattutto letto. I periodi della vita sono fatti di libri, ma anche di persone.

Sul ponte iniziavano a transitare i primi mattinieri turisti. Federico non si voltava; da uno scrigno oscuro della mente giunse il ricordo di Pablo e Fiona, dell’ultima sera che si erano incontrati, ma non avevano parlato, erano restati in silenzio. “Nella vita è importante avere un posto dove andare”; essi lo avevano e in silenzio si scambiavano i rispettivi indirizzi, consapevoli che non si sarebbero mai più rivisti. Per quel lungo periodo avevano sì avuto un posto dove andare, ma erano stati coscienti della sua provvisorietà, nondimeno si erano sentiti adottati dalla cittadina e soprattutto dal fiume. Tornare a casa: come il Neckar viene accolto dal grande padre Reno, tornavano nella vita delle loro famiglie, delle loro piccole o grandi città. Quella vita a Heidelberg svaniva, si confondeva con altre diverse vite, come le acque del loro fiume si mescolavano irriconoscibili con altre acque. Erano stille fra altre mille stille, come le lacrime trattenute che gonfiavano i loro occhi e che avrebbero liberato più tardi in solitudine, perché la giovinezza non permetteva ancora di capire la bellezza di un viso solcato dal pianto. I turisti sul ponte aumentavano con il procedere delle ore. In un romanzo di Charles Dickens sarebbero apparsi Pablo e Fiona o Angelika, ma non accadde, non perché la vita non è un romanzo, bensì semplicemente perché non accadde. I periodi della vita sono fatti di persone, ma anche di libri.

Al periodo della lettura dei romanzi di Charles Dickens era legata la conoscenza di Renato, l’amico con il quale Federico giocava interminabili partite a scacchi. Anche questa esperienza era avvenuta su una panchina, al paese. Renato gli si era avvicinato e gli aveva chiesto se fosse disposto ad insegnargli il nobile gioco. Naturalmente con il tempo Renato era diventato molto più bravo di Federico, ma ciò importava poco, perché la loro amicizia era divenuta sempre più profonda. I libri e le partite a scacchi con Renato, giocate d’inverno vicino al fuoco, avevano alleviato il dolore seguito ai lutti. Forse per questo solo a Renato Federico concedeva in prestito libri, dei quali era geloso. In realtà li concedeva anche alla sua ex alunna Sirvat. Non gli era mai piaciuta la nuova moda dei nomi stranieri, tuttavia di fronte a quella ragazza sorridente, dal nome insolito, nella sua anima era entrato qualcosa – non avrebbe potuto definirlo – di esotico e affascinante. Il nome, le aveva spiegato la ragazza, era in onore dei nonni armeni, i cui corpi giacevano insepolti sul Mussa Dag, vittime del primo genocidio del Novecento. Sirvat era nata in Italia e aveva ascoltato dalla madre il racconto della fuga. Sognava di andare un giorno su quel lontano monte per piantare una croce in memoria dei suoi avi, sognava di scrivere un giorno un romanzo che narrasse l’esodo della madre. Federico le aveva donato il libro di Franz Werfel “I quaranta giorni del Mussa Dag”, quando era ancora sua allieva. Sirvat tuttavia amava anche i castelli e le fiabe. Più tardi, dopo il diploma e la sua laurea, ella era divenuta una cara amica. Una cara amica dal dolce sorriso. Avrebbe scritto un romanzo, un giorno, le aveva detto Federico. Esodi! Anna aveva vissuto un esodo diverso, ma pur sempre un esodo, una fuga, finita diversamente, ma Federico pensava spesso a quel viaggio avventuroso, pieno di paure e speranze. Ricordava quando aveva conosciuto Anna: gli occhi vagavano inquieti, timorosi, perplessi. Anna si adattò presto a vivere nella sua casa e ai silenzi prolungati per giorni di Federico. Erano i silenzi per le persone scomparse della sua famiglia, ma c’erano anche i silenzi di Anna, che pensava ai figli, ai nipoti, alla madre, che aveva lasciato in quelle terre lontane. Ella pensava a Federico, come fosse un altro figlio trovato per caso e gli faceva le raccomandazioni che tutte le madri fanno.
Federico telefonò ad Anna. “Federico! Finalmente. Mi fai stare in pensiero. Dove sei? Hai mangiato?” “Sì, certo. Sono a Vienna, ma dovrò partire presto” “Quando torni?” “Non torno adesso. Devo continuare il viaggio. Stai bene? Renato, gli animali?” “Tutti dobre! Federico”. Piaceva a Federico il linguaggio di Anna, che aveva imparato bene la nuova lingua, ma nelle frasi ogni tanto immetteva una parola slava. Doveva telefonare ancora: seppe che Iris era a Budapest.

