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Roberto Miele
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UN NARRAR-SI INDETERMINATO: LE PARENTESI APERTE DI ANTONIO PIZZUTO
 
Contrariamente alle previsioni di quanti, lettori e critici, hanno potuto conoscere e stimare Antonio Pizzuto, e contrariamente ai forbiti stilemi di un presumibile temuto contrappasso librario, la fama dell'anomalo e mai pacificato scrittore palermitano conserva ancora oggi un grumo di coerenza che, per quanto inaccettabile, ammonisce chiunque attenda, sulla soglia di un libro, di trovare (finalmente!) un po' di pace.
Che oggi si possa ammettere un cambiamento nell'aria, in virtù di un recupero critico, niente affatto marginale, di alcuni testi finora inediti, e constatare al tempo stesso una regolarità (affettiva, si intende) della sparuta pattuglia di lettori pizzutiani (1), per ragioni "che riguardano sia la natura indigesta del suo linguaggio e di talune sue forme del narrare, come pure per certe pervicaci "sviste" della critica letteraria italiana" (2), sembra, di un discorso che rivanga reticenti aporie, l'unica certezza.
Nato a Palermo nel maggio del 1893, e morto a Roma nel 1976, lasciando molte opere inedite e numerosi carteggi (tra i quali spiccano quello con Salvatore Spinelli e Lucio Piccolo), crebbe con l'amore per gli studi classici, per la filosofia e per la musica (la madre, poetessa, Maria Amico Pizzuto, era figlia dell'umanista e letterato Ugo Antonio Amico). Laureatosi all'Università di Palermo, prima in giurisprudenza, poi in filosofia -al seguito dei corsi di teoretica tenuti da Cosmo Guastella, relatore della tesi e maestro-, si dedicò, prima, all'insegnamento, frequentando la Biblioteca Filosofica di Palermo di Giuseppe Amato Pojero, poi, nel 1930, entrò in polizia, dove divenne questore nelle sedi di Trento, Bolzano e Arezzo: "Quindi, la mia vita è stata una vita da burocrate. Però una vita da burocrate fino a un certo punto, perché, siccome conosco qualche lingua, "toscaneggio" in qualche lingua, appunto per questo, quando c'era bisogno di mandare un funzionario all'estero, si mandava me. Così, mi sono girato il mondo, gratis" (3). All'età di 57 anni, lasciata la Pubblica Amministrazione, decise di dedicarsi completamente ai suoi interessi letterari. Lettore e traduttore di Platone, Cicerone, Proust e Joyce, pubblicò la prima opera di narrativa, Signorina Rosina, nel '56 (4).
Esaminando il fenomeno Pizzuto dal punto di vista delle dinamiche dell'interpretazione, ossia della cooperazione testuale, occorre anzi tutto precisare che una riduzione del discorso all'ambito dei processi pragmatici, per quanto complessi, e conseguente imputazione della scarsa notorietà dell'autore alle difficoltà oggettive delle sue opere, per filarne (e sfilarne e filarne…), come spesso accade, il mito della il-legibilità (5), è certamente impresa comoda e gradita, tanto più se legittimata da una estetica del gusto filo-barthiana, facile alle mode che, però, proprio per questa strada, farebbe il gioco di una certa astuzia intellettuale, finalizzata nella misura in cui dissimula un annoiato disinteresse.
Invece, meccanismo pigrissimo, il testo pizzutiano non solo ricerca qualcuno che lo aiuti a funzionare, ma, nell'insondabile discrasia del nesso, tutto infinitivo, raccontare-narrare (6), impone all'insufficienza dei dizionari una costante progressiva attualizzazione dei postulati stessi di significato. Al lettore non spettano i soli movimenti cooperativi di attualizzazione del non-detto, poiché gli stessi postulati di significato risultano insufficienti ad ogni sommaria esplicitazione, tale che l'iniziativa interpretativa non si riduce ad una "mera" introduzione della plusvalenza di senso, bensì ad una più generale attività semiotica.
