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Oreste Bonvicini
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POESIE RITROVATE. MARGHERITA GUIDACCI
 
Rileggevo alcune pagine a cui mi ero dedicato con accanimento. Volevo concludere una mia breve silloge per un motivo d'orgoglio più che per una necessità concreta. Avevo accuratamente voluto individuare l'essenza del non dire, del non fare, ma così intensamente da voler nel contempo dire e fare tutto ciò che la poesia può dire e fare. Si sa, gli eccessi di intenzione sono forieri di cattive riuscite, ma dentro di me vivevo un intenso momento di contrasto con la materialità quotidiana, ero rivolto verso quella pace che l'uomo invoca, il cammino di quell'interiorità che può sfociare nella fede o nell'interrogarsi sui motivi profondi delle vita e della morte, della vita oltre la vita. Una sorta di umanesimo dell'anima, come se il tempo non fosse corso lontano da quei secoli di rinascita lasciando che le abiezioni umane avessero il sopravvento ogniqualvolta il dualismo primario del bene e del male si indeboliva a favore di quest'ultimo, capace di mostrare il suo volto suadente e ingannatore agli occhi ingenui dei più. Mi fermai e tacendo le parole che scorrevano nella mia mente, mi meravigliai di ciò che sapevo e di quanto profonda fosse la mia ignoranza. Scoprivo come non sia verbo l'alito della voce, ma pensiero, materia che si compone e scompone eppure impalpabile. Osservai ciò che la natura aveva creato e perciò nutrito, cresciuto, reso inoppugnabile verità, parte di questa vita terrena. All'uomo il compito di godere ciò che la gran madre Terra offre a tutti gli esseri viventi, come per compiere un ciclo di cui ciascuno è piccola, infima parte, ma complemento necessario affinché il ciclo si evolva, continui. Eppure il depauperamento delle risorse, lo sfruttamento selvaggio della terra per fini esclusivamente lucrosi, oligarchici, da modo di evidenziare l'alterarsi di ombre e segni, che io interpretavo come la necessità di scegliere il silenzio. Che scendesse tra noi, il silenzio, forma essenziale dell'espressione, dell'attesa e della consapevolezza.

In silenzio

Scrivo parole ogni giorno.
Non so dove arriverò,
scrivendo.
So che potrei tacere.
Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà per comprendere e dire
quanto la voce non dice.
Sfioro ogni istante, ogni giorno
l'urlo e il tuono. Vivo intorno.
Potrei fermarmi e attendere.
In silenzio.


Nei giorni successivi, lasciando scorrere gli occhi su un vecchio volume di poesie casualmente recuperato in quei luminosi anfratti della memoria editoriale che suole denominarsi remainder, ecco alcune pagine subito apparse sublimi, come anticipatrici di un pensiero che si stava facendo debole, che nel mio umile lavoro di cucitura avevo legato, parola con parola, fino alla forma sopra espressa del silenzio. Mi apparvero così, La sabbia e l'angelo, sei brevi liriche di Margherita Guidacci, un volume edito da Rizzoli nel lontano 1965.

"Noi sapevamo di appartenere alla morte", ci segue, ci insegue anche nell'angolo buio della nostra stanza dove crediamo di essere irraggiungibili, dove crediamo che ogni realtà sia il riflesso della nostra effigie che l'ombra ci rimanda o lo specchio dove impresse le nostre impronte digitali abbiniamo il nostro profilo al tocco che unico sarà di questa vita, palpabile sensazione tattile, unica, irripetibile.

