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Marino Faggella
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ORAZIO: IL “PATER OPTIMUS” E I LUOGHI DELLA MEMORIA ANTICA
 
Se volessimo congetturare in quale parte di Venosa antica avrebbe potuto vivere ed abitare il giovanissimo Orazio, utilizzando in qualche modo i dati archeologici in nostro possesso e coniugando ad essi le notizie biografiche che abbiamo, potremmo proporre due soluzioni non necessariamente alternative.
Se merita fede Svetonio, del quale ci resta una fin troppo particolareggiata biografia di Orazio, che se pure non ci fornisce nessuna notizia sulla madre e sul resto della famiglia del poeta, si sofferma particolarmente sulla figura del padre al quale si attribuiscono due mestieri quello di exationum coactor, cioè riscossore delle tasse con qualifica di banchiere (1), o salsamentarius, termine col quale nella lingua di Roma veniva indicato il venditore di salsamenta, cioè il pizzicagnolo. Per quanto quest’ultima notizia del biografo sia stata esclusa dagli studiosi (sia per la natura eccessivamente aneddotica del metodo svetoniano sia perché egli, confondendo due situazioni biografiche, avrebbe trasferito al padre di Orazio una notizia riferita da Diogene Laerzio intorno al padre di Bione di Boristene(2), una delle fonti più sicure del poeta) non è da escludere completamente che il padre del poeta fosse inizialmente, se non proprio unsalsamentarius, almeno un commerciante, data la sua origine servile, e come tale avrebbe potuto avere la sua dimora nella zona orientale di Venosa riservata alle botteghe artigiane e al commercio, e che successivamente, messo da parte un buon capitale con investimenti in case e terre (Epist.2,3,50) abbia fatto fortuna fino a divenire coactor argentarius, cioè banchiere, per la cui attività si sarebbe trasferito in uno degli eleganti quartieri del centro, occupando non quella che erroneamente viene indicata ancora oggi come casa di Orazio” ma probabilmente una più confortevole “domus“ con accesso sulla via basolata, come quella adiacente alle terme nell’area Nord di Venosa, che per la ricchezza e funzionalità degli ambienti dovette essere certamente la dimora di un ricco proprietario.
Del resto i tempi erano favorevoli ai cambiamenti di condizione. Dalle imprese orientali di Pompeo all’età augustea un’autentica rivoluzione era accaduta nella società romana ed italica proprio alle spalle dell’esistenza del poeta: ad un’economia esclusivamente agricola, corrispondente ai valori tradizionali della classe oligarchica romana legata prevalentemente al possesso fondiario da cui essa traeva prestigio sociale e sicurezza politica, era succeduta una società più mobile ed aperta anche alle attività commerciali ed affaristiche che, attuando un trasferimento apprezzabile di ricchezze, contribuirono alla promozione di nuovi rapporti sociali. Quest’ultime però non venivano svolte dagli aristocratici romani, ma dai loro schiavi e liberti, che inizialmente operavano a nome dei loro patrones, ma che poi si affrancarono fino a svolgere con autonomia la loro attività. Anche il padre di Orazio, pur essendo di origini servili, dovette certamente essere altro che un povero esattore delle imposte, o povero possessore di un misero campicello (macro pauper agello) come dice il poeta (Sat.I 6, 45 sgg.), se è vero che poté trasferirsi a Roma, probabilmente con tutta la famiglia, perché il figlio, ben vestito e con un bel seguito di schiavi, abbandonando la provincia potesse frequentare le scuole di città. Insomma, sia che fosse riscossore delle imposte o banditore delle aste pubbliche, quell’uomo irreprensibile che, come dice il poeta, per quanto scevro di argomentazioni filosofiche e procedendo per exempla, insegnava al figlio come evitare l’adulterio e il turpe amore delle cortigiane, era anche uno che maneggiava denaro e, come si sa, chi lo fa