Per analogia, il testo di Pizzuto è una partita a scacchi, solo apparentemente bergmaniana: qui il lettore non sfida la morte, e non è destinato, quindi, in partenza alla sconfitta, qui il lettore è destinato alla sconfitta, se mai, perché sfida l'Altro, la propria alterità, cosciente dei limiti ma non delle competenze mosse di una strategia pur sempre (im)prevedibile.
Se è vero, per un principio di testimonianza, che Pizzuto non si curava affatto del lettore, sì come a pagina 59 di Pizzuto parla di Pizzuto dice che "il problema della comprensibilità è questo: che il lettore deve educarsi a comprendere ciò che legge, non che lo scrittore deve sforzarsi di fargli capire, perché sennò diventa Fröbel, no? Io non credo che chi scrive debba avere questa preoccupazione. Il lettore non interessa, il lettore non deve interessare. Lo scrittore non deve preoccuparsi del lettore", è pur vero che il lettore di cui parla non è affatto da identificarsi con il così detto Lettore Modello, precostituita speranza referenziale, poiché, altrimenti, le funzioni del narrare non si differenzierebbero da quelle del raccontare (7), là dove, invece, proprio in questa, peraltro su citata, discrasia è da individuarsi l'atto costitutivo del lettore pizzutiano, che i movimenti dell'opera tentano pure di istituire, di costruire, di rendere, cioè, competente.
Dunque, in questo senso, risulterebbe fuorviante definire il corpus pizzutiano un insieme di testi chiusi, non solo perché non presuppongono un Lettore Modello, e non presupponendolo non ne deviano la cooperazione, ma anche perché le strategie testuali costituenti il Lettore Modello non sono date a priori, non sono pre-costituite, bensì risultano offerentesi, participio caro all'autore, in un continuo divenire del presente, quasi emblema di una adamitica indeterminazione nominale.
Siamo dunque al cospetto di un autore reale, empirico, in assenza di un Lettore Modello, non meno irreale di ogni ipotesi di Autore Modello, proprio perché i postulati dell'uno circa l'esistenza dell'altro non sono più verificabili dei postulati dell'altro circa l'esistenza dell'uno (8). Pur tuttavia, questa condizione non esonera il lettore empirico dai quei doveri filologici che lo realizzano, o potrebbero realizzarlo, come Lettore Modello, anzi, al "dovere di recuperare con la massima approssimazione possibile i codici dell'emittente", secondo tutta l'etica del Lector in fabula, deve "aggiungere" il dovere di re-inventare, con la massima ri-scrittura possibile, i codici dell'autore, ri-elaborando proprio quelle strutture semantiche profonde, attanziali e ideologiche, "che il testo non esibisce in superficie", rivangando il non-detto, abducendone, sulla scia di Peirce, come unica ipotesi di regolarità del comportamento testuale, la dinamica ir-reperibilità dei topic, ossia una "disposizione" isotopica a oltranza e il correlativo sistematico (senso di) disorientamento.
Occorrerebbe, dunque, prendere in esame anche i processi generativi presidenti le dinamiche della produzione pizzutiana, ossia quel far-si della narrazione, quel narrare "bizantino" caro al Contini.
Per queste vie conviene ricordare l'importanza letteraria attribuita da Pizzuto al rapporto con i problemi della realtà; è l'autore stesso a chiarire la sua posizione: "Per quel che riguarda la forma, essa è stato oggetto scrupolosissimo, per me, del mio esame, perché io ho potuto far coincidere, identificare, la forma con il problema fondamentale nostro, che è quello, appunto, della realtà. Questo problema (al quale chi si è avvicinato di più nei tempi moderni è stato Kierkegaard con l'esistenzialismo) per noi diventa il problema di stabilire che cosa c'è di vero e cosa c'è di falso. Ma non ci interessa sapere la verità o la falsità di questi pensieri, quello che interessa è che una risposta a questo problema ci permetterebbe di sapere se possiamo ancorarci a qualche cosa quando non saremo più quaggiù. Donde l'importanza enorme che ha assunto per me la forma. La forma da questo punto di vista, non la forma dal punto di vista del neorealismo o di questi altri fenomeni deteriori che non valgono proprio niente, ma dal punto di vista dei riferimenti che ci permettessero di agganciarci a quello che Jaspers ha chiamato "Das Umgreifende", ciò che abbraccia" (9).
