AmatoKafka 
[ Testo:  precedente  successivo  ]  [ fascicolo ]  [ autore
Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
LA DISMISURA DEL CACCIATORE GRACCO
 
Il Canto XXVI della prima cantica della Divina Commedia di Dante Alighieri sembra contenere uno scontro fra due culture: quella greca dell’eterno ritorno e quella giudaico-cristiana della unicità di ogni elemento della vita.
Ulisse viene inabissato insieme ai suoi compagni da Dio di fronte alla montagna del Purgatorio.

(Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com'altrui piacque,

infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».)


Conosciamo il peccato di Ulisse: egli ha oltrepassato i limiti imposti all’uomo, ha troppo confidato nel suo multiforme ingegno.
Piero Boitani (1) ha correttamente rilevato che Ulisse è l’unico personaggio dell’Inferno dantesco punito personalmente da Dio, da un Dio però completamente sconosciuto all’eroe greco. La tragicità dell’evento risiede nell’aggettivo sconosciuto.
Inseriamo nella vicenda narrata dalla multiforme fantasia di Dante la Weltanschauung greca di Odisseo: quel Dio non soltanto è sconosciuto, ma soprattutto è letteralmente non immaginabile (Non ti farai immagini né dipinte né scolpite di me), non nominabile (Io sono colui che sono), e quindi non conoscibile, ed il nome è identificazione. Saul di Tarso divenne cieco sulla via di Damasco per aver visto la luce e manata da Dio. Questo Dio non ha forma e ciò che non ha forma per i Greci non esiste.
C’è nell’episodio dantesco la rappresentazione dell’insanabile contrasto tra la cultura greca, che è amore del mitos e fiducia nel logos, e la cultura ebraica e cristiana che s’allontana dal mito ed insinua nell’Occidente il terribile dubbio che la sapienza non sia il fine della vita e non sia foriera di gioia, il dubbio che l’uomo non viva in una terra del tutto a lui conoscibile, sebbene gli uomini s’approprino del controllo dei fenomeni naturali e indaghino continuamente per conoscere i segreti della natura.
L’Ulisse dantesco sta nella terra di nessuno, viaggia nella patria senza patria, nella landa al penultimo stadio del ciclo eterno del mondo (nascita, prosperità, dismisura, decadenza); egli risiede sul confine tra ubris e disfacimento: egli è l’uomo che eternamente parte ed eternamente ritorna. La decadenza, ultimo grado del ciclo, non significa per i Greci morte assoluta, perché dalla pianta morente rinasce una nuova linfa vitale.
Egli varca le colonne erette da Ercole a misura di soglia invalicabile, ma non è concepibile che egli non sia cosciente che tale atto arrecherà conseguenze, non è accettabile che egli ignori che il suo gesto è foriero di effetti, e basterebbe a mostrare tale consapevolezza le implicazioni nascoste nella orazion picciola rivolta ai suoi compagni per esortarli a seguirlo nel folle volo; egli osa sapendo di provocare con la sua azione, totalmente empia da un punto di vista ebraico- cristiano e quindi anche dantesco, effetti per sé stesso e per il suo equipaggio.
Odisseo, quello culturalmente greco, certamente non ignorava il mito di Prometeo e la punizione da questi sofferta, ma l’atto di Prometeo fu vantaggioso per gli uomini che poterono godere di molti doni divini, soprattutto della civiltà. L’avvoltoio mangia in continuazione il fegato, sede dell’anima, di Prometeo, ma il fegato continuamente rinasce, segno che gli uomini si erano impossessati della facoltà degli Dei di rinascere. Ulisse conosce Prometeo come conosce Poseidone, contro il quale ha lottato durante i lunghi anni del ritorno non soccombendo.