Procede il Neckar tra piccole e grandi cittadine il suo corso verso il Reno, tocca Tübingen, dove morì Hölderlin, che si chiuse in una torre per quindici anni, ma anch’egli rese omaggio a Heidelberg: “A lungo ti ho amato, te, la più paesana/ di quante vidi città della patria (…) Sul ponte mi prese l’incanto nell’ora che ci passavo”. Scorri, Neckar, fiume di sogno, ma lentamente lascia sognare i tuoi amanti, cullati dalla visione delle tue femminee anse, delle tue albe e dei tuoi tramonti, che mille e mille lingue si mescolino nel tuo flusso eterno, che mille poeti con mille diversi idiomi si ispirino lungo le tue rive ed i tuoi ponti, lascia che sapiente il contadino curi i suoi vigneti. Scorri, Neckar, nel cuore dei tuoi amanti, ascolta le grida liete dei bambini che giocano sulle tue rive, ascolta lo sferraglio delle biciclette tra i vicoli delle tue antiche cittadine, guarda i giochi dei bianchi cigni sulle tue sacre acque, culla col il tuo mormorio eterno i passi stanchi dei viandanti. Lascia che stanco il viandante sieda sulle panchine sparse sulle tue sponde e goda del tuo azzurro, struggendosi di nostalgie.

C’era nella vita di Federico un’altra panchina, a cui pensava spesso: una sera di festa al suo paese aveva conosciuto una fanciulla, appena sedicenne e, su una panchina appartata dove arrivava lieve il brusio della gente a passeggio e la musica della banda, avevano parlato a lungo. Con il tempo Federico si era innamorato o forse lo aveva soltanto creduto ed una ultima sera di un anno – egli non ricordava quale – aveva chiesto alla ragazza di uscire, ma ella sorridente aveva ringraziato per l’invito dicendo che era già impegnata. Così era svanita. La ragazza si era sposata pochi mesi dopo. Ogni volta che Federico la incontrava, nella sua mente appariva la panchina, ma vuota, le luci della festa, il suono lontano della fanfara. In verità ogni tanto Federico le consegnava qualche poesia, che forse ella gettava nel cestino o forse conservava in qualche scrigno segreto, chiuso per essere riaperto per caso fra molti anni, poesie chiuse e silenziose come erano state chiuse le lettere di Iris. Quante lettere non sono mai giunte al destinatario, perdute o mai spedite? Una letteratura segreta e silente che nessuno mai potrà leggere.


CAPITOLO QUINTO


Verso Est


Federico salì in treno, diretto a Budapest, verso Est. Da est era venuta Anna, da Est proveniva Sirvat. Federico guardava dal finestrino l’andirivieni della folla nella stazione “Franz Josefs Bahnhof”.

C’era nella stazione di Heidelberg una grande bacheca di vetro con dentro un modellino di una parte della ferrovia tedesca e con cinque pfenning si potevano vedere piccoli treni partire, viaggiare, incrociarsi. Pablo, Fiona e Federico ogni tanto cedevano alla loro parte infantile e lasciavano viaggiare i modellini, sognando di viaggiare un giorno insieme per il vasto mondo, verso sud, ovest, nord, est.

