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Mario Amato
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EIN TRAUM
 
Josef K. träumte:
Es war ein schöner Tag und K. wollte spazierengehen. Kaum aber hatte er zwei Schritte gemacht, war er schon auf dem Friedhof. Es waren dort sehr künstliche, unpraktisch gewundene Wege, aber er glitt über einen solchen Weg wie auf einem reißenden Wasser in unerschütterlich schwebender Haltung. Schon von der Ferne faßte er einen frisch aufgeworfenen Grabhügel ins Auge, bei dem er haltmachen wollte. Dieser Grabhügel übte fast eine Verlockung auf ihn aus und er glaubte, gar nicht eilig genug hinkommen zu können. Manchmal aber sah er den Grabhügel kaum, er wurde ihm verdeckt durch Fahnen, deren Tücher sich wanden und mit großer Kraft aneinanderschlugen; man sah die Fahnenträger nicht, aber es war, als herrsche dort viel Jubel.
Während er den Blick noch in die Ferne gerichtet hatte, sah er plötzlich den gleichen Grabhügel neben sich am Weg, ja fast schon hinter sich. Er sprang eilig ins Gras. Da der Weg unter seinem abspringenden Fuß weiter raste, schwankte er und fiel gerade vor dem Grabhügel ins Knie. Zwei Männer standen hinter dem Grab und hielten zwischen sich einen Grabstein in der Luft; kaum war K. erschienen, stießen sie den Stein in die Erde und er stand wie festgemauert. Sofort trat aus einem Gebüsch ein dritter Mann hervor, den K. gleich als einen Künstler erkannte. Er war nur mit Hosen und einem schlecht zugeknöpften Hemd bekleidet; auf dem Kopf hatte er eine Samtkappe; in der Hand hielt er einen gewöhnlichen Bleistift, mit dem er schon beim Näherkommen Figuren in der Luft beschrieb.
Mit diesem Bleistift setzte er nun oben auf dem Stein an; der Stein war sehr hoch, er mußte sich gar nicht bücken, wohl aber mußte er sich vorbeugen, denn der Grabhügel, auf den er nicht treten wollte, trennte ihn von dem Stein. Er stand also auf den Fußspitzen und stützte sich mit der linken Hand auf die Fläche des Steines. Durch eine besonders geschickte Hantierung gelang es ihm, mit dem gewöhnlichen Bleistift Goldbuchstaben zu erzielen; er schrieb: Hier ruht Jeder Buchstabe erschien rein und schön, tief geritzt und in vollkommenem Gold. Als er die zwei Worte geschrieben hatte, sah er nach K. zurück; K., der sehr begierig auf das Fortschreiten der Inschrift war, kümmerte sich kaum um den Mann, sondern blickte nur auf den Stein. Tatsächlich setzte der Mann wieder zum Weiterschreiben an, aber er konnte nicht, es bestand irgendein Hindernis, er ließ den Bleistift sinken und drehte sich wieder nach K. um. Nun sah auch K. den Künstler an und merkte, daß dieser in großer Verlegenheit war, aber die Ursache dessen nicht sagen konnte. Alle seine frühere Lebhaftigkeit war verschwunden.
Auch K. geriet dadurch in Verlegenheit; sie wechselten hilflose Blicke; es lag ein häßliches Mißverständnis vor, das keiner auflösen konnte. Zur Unzeit begann nun auch eine kleine Glocke von der Grabkapelle zu läuten, aber der Künstler fuchtelte mit der erhobenen Hand und sie hörte auf. Nach einem Weilchen begann sie wieder; diesmal ganz leise und, ohne besondere Aufforderung, gleich abbrechend; es war, als wolle sie nur ihren Klang prüfen. K. war untröstlich über die Lage des Künstlers, er begann zu weinen und schluchzte lange in die vorgehaltenen Hände. Der Künstler wartete, bis K. sich beruhigt hatte, und entschloß sich dann, da er keinen andern Ausweg fand, dennoch zum Weiterschreibcn. Der erste kleine Strich, den er machte, war für K. eine Erlösung, der Künstler brachte ihn aber offenbar nur mit dem äußersten Widerstreben zustande; die Schrift war auch nicht mehr so schön, vor allem schien es an Gold zu fehlen, blaß und unsicher zog sich der Strich hin, nur sehr groß wurde der Buchstabe.
Es war ein J, fast war es schon beendet, da stampfte der Künstler wütend mit einem Fuß in den Grabhügel hinein, daß die Erde ringsum in die Höhe flog. Endlich verstand ihn K.; ihn abzubitten war keine Zeit mehr; mit allen Fingern grub er in die Erde, die fast keinen Widerstand leistete; alles schien vorbereitet; nur zum Schein war eine dünne Erdkruste aufgerichtet; gleich hinter ihr öffnete sich mit abschüssigen Wänden ein großes Loch, in das K., von einer sanften Strömung auf den Rücken gedreht, versank. Während er aber unten, den Kopf im Genick noch aufgerichtet, schon von der undurchdringlichen Tiefe aufgenommen wurde, jagte oben sein Name mit mächtigen Zieraten über den Stein. Entzückt von diesem Anblick erwachte er.