si fa ben remunerare. Dovremmo per questo negar credito al poeta che di questo pater optimus e custos incorruptissimus dei buoni costumi ci ha lasciato un ritratto indelebile, preoccupandosi, però, contemporaneamente di riportarlo quasi alla povertà? Non si tratta di negare il valore autobiografico dell’arte oraziana, particolarmente quella delle satire, ma occorre anche ricercare, al di là del puro e semplice biografismo, un’altra chiave di lettura, che senza ridurre il valore della sua poesia, ci aiuti, tuttavia, ad intenderla meglio. È giusto condividere il giudizio di quanti sostengono che non esiste in tutta la letteratura latina una considerazione così orgogliosa, riconoscente e commossa come quella tributata dal poeta al proprio padre, ma bisogna anche riconoscere che il poeta ha tracciato del genitore più un ritratto idealizzato che perfettamente reale. Quale la ragione di quella reductio economica e di un tale comportamento artistico di Orazio che fa di tutto per tramandare ai suoi lettori un ritratto paterno particolarmente studiato e sublimato? A nostro modo di vedere, diverse suggestioni, culturali (l’influenza delle più importanti scuole filosofiche del tempo che senza distinzione predicavano un modello di vita semplice e misurato), letterarie (la trasmissione di precetti pedagogici che partiti da Catone avevano sottolineato la necessità di perpetuare i valori tradizionali del mos maiorum), politiche (l’adesione di Orazio al programma morale e ideologico della nuova ideologia del principato che non faceva mistero di volersi servire anche della letteratura per realizzare i suoi intendimenti) autobiografiche (il bisogno di tramandare ai posteri, anche a costo di qualche manomissione o esagerazione, l’immagine di un padre esemplare che era stato il primo artefice della sua fortuna) hanno concorso alla complessa rappresentazione di una figura così idealizzata da rasentare la perfezione. Dal momento che ognuna di queste ragioni, insistendo contemporaneamente, ha avuto certamente una parte importante nella delineazione di quel ritratto, esse meriterebbero di essere approfondite, ma qui tratteremo, anche per opportunità di spazio, solo dell’ultima questione che sembra maggiormente rispondente al nostro assunto. La reductio economica del padre, perfettamente funzionale alla sua idealizzazione, trova la sua fondamentale spiegazione nel bisogno di Orazio di cancellare innanzitutto la negatività sociale del personaggio, e di sottolineare che il suo successo della maturità era da attribuirsi più a ragioni morali e culturali che a motivazioni economiche: egli, delineando il ritratto paterno, insistendo sugli effetti finali, si propone di dimostrare che il successo del poeta Orazio è in fondo il migliore investimento realizzato dal padre. Un’ ulteriore conferma alle nostre convinzioni la troviamo nelle seguenti considerazioni di Ramaus, il quale così sottolinea l’infanzia non propriamente felice del poeta a causa della condizione sociale del padre che in qualche modo dovette avere anche ripercussioni negative su di lui: “Il padre liberto doveva aver fatto una certa fortuna, se era arrivato a possedere un fondo, certo non era di condizione misera; ma la sua umile origine di schiavo affrancato non si proponeva come la migliore per facilitare i rapporti del figliolo con i coetanei. Orazio avrebbe potuto frequentare, è vero, la scuola di Flavio, un grammatico del luogo, ma questa era destinata istituzionalmente ai figli degli ufficiali romani. In più il padre, che dopo l’affrancamento aveva assunto il nome della tribus Horatia, doveva probabilmente essere di origine straniera (ebraica?)(3) come la maggior parte degli schiavi. Insomma la questione del sopportato”.Orazio ne ricorda qualche episodio ma senza acredine: Ha presto la coscienza del self man (i latini avrebbero detto homo ex sese natus), della superiorità intellettuale”(4).