Il treno partì lentamente, dinanzi a Federico sfilavano le panchine vuote poste sulla piattaforma del binario, che non avrebbero mai potuto narrare l’umanità che in quel luogo si era incontrata o che si era detta “addio” per sempre. Tra Iris ed Antonio non c’era mai stato nessun addio. Come aveva vissuto quel silenzio, dovuto a Federico? Egli provava ad immaginarlo, a mettersi al posto di Iris, ma, sebbene conoscesse Iris e la sua casa e sebbene abituato a leggere romanzi, gli risultava difficile figurarsi al suo posto. Gli era molto più facile essere Ulisse nella terra dei Ciclopi o Capitan Achab a caccia della balena bianca. Che cosa aveva pensato Iris? Che cosa aveva detto alla figlia? Queste domande risuonavano nella mente di Federico come quelle di un giudice convinto della sua colpevolezza. Poteva riparare dopo tanto tempo? Formulava il discorso che avrebbe fatto ad Iris, una, due, tre volte, cambiava le parole ed il tono, ma ogni giustificazione sembrava inadeguata. Sua era totalmente la colpa. Ormai le case di Vienna in lontananza apparivano piccole.

Vienna, 19**
Carissimo Antonio,
sono ormai al quinto mese di gravidanza. Ti scrivo pur sapendo che non mi risponderai mai più. I miei genitori hanno insistito per un viaggio a Vienna. È una città stupenda e piena di suggestioni. Sai, spesso, ascoltando il nostro accento tedesco, i camerieri nei ristoranti e nelle Konditoreien ci guardano con una certa ostilità. Gli austriaci non amano i tedeschi, ma non importa, sono felice egualmente per essere venuta. Felice? Mi pare strano usare questa parola che prima associavo soltanto al periodo trascorso con te, in Italia. Sai, ieri pomeriggio si giocava una partita di calcio tra Austria e Germania; naturalmente io non la guardavo, ma eravamo in un Café ed era inevitabile sentire il telecronista. Ha fatto Tor un austriaco, ma la gente nella caffetteria ha esultato con molta correttezza. Ho pensato che in una vostra pizzeria si sarebbe scatenata una festa ad una rete dell’Italia. Nei locali qui la gente parla sommessamente, mentre da voi c’è sempre chiasso. È forse un rapporto diverso con la vita. In realtà, quando ero in Italia, non mi piaceva questa esuberanza, ora mi manca. Ho poco, mi dico spesso, da essere felice, invece a dispetto di tutto lo sono, a dispetto del fatto che tu non mi scriva, a dispetto di aver dovuto cambiare i miei progetti di vita per la mia condizione. Tu non scrivi e in realtà avevo pensato anche di venire, ma ho cambiato idea. Non so quali ragioni ti inducano a non farti più sentire e non voglio più conoscerle. Non c’è rabbia in me, solo un po’ di delusione, che con il tempo passerà, soprattutto dopo la nascita del nostro bambino, anzi del mio, perché credo che non sia più tuo, nel senso che un padre per essere tale deve essere presente, vedere, giocare con il proprio figlio. Ho detto bambino, ma non so se sarà maschio o femmina.
Iris