Un sogno

Joseph K. sognò:
Era una bella giornata e K. voleva andare a spasso. Ma appena ebbe fatto due passi, si trovò già al cimitero. Là c’erano strade molto artistiche e labirintiche, ma egli scivolava su una strada come sospeso su una rapida corrente, con portamento imperturbabile. Già da lontano aveva scorto un tumulo scavato da poco, presso cui voleva fermarsi. Questo tumulo esercitò subito un fascino su di lui ed egli aveva fretta di arrivarci. A volte però lo intravedeva soltanto, perché era nascosto da insegne, i cui drappi sventolavano con forza sbattendo l’uno contro l’altro; non si vedevano i portabandiera, ma era come se regnasse grande giubilo.
Mentre egli stava ancora volgendo lo sguardo in lontananza, egli vide vicino a sé lo stesso tumulo sul sentiero, proprio dietro di sé. Saltò subito sull’erba. Poiché la strada sotto il suo piede saltante continuava a correre, egli barcollò e cadde in ginocchio dinanzi al tumulo. Dietro alla tomba c’erano due uomini in piedi che tenevano alzata una lapide; appena era comparso K., la conficcarono nel suolo dove rimase come murata. Apparve immediatamente da un bosco un terzo uomo, che K. riconobbe subito come un artista. Indossava soltanto un paio di pantaloni e una camicia mal abbottonata. In testa aveva un berretto di velluto; teneva in mano una comune matita, con la quale tracciava in aria, mentre si avvicinava, dei segni.
Con questa matita egli tracciava la parte superiore della pietra; la pietra era molto alta e perciò egli non doveva curvarsi, ma doveva sporgersi in avanti, poiché il tumulo, che non voleva calpestare, lo separava dalla lapide.
Stava sulle punte dei piedi e si appoggiava con la mano sinistra alla superficie della pietra.
Maneggiandola con particolare destrezza gli riusciva con la comune matita di incidere lettere d’oro; scrisse: “Qui riposa” – (Tutte le lettere apparivano precise e belle, profondamente incise e perfettamente d’oro). Quando ebbe scritto le due parole, egli guardò verso K.; K., che era molto curioso la continuazione dell’iscrizione, si preoccupava a malapena dell’uomo, ma guardava soltanto la lapide. L’uomo infatti riprese a scrivere, ma non vi riusciva più, c’era qualche intralcio; abbassò la matita e si girò di nuovo verso K. Ora anche K. guardò l’artista e notò che questi era in grande imbarazzo, ma non poteva dirne la ragione.
Tutta la precedente animazione era svanita. Anche K. per questo si trovò in imbarazzo; si scambiavano sguardi perplessi; c’era un odioso malinteso, che nessuno riusciva a risolvere. Inopportunamente ora cominciò a suonare una campanella dalla cappella mortuaria, ma l’artista gesticolò con la mano alzata e quella smise.
Dopo poco tempo la campanella ricominciò, questa volta piano e, senza particolare richiesta, smettendo subito, come volesse solo provare il suo timbro.
A K. dispiaceva la situazione dell’artista; cominciò a piangere e singhiozzò a lungo con il volto tra le mani. L’artista aspettò finché K. non si fu calmato e poi si decise a continuare a scrivere, poiché non c’era altra via d’uscita. Il primo segno che tracciò fu per K. una liberazione, ma chiaramente l’artista riusciva a farlo con eccezionale ripugnanza; anche la scrittura non era più così bella, soprattutto sembrava che mancasse l’oro e il segno si estendeva pallido e incerto, ma la lettera era molto grande.
Era una J., ed era quasi finita, quando l’artista calpestò furioso con un piede il tumulo, così che la terra schizzò in aria. Finalmente K. comprese; non c’era più tempo per scusarsi; con tutte le dita scavò la terra, che quasi non opponeva resistenza; tutto sembrava preparato; solo in apparenza era stato eretto un sottile strato di terra; subito sotto a quello si apriva una grande buca dalle pareti ripide, in cui K., spinto riverso sul dorso da una leggera corrente, sprofondò. Mentre laggiù, la testa ancora sollevata sul collo, era stato già accolto dalla impenetrabile profondità, lassù il suo nome si disegnava con possenti decorazioni sulla lapide.
Incantato da questa visione si svegliò.
(Traduzione e interpretazione di Mario Amato)