Orazio, self made man


Sulla circostanza di essersi fatto da sé Orazio ha insistito più di una volta nei suoi scritti, ma è particolarmente nella Sat. I, 6 che egli vi si sofferma con speciale attenzione per sottolineare con una insistita anafora (me libertino patre natum…libertino patre natum) di malcelato valore concessivo l’eccezionalità di due fatti che lo videro protagonista, malgrado fosse di lontane origini servili: essere accolto quale amico e confidente di Mecenate, (un uomo che si guadagnava la sua considerazione non tanto per la sua potenza e per la protezione che avrebbe potuto offrirgli quanto perché era disposto a riconosce i valori spirituali prima di quelli sociali: “…placui tibi, qui turpi secernis honestum, / non patre preclaro, sed vita et pectore puro); comandare una legione romana nell’esercito di Bruto senza essere un giovane nobile dell’ordine equestre e senatorio, ai quali tale incarico veniva solitamente attribuito prima di intraprendere la carriera civile o militare: “Ora ritorno a me, nato da un padre liberto, al quale tutti rinfacciano quell’origine servile: sia perché tu,o Mecenate, mi onori della tua amicizia; e un tempo perché in qualità di tribuno mi obbediva una legione romana”.
La critica psicanalitica, che ha appuntato le sue armi per riconoscere nella instabilità emotiva di Orazio un “male di vivere” ante litteram, non ha fatto molto per diagnosticare il morbo più oscuro che tormentava l’animo del poeta, e che comunque egli si sforzava di celare al di sotto della letterarietà: un ossessivo senso di colpa che nasceva dalla condizione sociale del padre, il cui passato di ex schiavo costituì sempre per lui un limite ricorrente che non favorì certamente le sue relazioni sociali sia nell’ambiente provinciale di Venosa (dove da ragazzo dovette sopportare umiliazioni e tentativi di emarginazione da parte dei suoi coetanei, i figli dei centurioni che frequentavano la scuola di Flavio), sia in quelli più altolocati di Roma non molto favorevoli ai figli o discendenti di schiavi i quali, anche se facoltosi, difficilmente si integravano in quella società gerarchicamente disegnata. Quanto ai liberti c’è da dire che se alcune componenti del loro status giuridico contribuivano ad integrarli nella società dei liberi, come il diritto di possedere terre, immobili, oggetti di lusso e altri beni, che potevano anche trasmettere ai loro eredi, altre, vincolandoli ad un insieme di doveri e prescrizioni (i liberti erano di fatto esclusi dal senato e conseguentemente da tutte le magistrature) isolavano di fatto questa speciale categoria dal mondo dei cosiddetti “ingenui”. Pur godendo degli speciali privilegi che discendevano dal loro elevato livello economico, di fatto pesava fortemente sui liberti la memoria del passato servile e il giudizio poco lusinghiero delle classi più elevate di Roma che, come giustamente nota Andreau: “si riservavano di ricordare al liberto che egli, in fondo, non differiva poi tanto dallo schiavo che era stato, e di qualificarlo come schiavo (Nei testi giuridici e nelle iscrizioni risalenti al III secolo a.C., i liberti sono designati talvolta con la parola servus,schiavo, e non con libertus), o addirittura, nei casi estremi, di trattarlo da schiavo“(5). Nel caso del padre di Orazio, oltre alle limitazioni sopra elencate, c’è da aggiungere, inoltre, il giudizio poco lusinghiero che in genere si aveva del mestiere di coactor argentarius, ritenuto, come sappiamo da Porfirione, “humile et turpissimum genus qaestus”. Quanto alle professioni che, secondo la tradizione, erano da reputarsi nobili o ignobili nella società romana, è per noi una fonte più sicura il De officiis di Cicerone,(6) ove si ribadisce che fra tutte le attività che servivano a procurare profitto la più nobile era l’agricoltura, mentre biasimevoli erano le professioni dell’esattore, dell’usuraio e di tutti quelli che maneggiavano denaro, destinati prima o poi a suscitare negli altri o l’invidia o i rancori. Nella stessa opera si fa riferimento anche al mestiere dei rivenduglioli, tra i quali vengono ricordati i venditori di pesce salato, macellai, cuochi e salsicciai, i quali, dice lo stesso Cicerone, non farebbero alcun guadagno se non fossero abituati alla menzogna. Considerando che per un romano legato ai valori antichi non c’era al mondo una cosa più turpe del mentire o di più biasimevole del maneggiar denari, ne deriva in ogni caso che il giudizio della gente sul padre di Orazio, il quale aveva fatto la sua fortuna proprio in attività similari, non doveva essere propriamente lusinghiero.