Sua era totalmente la colpa. Nel periodo di studio a Heidelberg aveva conosciuto Iris sul ponte vecchio all’alba e la sera ella era arrivata come cliente nella birreria dove egli esercitava il mestiere di cameriere. Quando Iris aveva chiesto il conto, Federico aveva risposto “Nichts” e aveva pagato lui stesso, forse per il sorriso della ragazza, forse perché ci sono gesti che si fanno senza ragione. Si erano incontrati altre volte nella Hauptstraβe e qualche volta Iris, passando dinanzi alla panchina, si era seduta insieme con lui, Pablo e Fiona. Una sera tuttavia Federico era arrivato molto presto e sedeva da solo; passò Iris che gli augurò la buona sera in italiano. Seppe solo allora che la ragazza aveva studiato la lingua italiana: «Perché non mi hai detto che parli italiano?» chiese Federico; «So che siete qui per imparare il tedesco e poi ho sempre paura di sbagliare» «Era così anche per me nei primi giorni in Germania, ma poi la paura è passata». Era una strana conversazione, perché Federico parlava in tedesco ed Iris in italiano. Arrivarono infine Pablo e Fiona ed uno dei due chiese ridendo «Vi capite?». Il gruppo scoppiò a ridere, di quel riso incontenibile, stupido e meraviglioso di cui solo i giovani sono capaci. Iris divenne la loro amica tedesca. Una sera la ragazza invitò gli amici stranieri a cena, nella sua casa situata sulle pendici dello Spitzberg, il monte che sovrasta Heidelberg e che ha orgogliosamente lo stesso nome di un’isola della Groenlandia. Nonostante il nome, il declivio è ricco di vigneti. Mentre i tre ragazzi salivano e si voltavano di tanto in tanto ad ammirare il paesaggio, che come sempre li incantava, Federico pensava al vigneto di sua madre, alle vendemmie fatte insieme con tutta la famiglia quando era ancora bambino, al canto delle donne che riempiva la collina. Giorni semplici e felici! O forse felici soltanto nel ricordo! Il cancello era aperto e introduceva in un viale di ghiaia ai cui lati stavano, come antichi guardiani, alti ontani. Apparve Iris con due grossi pastori tedeschi al lato per dare il benvenuto ai tre nuovi amici stranieri. Entrarono nella grande villa di legno. I tre ragazzi si guardavano attorno incuriositi: era la prima volta da quando erano nella cittadina che entravano in una casa privata. Essi erano abituati alla scuola, alla loro piccola cucina nel Wohnheim, ai Gasthäuser ed erano felici di questa nuova amicizia, che li rendeva un po’ più cittadini di Heidelberg. C’erano, come in tutte le case, fotografie appese alle pareti e poggiate sui tavoli. Furono introdotti prima nella biblioteca. I ragazzi non accettarono l’invito di Iris a sedersi, ma si aggiravano nella stanza guardando i libri, che non erano solo in tedesco, ma anche in francese, in italiano e qualcuno anche in russo. Federico si sentiva a casa solo tra i libri; i libri erano il suo nutrimento spirituale, ma non solo spirituale: egli li guardava, li toccava, li odorava e quest’odore era quello della sua vita. Entrarono i genitori di Iris e si presentarono stringendo forte le mani dei ragazzi. Dopo qualche parola per informarsi da dove provenissero i tre stranieri, la conversazione sembrava finita, ma Pablo la rianimò, non piacevolmente tuttavia. Era il 13 agosto ed in Germania era quasi una giornata di lutto: il 13 agosto del 1961 a Berlino era iniziata la costruzione del muro che avrebbe diviso per tanti anni molte famiglie. Fiona temeva che il discorso potesse cadere sul nazismo e riuscì a cambiare argomento, non senza qualche occhiataccia a Pablo ed a Federico, che in verità non era affatto intervenuto, tuttavia seduti sulla panchina avevano spesso parlato di come si sentissero ora gli ex-combattenti della Wehrmacht o addirittura chi aveva fatto parte delle SS. A Federico veniva spesso detto, quasi come un rimprovero, che in fondo lui si sentiva innocente, visto che suo padre, durante il fascismo, indossava la cravatta all’anarchica e che era stato perfino proposto per il confino. È facile essere dalla parte giusta, più traumatico essere discendenti di colpevoli. Passarono nella sala da pranzo. Ben presto fu servita la cena, quella cena in cui era iniziato il destino. Fu allora che Federico invitò Iris in Italia. E giunse presto settembre e il viaggio di ritorno e presto fu amore tra Iris ed Antonio.
Il treno entrava nella stazione di Budapest. Budapest, porta d’oriente, ma quale oriente? Da quali ignote terre proviene il popolo magiaro? Quale lingua misteriosa è mai questa? Dall’est lontano o da folte e silenti foreste? Budapest non è silenziosa, anzi è l’esatto contrario di Vienna: se nella capitale austriaca non si è mai tra la folla, qui si è sempre nella moltitudine. Non c’è strada o vicolo che non sia occupato da più gente di quanta vi possa in realtà entrare. Si cammina sfiorando di continuo i passanti, tra chiasso ed odore forte di cipolla. Fu questa l’impressione di Federico mentre usciva dalla stazione e si avviava verso l’Hotel Saturnus, dove aveva prenotato e dove sapeva essere Iris. Iris era uscita; Federico immaginò che fosse andata in biblioteca. Con una cartina in mano si propose di cercarla. Era mattina e si fermò in un Café per fare colazione. Seduto con la sua tazza di caffè e una fetta di torta di mele guardava uomini e donne che passavano. Vite che si sfiorano e forse non s’incontrano o forse s’incrociano in un altro luogo e in un altro tempo: fili infiniti tessuti che intessono una fitta ragnatela, così come un romanziere intesse la sua narrazione. Interviene un caso imprevisto e distrugge il paziente lavoro, la mano della donna delle pulizie per il paziente ragno, una dimenticanza o un ricordo improvviso per il letterato. Ma il caso imprevisto esiste nella vita di chiunque e lacera progetti e speranze. La morte di Antonio aveva cambiato la vita dell’intera famiglia di Federico ed anche la casa non era stata più la stessa, perché una casa è costruita solo esternamente di mattoni e cemento, mentre è fatta dalle persone che vi abitano. Erano cambiati gli odori e le voci nella sua grande casa. Voci strane quelle di Budapest! Federico camminava tra la folla e sentiva parole del tutto nuove, mentre a Vienna la lingua, le parole o i lacerti di frasi, percepite per strada, sebbene in un accento non noto, risultavano familiari. Era diretto in biblioteca e tra i libri si sarebbe sentito a casa. Straniero ovunque, la patria di Federico era tra le pagine sfogliate con amore, era sulla panchina a Heidelberg e su altre mille panchine, era in qualche taverna dove su un vecchio tavolo aveva scritto una poesia o una lettera d’amore mai spedita. Entrò nella Biblioteca Nazionale Széchényi, cercando subito con lo sguardo. Ragazze e ragazzi e qualche persona attempata stavano seduti attenti allo studio ed alla lettura. La sua mente non poté non andare alla sua amica Patrizia, a quel tempo durante il quale avevano frequentato molte biblioteche e avevano parlato di libri, o almeno lo avevano creduto, perché parlare di libri è parlare d’amore. Quante parole taciute c’erano state tra quei discorsi! Che aspetto avrebbe avuto oggi Patrizia? Che aspetto aveva Iris? L’avrebbe riconosciuta? Non ce ne fu bisogno, perché non la trovò. Bisognava andare in un’altra biblioteca, alla Biblioteca dell’Università e, se qui non ci fosse stata, alla Biblioteca Ervin Szabò. Non trovò Iris. Forse era già andata via, ma Federico iniziò a temere che si fosse attardato troppo a lungo per la colazione e contemporaneamente lo sfiorò il pensiero che in realtà non volesse trovarla o per la difficoltà del discorso che avrebbe dovuto tenere o perché in fondo lo affascinava il viaggio e la stessa ricerca. Questa idea fece sì che egli si sentisse colpevole come per le lettere chiuse nel cassetto per vent’anni e di conseguenza che avesse fretta di tornare all’albergo. Uscito dalla biblioteca, chiamò un taxi. Dal portiere seppe che Iris aveva lasciato l’albergo, ma Federico non chiese per quale destinazione, memore della riposta del portiere dell’Hotel Austria. Era un errore, perché il magiaro avrebbe parlato dietro una discreta mancia. C’erano altre domande che torturavano Federico: “Perché i genitori di Iris non avvertivano la figlia che egli la stava cercando, o, per essere più precisi, inseguendo? O l’avevano fatto ed Iris fuggiva da lui, da un passato che aveva cancellato dalla propria vita?”. Nelle lettere non c’era un sentimento di rancore o di astio. Non aveva voglia di ripartire subito, sebbene sapesse che un altro ritardo avrebbe acuito in seguito il suo senso di colpa. Chiamò un altro taxi e chiese all’autista di percorrere due volte, ovvero in un senso e nell’altro, le rive del Danubio. Mentre l’auto scivolava lentamente, Federico non riusciva a fare a meno di pensare al Neckar, alla sua panchina, a Pablo e Fiona. Dove erano ora i suoi amici? Qual era stata la loro vita, il loro destino? Le acque del Danubio si mescolavano con quelle del Neckar. “Fahren Sie nach Buda, bitte” chiese Federico. L’auto traversò il Ponte delle catene, ma egli non provò l’incanto che provava sul ponte vecchio di Heidelberg, anzi gli vennero in mente le stragi di ebrei che le frecce crociate fecero sulle rive del Danubio. Come è possibile che un popolo così allegro possa giungere a simili mostruosità? Era un discorso fatto già mille volte con Pablo e Fiona: la Germania non era forse il popolo di Goethe e Beethoven? Weimar non era stata forse la repubblica dei geni del Novecento? Quale follia aveva indotto il popolo tedesco a credere in un pazzo e soprattutto a non voler vedere cosa accadeva al vicino ebreo, omosessuale, disabile, testimone di Geova o agli zingari, i cui carrozzoni scomparivano da un momento all’altro senza lasciare traccia? Ironia della storia: Lager significa giaciglio e Buchenwald significa bosco di faggi! Echeggiavano questi discorsi nella memoria di Federico.