Anche a Poseidone è legato un mito della ri-nascita. Il mito del dio che muore e rinasce si trova in tutte le culture, da Oriente ad Occidente, da Nord a Sud; nessuna civiltà ne è priva. Questo Dio che punisce Ulisse non permette l’agnizione, che rappresenta lo scioglimento positivo del mito, vale a dire l’atto con cui l’uomo non soltanto identifica e possiede le forze della natura, ma anche la dimostrazione di chi è, da dove proviene, dov’è, perché è.
Lo stesso Ulisse dantesco non è né immorale né amorale: egli infatti dice “fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e conoscenza".(vv. 119-120), ove virtute sta a significare che Ulisse brama la conoscenza, ma guidata dall’etica. Nel Canto III del Purgatorio i versi di Dante recitano “Perder tempo a chi più sa più spiace”, a manifestazione che fra il poeta fiorentino ed Ulisse esiste una similarità di Weltanschauung, poiché entrambi assegnano alla vita una altissima missione, tuttavia diverge il tipo di sapienza che essi cercano: l’Ulisse dantesco si trova in un mondo altro, opposto alla grecità, in un mondo nel quale non è permesso comunicare con gli Dei, perché vi è un solo Dio, che è al di là, che è altrove, è jenseits, e non basta oltrepassare le colonne d’Ercole per trovarlo e conoscerlo; egli è infinitamente lontano, è l’imperatore assiso sul trono che delega un messaggio all’ultimo dei sudditi sperduto nelle lontananze, che mai e poi mai riuscirà a portarlo a destinazione. Fra l’Ulisse dantesco, che non si lamenta della condanna subita, e l’Odisseo culturalmente greco non esiste alcun rapporto. Allorché Dante permette ad Ulisse di superare le colonne d’Ercole, immette il personaggio nella propria visione cristiana del mondo, lo trasporta in una cultura altra, e da qui nasce una seconda dismisura, forse ignota allo stesso Dante: da una parte c’è la ubris greca di Odisseo, dall’altra c’è la non attitudine di quella cultura a misurare il mondo, un mondo nuovo con un Dio altro. Odisseo, quello che conosciamo dalla lettura del grande poema omerico, era in un rapporto diretto con Dei e semidei; è nella sua incessante sfida con i misteri, con l’ignoto e l’insondabile, il senso della vita: egli inganna Eolo, che certamente dovrebbe essere il protettore più caro ad un marinaio; è nemico di Nettuno sovrano assoluto del mare; rifiuta il dono dell’eternità dell’amante Calipso. Con la sfida agli Dei Ulisse divine partecipe del mito, o almeno cerca di esserne parte.
La cultura greca è trasgressione, la cultura ebraica e cristiana predica il timor di Dio.
Nel racconto dantesco il mito è lontano, è ormai in un tempo perduto allorché l’eroe fa rotta verso “il mondo sanza gente” nell’ “alto mare aperto”. Il mito è probabilità di conoscere, non di possedere, le forze inspiegabili, e nel suo significato più profondo è fiducia nella possibilità dell’uomo di vincere la morte, perché, pur non essendo ancora logos, il mito è già parola che pretende risposta ed in ciò viene soddisfatto sempre, è parola che sta continuamente di fronte alla alterità e la vince divenendo parte di essa, affrontando tutte le possibili conseguenze, consapevole che nessun atto ne è privo; inoltre il mito è anche coscienza che nessun atto dell’Altro è esente da effetti, poiché – grandezza della democraticità teologica greca – gli Dei provano per gli esseri umani invidia, sentimento umano come la dismisura.
Il Dio che Ulisse non incontra, che è Dio - (“il Dio di Moshé è Dio” dice il Faraone Rames II nel film di John Houston, dopo aver visto la separazione della acque del Mar Rosso, ed è una frase tremendamente tragica per un egiziano, convinto che le statue fossero divinità, per coloro che sono in rapporto con gli Dei), - può essere soltanto Sé Stesso, può pensare soltanto Sé Stesso, può parlare soltanto a Sé Stesso, e per l’uomo, che abbia nome Adamo o Ulisse, Egli resta in silenzio, che è la risposta più terribile che si possa immaginare alla ineluttabile domanda metafisica; è il drammatico silenzio della Inconoscibilità, della Inenarrabilità, della distanza incolmabile fra uomo e cielo, lontananza che la morte del mito succeduta all’avvento della cultura ebraica – cristiana ha causato.