A questa prima puntualizzazione, segue, necessariamente, una coerenza logica che, prediligendo il processo di induzione, dell'assimilazione dell'ignoto al noto, rifiuta la circolarità del sillogismo a favore dell'indeterminismo. Indeterminismo estetico, indeterminismo come "forza traente della narrativa", indeterminismo narrativo, che implica "non più una semplice registrazione, ma una rappresentazione delle cose" (10). Rappresentazione che "significa lo sforzo che faccio per esprimermi: non come fine, con una finalità determinata, più o meno territoriale, topologica, ma nel senso di quel famoso agganciamento all'Essere" (11).
Rappresentazione, come ha ben sottolineato il Gramigna, che non equivale a tras-figurazione, proprio perché le "composizioni di Pizzuto non trasfigurano il mondo, è il mondo che non può che essere questa forma verbale", e "riconoscere l'irrappresentabilità evidente del raccontare adduce alla narrativa, fatti tra parentesi, o offerti da predicati conglobanti il particolare in contrizioni coscienti. Donde l'indeterminismo, sostanza pura del narrare" (12). Jacobbi scrive che "vien dunque da pensare che la sostanza dell'opera di Pizzuto sia soprattutto lo sforzo morale di portare una materia storica (e, naturalmente, autobiografica) al suo massimo di acutezza critica er via di semplice designazione, per accumulo di fatti, per fulminee scelte di oggetti assunti a valore di emblema. Questo sforzo morale coincide totalmente per lo scrittore con il gesto estetico, cioè ogni cosa nominata rimanda, per il suo stesso esser nominata in quel modo flagrante ed iperteso, ad un giudizio assente. Che questa operazione sia di natura antistoricistica lo si è ripetuto a sazietà; ma che poi il concreto fatto linguistico, con quell'impasto perpetuo di cultura, con quell'agglutinamento di tecniche, non sia altro che la continua riprova del suo essere storico, cioè la violenza per cui ogni atto e nome del passato si fa presente e già si muove ad altro, non pare negabile. E' sul segno del "valore" che batte un no, la negazione di Pizzuto; ma al punto in cui tutti quei nomi e fatti hanno un senso per la nostra memoria, essi vengono a prendere un involontario valore, il valore appunto storico (13).
Appurata, quindi, la supremazia della narrazione sul racconto, in virtù dell'indeterminismo, e chiarito il problema della storia, occorre accennare, infine, ai concetti di tempo e di spazio, intesi non come oggetti ma come possibilità implicanti un soggetto percepiente, poiché "se non c'è un soggetto, che come epentesi penetra immediatamente, non riusciamo a misurare il tempo" (14), donde la frattura del nesso causa-effetto. E il tempo pizzutiano è, a sua volta, anche "dato", quindi "successione di punti di arrivo", sempiterno procedere che, grammaticalmente, si traduce in una disarticolazione dei meccanicismi sintattici, in "rappresentazione secondo contiguità, anziché secondo causalità; l'Io non interviene con suoi apriorismi, non conferisce una fittizia corposità e, per così dire, tridimensionalità a un mondo sanamente e probabilmente appiattito" (15).