«È così. Non ci può essere spiegazione alcuna di ciò che accadde» disse qualcuno dei tre seduti sulla panchina.
«La storia è come la letteratura: non deve darci spiegazioni, ma indurre a fare domande».
«Non sono d’accordo. La storia è veramente maestra di vita, ma occorrono anche buoni allievi e la maggioranza degli uomini non lo è».
«Allora tu credi che possa accadere ancora?».
«Non lo so, ma posso chiederti una cosa? Noi amiamo la letteratura, l’arte, la filosofia, la musica. Quali sono i periodi più floridi culturalmente nella storia dell’Europa?».
«Credo la Grecia di Pericle, il Rinascimento italiano e la Repubblica di Weimar?».
«Lasciamo stare la Grecia, ma pensa che il Rinascimento ha messo al rogo più streghe del Medioevo. Concentrati su Weimar. Quello che hai detto è vero ed è per questo che è inquietante».
«Non ti capisco».
«C’è una domanda che devi, anzi che dobbiamo porci: la cultura è un limite alla barbarie? È questo il dubbio che ci ha lasciato la storia del Novecento».
«E tu hai una risposta?».
«No. Ma non sono le risposte importanti, bensì le domande. Se sappiamo le domande giuste, forse, dico forse, possiamo costruire un mondo migliore di quello che è stato fino ad ora».