I luoghi della memoria


Non sono infrequenti in tutte le raccolte oraziane richiami al suo paese di origine: negli anni romani della sua prima giovinezza, a contatto con una realtà sofferta giorno dopo giorno, il poeta venosino, per confortarsi, si rifugiava talvolta nella memoria evocando il favoloso tempo della sua infanzia, che riaffiora con gli incantevoli scorci del paesaggio daunico, percorso dal fragoroso Aufido, e le corse spensierate sulle balze del Vulture, mentre in lontananza si stagliava Acerenza, alta come un nido di aquila, i pascoli bantini e, più lontana, la fertile campagna di Forento.(7)

Se è vero che il ricordo della terra natale ed immagini caratteristiche del paesaggio circostante accompagnano, si può dire, tutto il corso della vita del poeta, attestando, come sostiene Festa “un affetto sincero e una devozione incancellabile, alla terra madre e ai paesi in cui egli crebbe”(8), non si può tuttavia negare che egli visse qui solo i primi dieci anni della sua esistenza e, per quel che ne sappiamo, non vi fece forse più ritorno, non fosse altro perché, come sostiene lo stesso Orazio nell’epistola a Floro, dopo che la nequizia dei tempi l’ebbe sottratto agli studi del grato soggiorno di Atene, per aver preso parte allo scontro di Filippi a favore dei cesaricidi, perduti definitivamente la casa e i poderi paterni, era stato ridotto in povertà dalla confisca triunvirale: “Unde simul primum me demisere Philippi,/ decisis humilem pinnis inopemque paterni/ et laris et fundi paupertas impulit audax,/ ut versus facerem. (Epist.II 2, 49) ”.
Nessuna meraviglia, pertanto, se egli accenni e solo di sfuggita alla Lucania e alla città che gli ha dato i natali e che, inoltre, le immagini della regione circostante il suo paese si affacciassero alla fantasia del poeta in un modo piuttosto vago e non propriamente nitido. Altra cosa è, ad esempio, la “lucanità” di un poeta nostro contemporaneo come Sinisgalli(9). Se in Orazio la terra della sua origine si perde nella nebbia dei ricordi, al contrario essa è una presenza fondamentale, anzi l’origine e la materia prima dell’arte nel poeta nostro contemporaneo.Questo legame profondo e assoluto con la terra-madre, che prima è vita e poi diventa arte attraverso la memoria lirica è anzi la caratteristica saliente della musa sinisgalliana.
Non credo di scandalizzare alcuno, neppure i fautori convinti di un rapporto totale ed assoluto di Orazio con la terra lucana, sostenendo che, a parte il cosiddetto carme del Vulture e l’inizio della Satira II 2, 1, dove, del resto, egli dubita di essere interamente lucano, solo pochissime volte il poeta nomina espressamente la Lucania, ma lo fa solo incidentalmente e per cenni, mai puntando completamente l’attenzione sul nome né scegliendola quale motivo fondamentale del carme, come ad esempio accade in Epod. I, 25, sgg. , dove, dichiarandosi pronto non tanto a sostenere il peso della milizia quanto per essergli vicino nell’imminente guerra di Ottaviano contro Antonio, dice a Mecenate di volerlo seguire solo per dimostrargli il suo affetto disinteressato senza pretendere di avere nulla in cambio, né distese di campi, né copiose greggi: “non ut iuvencis inligata pluribus/ aratra nitantur mea/ pecusve Calabris ante sidus fervidum/ Lucana mutet pascuis”. Qui evidentemente l’accenno alla transumanza del bestiame dalle piane della Puglia ai monti lucani è solo un particolare descrittivo che per contrasto serve al poeta per sottolineare l’insostituibile dono dell’amicizia nei riguardi del suo protettore. Una situazione analoga è in Epist. I,15,19-21, dove Orazio pensa di far ritorno in Lucania, ma non certamente a Venosa, sebbene a Velia, sulla riva del mare Tirreno per trascorrevi un breve periodo di cura per consiglio del medico Antonio Mela. La stagione è quella invernale, il luogo gli è sconosciuto, che cosa potrebbe alleviare meglio quel soggiorno forzato se non del buon vino e la compagnia di una donna: la giovane “amica lucana“ che qualcuno amichevolmente gli fornirà. È necessario aggiunger che qui il termine “amica” non serve a ratificare il legame di Orazio con la sua terra di origine, abbandonata da gran tempo, e nemmeno il rapporto con la donna deve far pensare ad un antico legame o ad un’amicizia di vecchia data, come sostiene Gagliardi, ma va interpretato per quel che vale: il poeta, (è risaputa la labilità e l’occasionalità del legame amoroso di Orazio per una donna), vuole semplicemente trascorrere qualche ora piacevole con un’ “amica” in un luogo che ormai non ha per lui nessun legame familiare.

