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Mario Amato
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ALTRI FRAMMENTI
 
Budapest 1986

Arriviamo a Budapest in un caldo giorno d’Agosto e la città è affollata. Siamo capitati nella giornata durante la quale si festeggia Santo Stefano d’Ungheria ed anche i cinquant’anni dalla fondazione del Partito Comunista; inoltre la città ospita un congresso di ottomila medici da tutto il mondo. È difficile anche camminare, ma risuonano lingue diverse, forse come ai tempi dell’Impero che Sissi rese duplice, aggiungendo l’Ungheria.
Nei ristoranti le cameriere indossano i costumi tipici e non ci si può liberare dalla musica dei violini gitani, ma c’è un’aria festosa in ogni strada. Eppure Budapest visse la prima rivolta contro il predominio russo nell’Unione Sovietica.
“Varcare le frontiere è il nirvana” scriveva Hermann Hesse. Dovunque si vada in Europa si sente pur sempre di appartenere ad una cultura comune, nonostante le lingue diverse, nonostante o forse per le antiche guerre, ma la vera frontiera si varcava soltanto nella Mitteleuropea, quando si entrava in Ungheria. È la porta dell’Oriente, ma di un Oriente che non si trova in nessuna cartolina o canto, perché nessuno conosce le origini di questo popolo e ancor meno della lingua magiara. È la terra di Attila, del quale i libri di scuola scrivevano “dove passava non cresceva più l’erba”, ma che il Nibelungenlied (il canto dei Nibelunghi) descrive come magnanimo signore. L’Ungheria è stata fascista e comunista, è centro e oriente d’Europa, è la terra della aristocratica e difficile musica di Franz Lizst e della musica popolare dei violini e delle fisarmonica che risuona nelle strade e nelle taverne, è la terra dello spirito di rivolta del 1848, uno spirito indomabile che solo la femminilità di Sissi vinse, ed è la terra della prima ribellione al dispotismo russo nell’Unione Sovietica. È terra piena di contraddizioni, come ogni grande terra e ogni grande popolo. Chi visita Budapest non potrà dimenticarla, come non dimenticherà il sapore forte della paprika nell’ottimo gulasc e la morbidezza del vino Tocai.


Montecassino 2004
MEMORIE DI MEMORIE

I ragazzi tedeschi hanno ricambiato la visita: li conduciamo a Montecassino, in verità soprattutto per volere dei loro insegnanti. Montecassino ha una infinità di significati per i tedeschi: qui si è consumata una delle più terribili e forse inutili battaglie della seconda guerra mondiale. Per me ha un significato del tutto diverso.
La guida, una bella ragazza che parla un ottimo tedesco, ci conduce in un sotterraneo attraverso una stretta e buia scala e ci mostra una roccia sulla quale si sarebbe seduto San Benedetto e avrebbe lasciato la sua forma; la ragazza ci indica ancora il luogo dove San Benedetto si inginocchiava a pregare. La memoria corre a mio padre, che raccontava i tempi in cui i monaci conducevano gli studenti a pregare in quel luogo oscuro alle ore quattro della mattina. Non era un ricordo piacevole per mio padre, che mai più volle mettere piede sul famoso monte, forse generatore di una parte della cultura europea, custode certamente di tesori bibliografici e artistici, nascosti ai visitatori.
La visita continua nelle parti più alte del monastero, ma io resto ai piedi della scalinata, un po’ perché ho già visitato molte volte Montecassino, un po’ perché voglio restare solo con le mie memorie, anzi con le memorie familiari, con quelle di mio padre, costretto ad indossare la camicia nera per gli esami di maturità, indumento che immediatamente dopo la prova gettò nella tazza del gabinetto. Chissà, da qualche parte sotto il monte quella camicia conserva la memoria di quel gesto di sfida! E poi per mio padre ci fu l’Africa da tenente medico e l’Australia come prigioniero di guerra, una terra lontana che non dimenticò mai, come non dimenticò la fidanzata, sfollata durante i bombardamenti della battaglia di Montecassino a Firenze. Montecassino non è un luogo lieto per chi è nato nelle vicinanze. Esistono memorie personali e memorie familiari, che s’intrecciano con quelle collettive, ma tutte hanno a che fare con il destino individuale nella storia.
Dal loggione si vede una vigna ordinata, ben curata, che parla di ore laboriose e tranquille. Il monastero, costruito così in alto, voleva forse essere un’oasi di pace, un luogo di raccoglimento, ma udì invece bombe e cannonate, a testimonianza che la follia umana della guerra giunge ovunque.