Il mondo sanza gente non è tuttavia il regno del nulla, perché il silenzio è già qualcosa, e non è ancora il regno dei morti, è piuttosto il regno delle penombre, del sogno ove le voci si confondono, è la terra ove più sfuggenti si fanno i segni della vita, ove più incerto è si fa “seguir virtute e conoscenza”, ove tutto è labirinto.
Eppure una speranza resta: nel racconto “I due re e i due labirinti”, J. L. Borges narra di due re che vicendevolmente si smarriscono nel labirinto altrui: il primo riesce a trovare la via fra scale, corridoi, meandri, corridoi, e ad uscire; il secondo, lasciato nel deserto non sa orientarsi e muore di fame e di sete: la vita, i segni che essa ci propone quotidianamente, è un labirinto, ma importante non è trovarne il senso, bensì cercarlo.
Il labirinto non è terribile, come non lo è la foresta – e ciò sanno i narratori e le narratrici di fiabe - , terribile è il deserto, è il non cercare, è non poter narrare. Da questa impossibilità deriva il terrore. Ma allora, se Ulisse sta dinanzi al Silenzio, che cosa può ormai narrare? Non ci sono più interrogativi, non c’è più una meta, e soltanto la via percorsa forse può essere detta. La via però è la terra di nessuno, è già silenzio.
Paradossalmente è il Silenzio a rigenerare la poesia ed a creare forse un nuovo mito. Ulisse è il personaggio più solo dell’Inferno dantesco, non accomunato ai lai ed alle grida di dolore, non percosso da demoni, bruciato da una fiamma senza calore.
Qui siamo oltre il nostro interesse rappresentato dalle acque oltre le colonne d’Ercole e dall’incontro/non incontro con Dio. Il disperso non è nel mondo dei morti, ma fra le penombre, nella semioscurità.
Nel mondo antico i miti erano patrimonio della comunità, erano verità tramandate non di padre in figlio, ma di generazione in generazione, ed essendo tali erano anonimi. È forse per questo che la poesia del mito ha un particolare fascino per noi tanto bisognosi di identità, di nome, di riconoscibilità.
Non è un caso che la perdita sia stata fissata nella letteratura moderna da uno scrittore ebreo, ma nel quale l’ebraicità e l’ebraismo stanno al di sotto della superficie testuale.
Non è soltanto nella scomparsa del nome dei personaggi dei tre romanzi kafkiani - (Karl Rossmann in “Amerika”, Joseph K. In “Il Processo”, K. in “Il Castello) - che si attua la perdita d’identità.
Nel racconto Il cacciatore Gracco”(2) ritroviamo il dramma di Ulisse, vale a dire il mondo del Silenzio inquietante che si oppone alla domanda metafisica dell’uomo. Questo terribile silenzio attraversa tutta l’opera di Franz Kafka, ma nel “Cacciatore Gracco” la fine del mito ha una costruzione più evidente.
Ulisse è un grande navigatore ed il suo mezzo è una nave con un equipaggio di marinai esperti, che hanno superato centomila pericoli; questo solo dato proietta Odisseo nel mito, lo fa personaggio ad essere adatto alla fantasia, lo fa eroe, poiché il mare è elemento adeguato come nessun altro all’avventura. Nel mare Ulisse, l’eroe, può sperimentare ed esplicare la sua temerarietà, può sfidare Poseidone; affrontando l’elemento più terribile che esista in natura, Odisseo entra dapprima nella leggenda e successivamente nel mito e diviene mito egli stesso.
Il cacciatore Gracco naviga nel mondo al confine tra la morte e la vita su una misera barca non adatta a grandi viaggi, non opportuna ad affrontare pericoli, e va alla deriva.