Rimandando a Gianfranco Contini e ad Antonio Pane per le precise analisi filologiche della grammatica pizzutiana, rimane, quale migliore augurio di una ripresa della sua opera, una meditazione ultima dell'autore, a mo' di personale temporaneo congedo:

Così estesi e spaziosi viali, da sembrarvi quasi insussistente il moto, come viaggiando aria o, vista alpestre, umile veleggio, randa con flocco nel profilo incrociatisi, qual medio sull'indice i glaucopidi a buon augurio. Un pergere infinitesimale tra grandi alberi, foglie scosse frusciandovi presta donnola, ond'erte gambe acuti ragazza su panchina clorosa incinta. Galoppi in trotterelli di là dal filare, e quercia folgoreggiata sicura; non altro che ininterrotta planizie dattorno per desiderare ancorché piccola un'erta, qualche breve balza a portata. Ancora, seduti, lo stormire, e ronzii, alucce in trasvolo d'una a altra quinta, le sedule tribù. Dopo sosta nuovo cammino, tal meta qual sciarada, procedere mai non preceduti, siccome stampo la via stessa e ricalco. Che strutti pingui favi mellificati, predace orso aggirarsi ognora questuoso, impaurirla, serrargli il braccio, ambidue allucinandone, pari nel timore quanta la bramosia dei flutti rubificanti: calato mostruosi unghioni da impensabili forre. A incontri fortuiti tratte insieme insieme, per indi ritrovarsi più soli bisognosi miserrimi, verso l'istante ove ognuno attore stupendo (16).

febbraio 2002

NOTE
1) "Quel che però sembra sicuro è che in Sicilia si contano sulle dita di una mano gli studiosi dell'opera di Pizzuto, e in Italia ancora meno", cfr. Salvatore Di Marco, L'enigmatica lezione di Antonio Pizzuto, in Kaléghé -tracciati culturali, Anno VIII - numero 3/4 - maggio/agosto 2000, consultabile al sito http://www.kaleghe.com/tracciati%20culturali/pagina04.htm
2) Ivi
3) Antonio Pizzuto, Pizzuto parla di Pizzuto, p. 3.
4) Seguirono Si riparano bambole, 1960, Paginette, 1964, Sinfonia, 1966, Nuove Paginette, 1967, Testamento, 1969, Pagelle I, 1963, Giunte e Virgole, 1975, Pagelle II, 1978, Ultime e Penultime, 1978. Oggi si deve a studiosi del calibro di Antonio Pane, Gualberto Alvino e Gabriele Frasca il recupero di molti testi inediti.
5) "(…) la leggibilità (in senso rigorosamente barthiano), che non è un fenomeno connesso al dominio esigente dei codici, degli stili, dei modelli; non è neppure rimesso ai procedimenti dell'ermeneutica letteraria tradizionale. Il vero è che la lettura è comunque un evento indicibile, e i suoi confini con la illegibilità del testo sono sempre estremamente attigui e confondibili. Se nell'approccio al testo il primo tratto del percorso riguarda il transito dalla illeggibilità alla leggibilità (è tale lo scopo della lettura), soltanto a quel punto si apre il secondo tratto, quello per cui si intuisce quanto illegibile sia ciò che leggibile era parso", cfr. Antonio Pane, Il leggibile Pizzuto, Polistampa, Firenze 1999.
6) "Pizzuto rimette in discussione certezze, parte da lontane e impervie filosofie. Egli osserva che A è uguale ad A soltanto se A è A (altro che certezza del reale) e fino a quando quella identità sia mantenuta. Il racconto non tiene conto di quelle avvertenze, in esso il rispecchiamento dell'evento oggettivo è dato nel modo più determinato. Tuttavia l'evento è tale se è un evento, e fino a quando sia tale. Soltanto la narrazione, in quanto si riferisca al dire di ciò che non si sa, emancipa l'evento dalla propria oggettività, lo emancipa verso la fictio, o ancora verso la virtualità come diremmo oggi. Essa perciò ubbidisce al principio della indeterminatezza, e quindi della creatività permanente. Il che vale a dire - in altri termini - che è la soggettività del narrante che si costituisce come evento primigenio della narrazione. Quest'ultima allora non è più il mero resoconto di un fatto, ma si dà come evento essa stessa, cioè morfologia, linguaggio, tòpos, dell'invenzione. Solo così l'arte (ars narrandi) è sintesi di sostanza e forma agita dal soggetto. La "sostanza" non è il contenuto crocianamente inteso, non è il factum nella sua empiria, non è neppure historia rerum, ma ciò che li trascende, la sua "astrazione", la sua fantasiosa eventualità. La forma inoltre (e le più mature pagine pizzutiane ne sono un segno) è ritmo, lessico, sintassi, paratassi.", cfr. Salvatore Di Marco, op. cit.