Montepulciano (Agosto …?)
LE CANTINE DI MONTEPULCIANO


Vigneti isolati nella Val d’Orcia che conduce ai piedi di Montepulciano, patria di uno degli scrittori più eclettici della letteratura italiana. Il suo “Morgante” è una inesauribile fonte di divertimento, ma Angelo Ambrogini, detto il Poliziano, era maestro anche nel tono elegiaco, come mostra la sua “Fabula di Orfeo”. Questo scrittore mi pare ancora troppo sconosciuto e misconosciuto nella scuola italiana. Mi sembra figura isolata come qualche cipresso che nella valle dal terriccio color bruno di tanto in tanto appare al viaggiatore.
Si entra a Montepulciano da Porta al Prato e si sale attraverso un’erta, ma bisogna fermarsi e deviare a caso per scoprire incantevoli scorci.
Un’amica mi attende e mi conduce fin nel punto più alto del borgo, ad una cantina. Siamo saliti a piedi, ma ora, dentro la cantina, scendiamo attraverso scomodi gradini scavati nella roccia. Sono ben sette piani sotto terra ed ogni piano ospita grandi botti. Una ragazza illustra e loda il vino di ogni botte, parlando sommessamente per non disturbare il prezioso contenuto. In una poesia di Hölderlin viene lodato il vino di buona annata serbato – dice il poeta – dall’avo per i giorni di festa. Significa per i giorni di festa che verranno, anche quand’egli non ci sarà più. È in questo saper pensare alle piccole gioie dei propri cari la saggezza della vita. Ed un bicchiere di vino ha certo più gusto. Siamo al settimo piano sotterra e qui c’è il vino delle annate migliori.
Risaliamo in silenzio, ma gli occhi scrutano ancora nell’oscurità di queste grotte, dove ci sente protetti. Protetti ci si sente anche a Montepulciano, riparata in basso ed in alto da due antiche porte, ma sul campanile dell’orologio c’è una statua di Pulcinella, dono d’un napoletano.


Roma 2003
Piccola Ucraina


Alla stazione “Garbatella” della metropolitana c’era il posto d’incontro degli ucraini, anzi soprattutto delle ucraine, donne giovani e meno giovani. È soprattutto una diaspora al femminile, è un esodo di bellezza e gentilezza, ma anche di un antico sogno infranto quello delle donne dell’Est in fuga dalla crisi economica seguita alla dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Sono quasi tutte in possesso di un diploma di scuola superiore e spesso di una laurea, ma adesso lavorano come colf o badanti. Ora il punto d’incontro si è trasferito alla stazione “Rebibbia” della metropolitana. La domenica questo luogo è affollato di donne e somiglia ad una piazza in festa, per il brusio ininterrotto, per il continuo andirivieni, per le bancarelle piene di giornali e libri in caratteri cirillici, ma il sentimento più forte che libra nell’aria è la nostalgia, la malinconia che attanaglia non solo queste esiliate, ma anche colui che capita qui per caso. Si odono nomi che noi europei occidentali abbiamo conosciuto dai romanzi di Tolstoij, Dostoevskij, Gogol, Pasternak, Cecov. Le donne portano i loro pacchi alle corriere che attraversano l’Europa da Kiev a Roma e viceversa; mandano regali ai nipoti, ai mariti, ai genitori, ai figli, ma non hanno la speranza che essi vengano qui, quella speranza che avevano gli emigranti italiani nel primo Novecento, bensì quella di tornare per sempre a casa e vivere in modo dignitoso. Hanno varcato antichi confini segnati da antiche guerre, da recenti cambiamenti politici, lottano spesso contro incomprensioni e diffidenze, ma anche queste rappresentanti di un mondo lontano e vicino allo stesso tempo ci aiutano a costruire un’ Europa nuova.


Distanze (2007)

Paestum e Pompei distano soltanto pochi chilometri, ma pure queste due città sono lontane millenni per lo spirito che le contraddistingue. La cultura greca e romana vengono spesso accomunate, tuttavia esse sono molte differenti. Paestum e Pompei testimoniano questa diversità. Fra gli antichi templi di Paestum, per fortuna mai troppo affollata, si cammina in silenzio, rispettosi degli antichi Dei, perché questo luogo è spirituale. Paestum ispira il raccoglimento; trasferendo un termine proprio della poesia alla geografia, si può affermare che è un luogo elegiaco. L’elegia era la poesia che gli uomini dedicavano all’amico morto, cantando le sue gesta e banchettando, perché musica e cibo consolavano dalla perdita, ma era anche la forma poetica nella quale le donne si rivolgevano agli Dei invocandoli per i loro amori. Forse anche oggi qualche turista li invoca.
Niente di così spirituale invece si trova a Pompei, forse perché è testimonianza della caducità terrena o forse perché le sue rovine raccontano di una città dove gli antichi Romani venivano a trascorrere ore liete, soprattutto sessualmente.
Erano due modi di combattere contro la morte.
Anche l’apparato turistico è dimostrazione di questa differenza: a Pompei i proprietari delle bancarelle che vendono orribili souvenir chiamano a gran voce i turisti, a Paestum aspettano che il turista entri volontariamente e non insistono. Forse le anime così diverse di Greci e Romani sono entrate nei contemporanei.


Ninfa (2007)

I giardini di Ninfa, fra Sermoneta e Norma in provincia di Latina, sono una meraviglia che resta negli occhi e nel cuore. Sono opera della famiglia “Caietani”, che diede al mondo uno dei Papi più terribili che la Chiesa abbia conosciuto, Bonifazio VIII, per il quale Dante prepara il posto nell’Inferno. Questo Papa però ci ha lasciato le acque di Fiuggi e parte di questo giardino. Non si arriva facilmente ai giardini, perché non sono segnalati e forse è un vantaggio; infatti, sebbene i visitatori siano sempre in numero notevole, questo non è mai eccessivo. Che senso avrebbe passeggiare in un giardino con il chiasso? Nei giardini si cammina godendo della conversazione a bassa voce, compiacendosi del rumore del piccolo ruscello artificiale, apprezzando il colore dei fiori, la magnificenza degli alberi, rallegrandosi dell’ombra e della frescura che essi procurano. Una sola pecca esiste in questi giardini: c’è una sola panchina. Certamente oggi non occorre, perché la visita ha la durata di un’ora per permettere a tutti i gruppi di vedere ogni singola parte di questa oasi. Quando era privato, i proprietari non si fermavano a discorrere, a riposarsi, a leggere un buon libro? Credo che sia un desiderio che sicuramente provano tutti i visitatori.