L’incanto e la maledizione della scrittura

Spesso l’interpretazione dei libri deve iniziare dal titolo. Kafka ci dice chiaramente che qui si tratta solo di un sogno. E lo ripete nella prima frase del racconto: “Joseph K. Sognò”.
Sappiamo bene che l’orrore ne “La Metamorfosi” non risiede nel fatto che Gregor Samsa una mattina si sveglia e si trova trasformato in un insetto mostruoso. La letteratura è ricca di metamorfosi, basti pensare ai miti greci o alla capacità degli dei nordici di mutarsi in animali, alle Metamorfosi di Ovidio, e ancora alle fiabe. L’orrore, ed anche la grande innovazione che Kafka immette nella letteratura fantastica risiede nella semplice frase riferita alla trasformazione di Gregor Samsa: “Non era un sogno”.
Kafka non è certo il primo scrittore ad usare la dimensione onirica, ma è il primo ad introdurre quella dell’incubo nella quotidianità.
Il racconto “Un sogno”, il cui protagonista è Joseph K. è datato 1914-1915 ed quindi contemporaneo alla stesura del romanzo “Il processo”. Nel romanzo Joseph K. si smarrisce fra le squallide stanze del palazzo di Giustizia; in questo racconto Joseph K. si trova in un cimitero, dove c’è un labirinto di viuzze, o come traduce Ervinio Pocar, di strade sentieri artificiosamente disposti [1]. È comunque un labirinto, ed il labirinto è un artificio.
Le valenze simboliche del labirinto sono infinite, ma vale la pena di rivelarne qualcuna.
Jean Chevalier e Alain Gheerbrant notano come il labirinto “annunzia la presenza di qualcosa di prezioso e di sacro” e come “la trasformazione dell’io che si opera nel centro del labirinto e che si affermerà nel grande giorno alla fine del viaggio di ritorno al termine del passaggio dalle tenebre alla luce, contrassegnerà la vittoria dello spirituale sul materiale, e nello stesso tempo dell’eterno sul caduco, dell’intelligenza sull’istinto, del sapere sulla violenza cieca” [2].
Il labirinto del cimitero in cui si trova in sogno Joseph K. è tuttavia piccolo ed egli vede quasi subito la meta e ne è attratto. Egli non deve cercare affannosamente l’uscita del labirinto e non sembra avere alcun compito preciso.
Egli cade in ginocchio dinanzi alla sua meta, che è un tumulo. Due uomini tengono in mano una lapide ed ecco la comparsa di un terzo uomo, che è un artista ed usa una comune matita.
Possiamo sostituire alla parola artista il termine “scrittore” e forse il racconto ci apparirà più chiaro.
La lingua tedesca di Kafka è semplice, ma la sua scrittura è labirintica. L’artista del racconto comincia ad incidere la pietra e le lettere sono nitide, belle, d’oro. La prima frase è quella comune di tutte le lapidi: “Qui riposa”.
Tutti i racconti e i romanzi di Kafka iniziano con una frase semplice. Ma accade qualcosa: l’artista si ferma, perché Joseph K. lo guarda e quando riprende i segni sono incerti.
Kafka ha scritto nei diari di essere solo letteratura, ma pure ebbe molti dubbi sulla sua scrittura, e dobbiamo solo al suo amico Max Brod il piacere di poter leggere gli scritti dell’artista praghese. Sappiamo anche quanto il padre di Kafka abbia avversato l’attività letteraria del figlio.
Gli scritti di Kafka iniziano con una frase semplice, con parole comuni, come la matita dell’artista del cimitero, ma i personaggi di Kafka si smarriscono spesso in labirinti infiniti, come accade a Joseph K. ne “Il processo” o al messaggero in “Un messaggio dell’Imperatore” o all’animale de “La tana”. Ed anche il lettore si perde nel mistero della scrittura di Kafka, anche se la sua scrittura non diviene “pallida e incerta”.
Perché questo sogno si svolge in un cimitero? Perché una lapide?
Eli Wiesel ha scritto ne “L’ebreo errante” che per lui la letteratura è una mitzevah, una lapide, perché soltanto attraverso la letteratura possiamo parlare con quanti ci hanno preceduto. Tutti i libri sono l’eredità lasciata da quanti hanno abitato il mondo prima di noi, ma noi dobbiamo scoprirne il senso.
Dobbiamo scoprirne il senso, anche se essi sono spesso un labirinto, come le vie del cimitero in cui si trova Joseph K., che comprende solo alla fine, quando vede la lettera J. disegnata sulla lapide, che quella è la sua pietra.
Ma è un sogno ed egli si sveglia incantato da quella visione. Ed il giorno che sprofonderemo nella scrittura di Kafka, anche noi semplici lettori ne saremo incantati.

[1] Franz Kafka, Racconti, Mondadori, Milano 1990, pag 263
[2] Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, BUR, volume secondo, Seggiano di Piolnello, 1997