O nella tempesta, sul mare che ci accoglie e ingolla nei flutti, nel tuono del mare che scoppia nei flutti come rombo di un tempo che ruggisce per dimostrare la sua presenza. Anche nella tempesta la rotta designata non potrà essere corretta. La forza del pilota ci condurrà in porto, sia esso l'approdo ultimo o tappa di un cammino più ampio. O sul limitar del deserto, sulle rovine di un tempio, di una città tempio dove mani hanno eretto opere che rappresentassero agli occhi degli dei la forza degli uomini, ciò che non esiste o esiste solo per dare un senso a ciò che gli uomini fanno, con gran fatica, con affanno, costringendo altri uomini a questo fare per fare, per raggiungere una meta, grande, finale, ultima, che poi tutto ripiana ed eguaglia. Polvere, cenere, sabbia tra le dita. Quella sabbia che fu vita. Risuonavano passi e voci in quei templi dove oggi la sabbia è la prova del consunto scorrere del tempo, dove le attese non hanno più consistenza, consapevoli che tutto è trascorso, irrimediabilmente. Come nel nostro pensiero. Sapevamo già di appartenere alla Morte, quella morte che chiude la vita, consapevolmente, inevitabilmente. La morte è rinnovamento?
Così l'uomo incide la sabbia , la terra con i solchi della sua mano, specchia ogni opera nella sua forza e poi sarà cenere, polvere, sabbia di questa terra e tanto rimarrà, di questa vita: cenere.
E poi il cammino costellato di gesti ripetuti, invocati,e evocati e sacrificati, con parte del nostro tempo, nell'attesa di quell'eternità che dà senso al nostro faticar, ci consuma e ci avvicina, ci cammina fianco a fianco. E guardavamo l'autunno scorrere sulla collina,/stava l'angelo al nostro fianco e ci consumava. (III) Così quel silenzio in cui si scopre la chiusura della poesia V: E quando l'angelo ci chiese: Volete ancora ricordare?/ Noi stessi l'implorammo: Lascia che venga il silenzio!
Nessuna meraviglia, dinanzi alla morte, ma una scelta, obbligata dal tempo che tutto ha dato, che per ciascuno come un orologio vitale, chiude il proprio ciclo, spegne le luci terrene, i riflessi degli sguardi, e realizza la consapevolezza della fine, del nulla che inghiotte e cancella, ma con la consolazione che ben venga quel silenzio ristoratore.
Allora, la speranza, la pistis che ci ha spinto verso quel Dio che non è forma, non è carattere tangibile, ma essenza da afferrare e portare dentro, sentirlo dentro per ciò che verrà, dopo. Non il ramo spezzato, non l'erba scomposta lungo il sentiero/(...) Così noi sempre ti seguimmo, Dominatore ed Amato/(..) Perché da lungo tempo te solo conoscevamo, a te solo/obbedivamo, tua destinata preda, trascinando sulle vie della terra la tua celeste catena straniera.(VI)

Se c'è un luogo ove poter scegliere di morire, vorrei fosse l'aria libera tra i monti, durante un'estate quanto il sole tarda a tramontare, quando nella mia terra è già notte. Attenderei fino allo sgocciolare della luce, come acqua, liquido amniotico a cui poi, ritornare.
" ...Nella stanza dove noi non volevamo morire" (V) è il tumulto che in noi si agita. Solo l'Angelo raccogliendo la sabbia che il suolo incalpestato del suo passo lieve sfiora, ci mostrerà cosa e come si ridurranno i nostri pensieri e i ricordi. Perché dunque faticare? Perché portare il greve fardello del tempo vissuto, con tutti i suoi ricordi, i suoi giorni sempre uguali eppur diversi. Nel congedo del viaggiatore cerimonioso, Giorgio Caproni diceva: vi son grato, credetemi/ per l'ottima compagnia/(...) Dicevo era bello stare/insieme. Chiacchierare (...) congedo dalla sapienza/e congedo dall'amore. (...) io/sono giunto alla disperazione/calma, senza sgomento.
Lascia che venga il silenzio, ci raccomanda invece Margherita Giudacci. Così, rivolgendosi ancora all'angelo, nulla riconosce se non nel tocco di solitudine del suo passaggio e la luce bianca, ora svelata a noi accanto. Ogni volta che dicemmo addio...(III) Con noi il freddo chiarore dell'alba che divide gli amanti...(III)
Non così per Giorgio Caproni, che nel suo pensiero, "laggiù è così buio che non c'è oscurità" (La lanterna).
Opposta alla pistis della Guidacci, la gnosis di Caproni, del suo laico sentire, altrove regolato dalle dure prove della vita, del suo soffrire tutto terreno. Contrapposte le parti dove fede diventa inno religioso, dove non serve la rivelazione perché è già in noi, mentre nel poeta livornese il duro canto è sempre interrogativo.
E tornano nella breve Spoon River di Margherita Guidacci, Epitaffi, otto meditazioni incise sulla pietra bianca dilavata dalla pioggia, dal vento della collina di mastersiana memoria. È nell'epitaffio di J che scopriamo come le nozze terrene si destino improvvisamente, "ad un tratto nella luce", tutto straniero intorno, dove poco prima ogni cosa sembrava preparata per uno sponsale terreno di cui ora nessun rimpianto sale alle labbra per ciò che, lasciato, si è infranto per sempre. La luce intorno è il regno della felicità, della gioia eterna.