Il fatto che il luogo in cui si trova il cacciatore Gracco sia tra la vita e la morte è testimoniato dal dialogo che egli ha con il sindaco di Riva, posto in cui approda durante l’eterno viaggio:
Sie sind tot” “Ja” sagte der Jäger “wie Sie sehen. Vor vielen Jahren, es müssen aber ungemein viel Jahre sein, stützte ich im Schwarzwald – das ist in Deutschland – von einem Felsen, als ich eine Gemse verfolgte. Seitdem bin ich tot“. „Aber Sie leben doch auch“(3) sagte der Burgermeister.
(„Lei è morto” “Si” disse il cacciatore “come lei vede. Da molti anni, devono essere molti anni, precipitai nella foresta nera – è in Germania – da una rupe, mentre inseguivo una cerva. Da allora sono morto.” “Ma lei vive anche” disse il sindaco).

Il cacciatore chiarisce che la barca ha banalmente sbagliato rotta ed egli sta sempre al confine con l’aldilà.
L’Ulisse dantesco non ha sbagliato rotta, ha scelto l’alto mare aperto ed il mondo senza gente, ma parimenti è nel luogo delle penombre, nella regione antistante al regno dei morti, ed anch’egli è come il cacciatore Gracco vivo e morto ad un tempo, poiché è uomo ormai al di là del mondo, ha rinunciato agli affetti familiari, all’amore della moglie, del padre e del figlio, alla sua carica di sovrano d’Itaca, ha rinunciato a tutto ciò che è identità.
Ulisse nel suo viaggio incontra la montagna del Purgatorio e Dio, mentre il cacciatore Gracco approda in un luogo che ha nome semplicemente e banalmente Riva ed incontra semplicemente e banalmente un sindaco.
Non si vuole certo affermare che Kafka abbia voluto consciamente ridurre la figura di Ulisse trasformandola nel cacciatore Gracco, ma piuttosto che il personaggio kafkiano scaturisce da un lungo processo letterario che conduce alla morte dell’eroe.
Fra il cacciatore Gracco e l’Ulisse dantesco esistono delle similarità.
La nave di Ulisse segue una rotta, ma non è una vera rotta, poiché dopo le colonne non vi sono più punti di riferimento veri, se non un vago Occaso, e l’eroe non sa dove sta andando; il cacciatore Gracco dice “Mein Kahn ist ohne Steuer, er fährt mit dem Wind, der in dem untersterten Regionen des Todes bläst”(4) (La mia barca è senza timone, viaggia con il vento che soffia nelle più basse regioni della morte).
Sia il navigatore Ulisse che il cacciatore Gracco sono connotati da misura: il primo ha cieca fiducia nella possibilità di conoscenza della ragione, il secondo è convinto di essere ancora un personaggio epicamente eroico, persuasione che lo spinge ad affermare: “Der große Jäger vom Schwarzwald hiess ich”(5)(Il grande cacciatore della Foresta Nera mi chiamavo); ambedue periscono in un incidente e l’accidente che uccide Ulisse è solo apparentemente eroico, perché l’eroe greco non è tale di fronte al Dio giudaico-cristiano; ambedue non comprendono la ragione della loro fine, perché si trovano ad una distanza infinita dal cielo e da Dio, stanno in un mondo dove, non tragicamente, ma semplicemente e banalmente, ed ironicamente (ironia terribile), non esistono risposte, stanno nel mondo del Silenzio.
In questo Silenzio sta la morte del mito, ma paradossalmente sta anche la possibilità di una nuova letteratura. Kafka ha scritto “Io sono una fine ed un principio”.

1) Boitani, Piero, L’ombra di Ulisse, Il Mulino, Bologna, 1992
2) Kafka, Franz, Der Jäger Graccus, in Sämtliche Erzählungen, Fischer Verlag, pagg. 285 - 288
3) Ivi, pag. 287
4) Ivi, pag. 288
5) Ivi, pag. 288