Quella conversazione doveva essere continuata a lungo, ma Federico non ricordava chi avesse detto quella o quell’altra frase. Ora, a distanza di tempo, gli pareva una magnifica conversazione ma giovanile. Costruire un mondo migliore! I grandi ideali della giovinezza erano stati portati lontano dalla corrente del Neckar e poi erano sopraggiunte le preoccupazioni quotidiane. Grandi ideali! Federico era sceso dal taxi e guardava il monumento al partito comunista ungherese. Il comunismo non era stato un sogno? E la sua morte era iniziata qui, a Budapest, con la rivolta del 1956. Un sogno tradito! Per quel tradimento uomini e donne erano morti, chi per affermarlo, chi per opporsi ad esso. Anna, la sua amica ucraina, che ora vagava nelle stanze silenti della grande casa, aveva vissuto il sogno e la tragedia. Uomini e donne della sua famiglia avevano combattuto per la bandiera rossa o erano stati mandati in qualche Gulag, quando avevano iniziato a dubitare. In ogni uomo, anche nel più irreligioso, c’è la speranza di un messia, si chiami Cristo o Marx, un messia che possa dare dignità ad ogni uomo. Erano discorsi giovanili, invece ora incombeva la sfera personale, la tragedia di suo fratello Antonio e la missione che si era proposto. Doveva tornare all’albergo. Iris era partita. Per Berlino seppe dalla famiglia.


(continua seconda parte)

1) Kakanie è parola formata dalle iniziali di Königliche Kaiserliche Monarkie (Regia Imperial Monarchia. Nell’alfabeto tedesco k = ka
2) Roth, Joseph, La cripta dei Cappuccini, Adelphi
3) «Quando parti?» «Domani» «Peccato!»
4) Roth, Joseph, La cripta dei cappuccini, Adelphi, 2007