Se, trascurando per un momento la regione lucana circostante, che, come si è detto, appare nell’opera del poeta poche volte e di scorcio, e volessimo puntare l’attenzione su Venosa, la città che pure gli ha dato i natali, dovremmo concludere che anch’essa essa compare solo due volte nell’opera del poeta: indirettamente citata nella sua satira più tarda, già citata, ove egli fa riferimento al venusinus colonus di incerta qualifica etnica, ed esplicitamente nell’ode per Arcrita (Carm. I, 28) nella quale ricorda il particolare dei suoi boschi, che egli si augura siano battuti dal vento Euro, scelti come oggetto delle sue furie (Sic, quodcumque minabitur Eurus / fluctibus hesperiis,/ Venusinae/ plectantur silva te sospite; multaque merces,/ unde potest, tibi defluat…), onde evitare che esso imperversi sull’Adriatico mettendo in pericolo la vita di un naufrago.
Per quanto sia controversa l’interpretazione dell’ode, come testimoniano le diverse e non sempre concordi soluzioni dei critici, non ce la sentiamo di condividere l’opinione di Gagliardi, che ha sottolineato la natura autobiografica dell’ode. Anche nel caso di dover ammettere che il naufrago sia lo stesso Orazio, risaputamene terrorizzato dal mare, non mi sembra questa una ragione sufficiente perché egli si auguri che le selve della sua città natale facciano da parafulmine solo in senso apotropaico.
Il riferimento dell’ode in questione, tuttavia, ci consente di ammettere che la circostanza più spesso ricorrente nell’opera oraziana della descrizione della forza distruttiva delle acque, sia quelle dei fiumi o quella ben più pericolosa del mare in tempesta, sia da riportare a qualche esperienza drammaticamente vissuta. Tra i fiumi rappresentati dal poeta un posto a parte è riservato all’Ofanto, del quale il poeta ricorda spesso la violenza delle acque e l’impeto fragoroso della corrente: fenomeno non eccezionale per quel fiume ricco ancora oggi di acque ed un tempo più pronte a straripare, come attestano le espressioni e gli aggettivi utilizzati da Orazio: violens, acer, longe sonantem Aufidum.(Carm. III 30, 10; Sat. I 1, 58; Carm. IV 9). Una volta (Carm.IV 14, 25 e sgg. ) la piena dell’Ofanto, detto tauriforme, serve al poeta per visualizzare le distruzioni inferte dall’esercito di Tiberio Druso all’accampamento dei Reti: Sic tauriformis volvitur Aufidus.