7) Proprio Pizzuto scrive, a scanso di equivoci, che "Raccontare è proporsi di rappresentare un'azione, cioè uno svolgimento dei fatti, ma, anziché rappresentarli, il racconto in ultima analisi li documenta. Personaggi, eventi, dati psicologici, tutto si va pietrificando via via che lo si racconta. La narrazione vince l'assurdo di tradurre l'azione in rappresentazioni poiché riconosce che il fatto è un'astrazione. Se i personaggi narrati sono dei testimoni, la rappresentazione non è più offerta ab extra, come una planimetria sottoposta al lettore, ma scaturisce intuitivamente da ciò che legge, con una compartecipazione attiva".
8) "(…) si ha Autore Modello come ipotesi interpretativa quando ci si configura il soggetto di una strategia testuale, quale appare dal testo in esame e non quando si ipotizza, dietro alla strategia testuale, un soggetto empirico che magari voleva o pensava o voleva pensare cose diverse da quello che il testo, commisurato ai codici cui si riferisce, dice al proprio Lettore Modello", cfr. U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1975, p. 64.
9) "Infatti Jaspers ha parlato (…) molto dei così detti "orizzonti conglobanti", perché man mano che io cerco di avvicinarmi a lei, lei si sposta, e io abbraccio sempre dantescamente un'ombra. Lei si sposta sempre e io rimango sempre di là, da qualunque parte io possa pervenire. Allora il primo punto mio è stato quello di attendere all'esame filosofico di ciò che è il fatto. Il fatto (non il fatterello, che è ciò che non interessa), ma il fatto dal punto di vista trascendentale, come garanzia di un futuro al quale noi semplicemente speriamo di arrivare, ma di non abbiamo alcuna sicurezza. Questa non è una novità mia, perché lo diceva già Vittorio Alfieri, ha finito poi per ripeterlo Montale, e tanti altri. Questo è il mio punto di partenza", cfr. Antonio Pizzuto, op. cit. , pp. 8-9.
10) Ivi, p.14
11) Ivi, p. 16.
12) Nei Paragrafi sul raccontare è Pizzuto stesso a soccorrerci: "Alla base dei miei modesti scritti credo si trovino alcuni semplici punti che, come tutti i principi, sotto l'aspetto di punti di partenza, risultano poi punti di arrivo: 1) Noi non possiamo conoscere che i nostri giudizi. 2) Noi non siamo però i nostri giudizi, siamo vita. 3) Intanto, questo pure è un giudizio: donde un dualismo insuperabile, essendo ben chiaro che giudizi e vita si presuppongono a vicenda e che ogni tentativo di risolvere tale dualismo, a prescindere dalla valutazione di questa pretesa, conduce ulteriormente e sempre ad analoghe affermazioni".
13) R. Jacobbi, Antonio Pizzuto, Ed. La nuova Italia, Firenze 1975.
14) Antonio Pizzuto, Pizzuto parla di Pizzuto, p. 30.
15) G. Contini, Nota per l'ultimo Pizzuto, in Ultimi esercizî ed elzeviri, Torino, Einaudi 1988, p. 164.
16) Antonio Pizzuto, Viandanti, in Ultime e Penultime, Cronopio, Napoli 2001.