Un inno alla fede si contrappone alla agnostica verità di E. L. Masters, sulla collina di Spoon River, dove tutti sono uguali di fronte alla morte, dove tutti giacciono accanto, amici e nemici, frodati e frodatori, umili servi e ricchi signore, rei confessi e innocenti, uguali davanti alla grande livellatrice destinata a pareggiare torti subiti o provocati, ma dove la speranza per qualcosa di più grande non è così certa, palpabile come la fede che nutre l'anima. Nulla distingue sulla collina di Spoon River se non l'inciso che ricorda un nome e ciò che fu, in vita. Il passato è inciso nelle parole, nei gesti di chi, in vita, ha turbato la propria anima in una esistenza ora felice ora disgraziata, per trovare infine, sotto il cielo dell'Illinois, la pace, C'è violenza nelle pagine di Masters, prima che il ripianamento di ogni asperità terrena.
C'è la volontà di lasciare un segno, La sabbia e l'angelo di M. Guidacci e la consapevolezza nel contempo che nulla valicherà il tempo. Nulla si perdonerà alla presunzione. Scriviamo i nostri versi sulla sabbia, le parole, le umane pretese e se il vento o il mare presto dilaveranno la superficie che ha visto gemere sotto la nostre dita e incidere il segno da noi fortemente voluto, sperato duraturo, ricordiamoci che presto, molto presto, quello stesso vento, quello stesso mare, ripianeranno ciò che di noi rimane, sabbia.

Margherita Guidacci, Poesie, Rizzoli Editore, 1965
LA SABBIA E L'ANGELO

I
Non occorrevano i templi in rovina sul limitare di deserti,
Con le colonne mozze e le gradinate che in nessun luogo
conducono;
Né i relitti insabbiati, le ossa biancheggianti lungo il mare;
E nemmeno la violenza del fuoco contro i nostri campi e le case.
Bastava che l'ombra sorgesse all'angolo più quieto della stanza
O vegliasse dietro la nostra porta socchiusa-
La fine pioggia ai vetri, un pezzo di latta che gemesse nel vento:
Noi sapevamo già di appartenere alla morte.

II
Se vuoi lasciare la tua impronta, o uomo, scalfisci piuttosto la sabbia,
Perché la più alta torre diverrà sabbia alla fine.
Scrivi il tuo nome sul lido deserto, e prega il mare che presto
lo copra di lamento:
Perché tu stesso sei sabbia, sei la morte che dopo te rimane.

III
Ogni volta che dicemmo addio;
Ogni volta che verso la fanciullezza ci volgemmo, alle nostre
spalle caduta
(Tremando l'anima al suo lungo lamento);
Ogni volta che dall'amato ci staccammo nel freddo chiarore
dell'alba;
Ogni volta che vedemmo sui morti occhi l'enigma richiudersi;
O anche quando semplicemente ascoltavamo il vento nelle strade
deserte,
E guardavamo l'autunno trascorrere sulla collina,
Stava l'Angelo al nostro fianco e ci consumava.

IV
Ora il nostro amore si spanderà nella vigna e nel grano,
Il nostro veleno nei cactus e negli spini crudeli.
Si curveranno i vivi alle sorgenti, diranno:
"Chi spinse verso di noi l'acqua da occulte vene del mondo?"
E molto prima che il freddo li colga e la notte sul loro cuore s'adagi,
Anche in un meriggio d'api e di succhi ardenti,
Conosceranno l'angoscia, perché potenti noi siamo e vicini,
E non vi è fuga dal cerchio in cui già li stringiamo
Con ogni stelo da noi sorto e ogni frutto
Che colmo e grave alla nostra terra s'inchina.

V
Furono ultime a staccarsi le voci. Non le voci tremende
Della guerra e degli uragani,
E nemmeno voci umane ed amate,
Ma mormorii d'erbe e d'acque, risa di vento, frusciare
Di fronde tra cui scoiattoli invisibili giocavano,
Ronzio felice d'insetti attraverso molte estati
Fino a quell'insetto che più insistente ronzava
Nella stanza dove noi non volevamo morire.
E tutto si confuse in una nota, in un fermo
E sommesso tumulto, come quello del sangue
Quando era vivo il nostro sangue. Ma sapevamo ormai
Che a tutto ciò era impossibile rispondere.
E quando l'Angelo ci chiese. "Volete ancora ricordare?"
Noi stessi l 'implorammo: "Lascia che venga il silenzio!"

VI
Non il ramo spezzato, non l'erba scomposta lungo il sentiero
Ci dicevano il suo passaggio, m il tocco di solitudine
Che ogni cosa in sé custodiva ed a noi rendeva, liberando
Dopo il messaggio consueto l'altra, l'ignota parola.
Come trasalivamo ascoltandola, come s'orientava sicuro
Il nostro cuore sull'invisibile traccia!
Così noi sempre ti seguimmo, Dominatore ed Amato,
Né ci sorprende la bianca luce in cui svelato al nostro fianco cammini
(Ora che l'ombra carnale è tramontata sul meridiano della morte)
Perché da lungo tempo te solo conoscevamo, a te solo
Obbedivamo, tua destinata preda,
Trascinando sulle vie della terra la tua celeste catena straniera.

Bibliografia
Margherita Guidacci, Poesie, Rizzoli, 1965