La frequenza con cui queste immagini di violenza e di distruzione ritornano in modo ossessivo nei versi del poeta ci rivelano il fenomeno psicologico dell’imprinting: l’animo infantile di Orazio è stato a tal punto impressionato drammaticamente da questi avvenimenti che non riuscirà facilmente a dimenticarli neppure nell’età adulta. Eppure più avanti negli anni gli toccherà di conoscere ben altre e più rovinose inondazioni che non mancherà di descrivere nei suoi versi; ma, come sostiene il Festa: “Si direbbe che neppure l’inondazione del Tevere (Carm. I, 2) veduta in età matura e descritta nell’ode Iam satis terris nivis (…) producesse al poeta un’impressione così viva come quella dellOfanto”(10). È certo che la memoria di fatti così inquietanti legati al fiume che segnava i confini della Daunia dagli altri territori esclude risolutamente, (anche perché, come osserva giustamente il Franchel, Venusia non si trovava sulle sponde dell’Aufidus, ma molto più a sud ) che Orazio, fanciullo che contava meno di dieci anni, avesse scelto proprio il greto di un fiume così pericoloso per correre e giocare.(11)
Antonio La Penna ha sottolineato la particolare predilezione di Orazio per la visione dell’Adriatico in tempesta, (detto:” dux inquieti turbidus Adriae “in Carm. II 3, 5), che è rappresentato con varie sfumature quasi sempre come violento e procelloso. Ciò, ad esempio, accade nell’ode I 3, che è un carme di accompagnamento e di augurio per un viaggio progettato da Virgilio verso la Grecia su quel mare gravido di minacce e sempre agitato, che tiene il poeta in costante apprensione per l’amico che partendo s’era portato la metà dell’anima sua, per cui rivolgendosi alla nave che lo porta la prega di restituirglielo incolume: “navis quae tibi creditum/ debes Virgilium finibus atticis! /Reddas incolumem, precor/ et serves animae dimidium meae! “. Altrove (Carm. I 33,14-16) per ricordare all’amico Tibullo la forza erotica della liberta Mirtale, non trova di meglio che richiamare la furia selvaggia del mare di Adria che è tanto impetuoso da scavare le insenature dell’Apulia: “Mirtale/ libertina, fretis acrior Hadriae/ curvantis calabros sinus. “ Infine nell’ode dedicata a Postumo, ove si celebra l’inesorabile morte, Orazio ricorda al giovane amico quelli che, secondo lui sono le cose da evitare maggiormente ( la guerra, la navigazione, le malattie), i più gravi pericoli di lasciare la vita, se la morte non fosse inevitabile: “Frusta cruento Marte carebimus / fractisque rauci fluctibus Hadriae; / frustra per autummnos nocentem / corporibus metuemus Austrum! “.
Questi esempi che sottolineano la paura del mare hanno fatto pensare, analogamente a quanto si è detto per l‘Ofanto, ad esperienze traumatiche del poeta incorso più di una volta in una pericolosa navigazione su quel mare, come si può ricavare anche dall’ode A Galatea: “Ego quid sit ater / Hadriae novi sinus et quid albus / peccet Iapix! ” (Carm.III 27, 18-20). Probabilmente Orazio ha sperimentato personalmente cosa voglia dire il mare Adriatico nero di tempesta, uno spettacolo che non è disposto ad augurare a nessuno se non ai figli dei suoi nemici. Che il poeta sia pronto a testimoniare nei suoi scritti alcuni momenti della sua esistenza, ciò non vuol dire tuttavia che tutta l’opera di Orazio debba ritenersi interamente autobiografica. Sostiene Fraenkel all’inizio delle sua monumentale monografia che Orazio è l’autore classico che “ci parla di sé, del suo carattere, della sua evoluzione e del suo modo di vivere (del suo bìos) assai più diffusamente di qualsiasi altro grande poeta dell’antichità”. È un’affermazione questa che anche noi siamo disposti entro certi limiti a sottoscrivere, in quanto corrisponde alle dichiarazioni estetiche del Nostro(12), ma non possiamo dimenticare che Orazio è anche poeta doctus, e come tale poco disposto ad un autobiografismo assoluto. Lo dimostra il fatto che la stessa ricorrente descrizione del mare in tempesta potrebbe avere anche una matrice culturale: il mare per i seguaci di Epicuro più che essere un mare reale è metafora delle passioni distruttive. Ciò è particolarmente evidente nel De rerum natura, di Lucrezio, il poeta più vicino ad Epicuro. Non sappiamo se tale motivo sia giunto direttamente ad Orazio in seguito alla frequentazione del chèpos di Sirone oppure, per via mediata, dalla lettura attenta e meditata del proemio del libro secondo lucreziano: ma l’imitatio oraziana di Lucrezio, per quanto non sempre facilmente da dimostrare, è cosa che comunque nessuno oserebbe mettere in discussione.
Si potrebbe pensare infine che Orazio, dopo la dispersione della vita, si sarebbe augurato di ritornare almeno da morto nella sua terra per esservi seppellito; ma neppure questo è vero, quanto meno non risulta dalle sue carte. Infatti, nemmeno dopo la dispersione della vita, come giustamente nota Festa: ”gli venne mai in mente di poter finire la vita nella sua Venosa. A cui del resto non potevano legarlo altro che i ricordi dell’infanzia, se (è vero che) anche la casa e il campicello paterno erano andati a finire in mani estranei”(13). A Tivoli, dove c’è una selva dalle fitte ombre che si sposa con le acque pure dell’Aniene, o a Taranto, ferace e nobile a causa della nobiltà del suo fondatore, Orazio dice di voler trascorrere l’ultimo tempo della sua vita perché non gli piace più la regia Roma, dove lo chiamano invisa negotia e curae et labores che rendono problematico il suo rapporto con la poesia. È necessario a questo punto sottolineare che Il poeta di Venosa, costretto a vivere nella tumultuosa capitale dell’impero e sottoposto agli obbliganti doveri politici e culturali dell’ambiente cortigiano, rimane fondamentalmente un paysan inurbato che non riesce facilmente ad inserirsi nella grande città nei riguardi della quale egli non manca, pertanto, di manifestare frequentemente un intimo fastidio e rigetto. Sradicato dall’ambiente provinciale della sua città di origine, Orazio, non poté non soffrire un trauma psichico: a Roma talvolta lo prende una continua scontentezza ed inquietudine, di fronte ai quali, come dice a Bullazio nell’Epistola I 11, non serve cambiare luogo per calmare l’anima, in quanto la serenità si trova solo un se stessi. La grande città con la folla e i suoi rumori, come dice anche Seneca, rende impossibile la quiete e l’equilibrio dell’anima, che solo il ritiro in campagna rende attuabili. Ma la campagna che egli descrive nei suoi ultimi tempo non è mai quella di Venosa o della Lucania, ma quella della ridente Tivoli, anche se talvolta, vittima di un male sottile, lo prende la nostalgia della grande città e non sa dove dimorare(“Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam” confessa una volta a Celso nell’Epistola I 8,12). Ciò significa che Orazio non era propriamente privo di intimi contrasti e che il suo senso della misura, di origine personale e filosofica, non sempre sia riuscito ad illuminare le ombre del suo animo. Del resto è stata scomodata anche la psicanalisi per spiegare la solitudine del poeta quale soluzione di un temperamento non solo malinconico, ma addirittura ipocondriaco o colpito dal male moderno dell’angoscia, una “ tristezza senza occasioni, tutta esistenziale” che, nota Luca Canali, nessuno dei poeti latini precedenti aveva conosciuto: ”Anche Catullo aveva cantato la tristezza, persino la disperazione, ma dell’una e dell’altra v’erano cause precise, cui il poeta reagiva con emotività adolescenziale.Anche Lucrezio, cui Orazio è largamente debitore di suggestioni senza mai nominarlo(…), aveva suggestivamente espresso gli stati d’angoscia. Ma la malinconia di Orazio è qualcosa di molto diverso, di più sottile, di meno sconvolgente, ma di più insidioso, e forse più vicino ad una concezione “ decadente” della vita:un sintomo del male di vivere”(14).
È particolarmente indicativo che, anche assalito dal suo male e nell’incertezza della sua dimora, Orazio non pensi mai di tornare nel paese delle sue memorie, ma volando al di sopra delle terre lucane guardi se mai anelando alla mitica Taranto, solo in quell’angolo di mondo che gli sorride più di qualsiasi altro egli, ormai stanco”di mari, di terre e di armi”, si augura di poter trovare finalmente quella pace che desidera o di terminare lì i suoi giorni, come dimostra la chiusa dell’ode dedicata a Settimio (Septimi,Gades aditure mecum), che non è semplice un elogio letterario della città e del suo paesaggio e dei suoi prodotti, ritratti con tanta delicatezza di colori da dichiarare l’amore che Orazio nutriva per quella terra, ma quasi un testamento poetico che il poeta rende all’amico e anche a noi: “Ille terrarum mihi preter omnes / angulus ridet, ubi non Hymetto/ mella decedunt viridique certa baca Venafro,/ ver ubi longum tepidasque paebet/ Iuppiter brumas et Amicus Aulon/ fertili Baccho minimum falernis/ invidet uvis./ Ille te mecum locus et beatae/ postulant arces; ibi tu calentem/ debita sparges lacrima favillam/ vatis amici! ”(15).

gennaio 2004

NOTE
1) A proposito di questa complessa qualifica del coactor chiarisce Franchel (Vita Horati): “Il termine coactor può indicare varie attività (…) Nelle competenze di quest’ultimo rientravano in particolare le vendite all’asta le quali, come risulta da numerose testimonianze, erano assai frequenti e di non poca importanza nella vita commerciale del mondo romano.È il coactor che in occasione di un’asta prende il posto del venditore della merce. La transazione non si svolge tra il venditore e l’acquirente direttamente ma, da una parte, tra il venditore e il coactor, dall’altra, tra il coactor e l’acquirente. Il coactor riceve una piccola ricompensa, la merces. Poiché al termine dell’asta versa immediatamente al venditore denaro, che poi deve recuperare dall’acquirente, egli esercita in effetti la funzione di un banchiere ed è perciò chiamato anche argentarius.”
2) Riferisce lo storico greco che Bione di Boristene, interrogato circa i propri natali, avrebbe risposto in modo spregiudicato: ”mio padre era un liberto che si puliva con il braccio il naso”, espressione del tutto corrispondente a quella riferita da Svetonio al padre di Orazio: ”quotiens ego vidi pater tuum bracchio se emungentem!”.
3) Si veda a questo proposito l’interessante articolo di E.CICCOTTI, Le origini di Orazio(e la questione ebraica), Rionero (PZ) 1990.
4) M.RAMAUS, Satire ed Epistole, Presentazione, Milano 1987, p.VIII.
5) J. ANDREAU, Il liberto, in L’uomo romano, Roma-Bari 1993, pp.198-199.
6) CICERONE, De Officiis, I, 42.
7) Il paese è da identificarsi con l’attuale Lavello, piuttosto che con Forenza, che, pur richiamando nel nome l’antico centro risulta geograficamente un po’ discosta e poco visibile da Venosa.
8) N.FESTA, Op.cit., Venosa 1991, p.42.
9) M. FAGGELLA, Leonardo Sinisgalli, un poeta nella civiltà delle macchine, Potenza 1996.
10) N.FESTA, Ricordi lucani in Orazio,Venosa 1991, p.84.
11) Cfr., D. GAGLIARDI, cit. p.45.
12) così ROSTAGNI nella sua Storia della letteratura latina: “Quello che ebbe a dire del suo predecessore e modello nella poesia satirica Lucilio, che -tutta ne’ suoi versi, come dipinta in un quadro votivo, ci appare la vita dell’antico scrittore-, può a buon diritto ripetersi anche di lui“.
13) N.FESTA, cit., pp. 23-24.
14) L.CANALI, Arcaismo e modernità, in Orazio,anni fuggiaschi e stabilità di regime, Venosa 1988, p.17.
15) ORAZIO, Carmina II, 6, 13 sgg. : “Quell’angolo di mondo per me tra tutti ride, dove il miele supera quello dell’Imetto e dove verde è l’oliva come quella di Venafro. Là Giove elargisce miti inverni e lunghe primavere, e al fertile Bacco l’Aulone è caro e non ha motivi di invidiare l’ uva di Falerno. Te mio compagno invitano quelle felici rocche; là tu cospargerai di care lacrime le ceneri ancor calde del tuo caro poeta”.