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Mario Amato
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KAFKA E IL CANTO DI GIUSEPPINA
 
Kafka, meine liebe!

Albert Camus ha scritto che Kafka invita alla rilettura.
Franz Kafka è scrittore complesso, a dispetto della semplicità della sua prosa. La superficie testuale sembra richiedere continuamente un’interpretazione. Eppure le vicende narrate nei testi kafkiani prendono vita da un singolo avvenimento e intorno ad esso si sviluppano, o meglio non si sviluppano, perché non vi è mai ampliamento o progresso.
La vita dei romanzi e dei racconti è interamente affidata ad un unico accadimento: un uomo che viene arrestato per una ragione che è ignota, a lui come al lettore, un agrimensore che forse è stato convocato da qualche autorità risiedente in un presunto castello, un impiegato che si scopre trasformato in un mostruoso insetto e non chiede mai la ragione di quanto gli è avvenuto, un misero suddito che riceve un messaggio dall’imperatore moribondo e che mai giungerà a destinazione. Quale destinazione? Quale imperatore? Di quale impero? Perché il racconto si intitola un messaggio e non il messaggio dell’imperatore? Non è forse importante il messaggio? "Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato quel che veniva detto".
Tento una duplice interpretazione, teologica e letteraria.
L’imperatore rappresenta Dio, un Dio lontano, che bisbiglia il suo messaggio e se lo fa ripetere, per essere certo di non essere frainteso. Quale sia il messaggio non viene riferito. Il Dio di Abramo e Moshé parlava con voce tonante, e tonante era la voce dei profeti, tonante era la voce di San Giovanni il Battista ed esse erano ascoltate da un popolo intero, ma il messaggero kafkiano è un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale e s’incammina in silenzio. Conosce la sua meta? Conosce la strada? Non ci viene detto. Egli ha il petto segnato dal sole imperiale, ma questo segno non appare un privilegio, bensì quasi una macula di condanna, …ad un viaggio senza fine. I profeti erano vicini a Dio. Silenzio, macchia, distanza incolmabile: il messaggero ha connotazioni opposte a quelle dei profeti. Egli non giungerà mai e poi mai, anzi non riuscirà nemmeno ad uscire dal palazzo imperiale ed anche se ciò accadesse, si troverebbe di fronte al secondo palazzo (ma prima dovrebbe attraversare tutti i corridoi del primo) e così via per millenni. Per millenni! Il palazzo imperiale è un babelico labirinto, nel quale è impossibile trovare la porta per uscire, ammesso che una porta vi sia da qualche parte.
Che cosa raffigura questo labirinto? In che modo nasce nella fantasia kafkiana? Il ghetto di Praga, la città di Kafka, era formato da strette viuzze, vicoli angusti che si intersecavano l’un l’altro. La terra promessa è lontana, forse irraggiungibile. Si appartiene al ghetto, fa parte del proprio essere, è una dimensione spirituale. Ed anche se il messaggero riuscisse ad uscire, si troverebbe nel centro del mondo, ripieno dei suoi rifiuti. La legge cattolica per lungo tempo ha vietato di uscire dal ghetto durante la notte.
Perché il centro del mondo è pieno di rifiuti? Nella Kabbalah luriana viene detto che Dio ha inviato ovunque sulla terra piccole scintille (sekkinah) non immediatamente visibili e spetta all’uomo cercarle. L’esilio assume la dimensione di missione divina.
Il messaggero si troverebbe nel centro del mondo: significa che tutto il resto è periferia, distanza, lontananza.
La domanda iniziale assume un senso. Perché un e non il messaggio? Il messo imperiale (o divino?) si fa spazio tra la folla e troverebbe il centro del mondo soltanto dopo aver superato innumerevoli palazzi. Tra la folla, tra la moltitudine è difficile trovare la strada, tra la molteplicità è difficile riconoscere le sekkinah. Il rumore del mondo, il chiasso della modernità distraggono.
Vi sono altre due domande: a chi è indirizzato il messaggio? Qual è il suo contenuto?
La fine del racconto è enigmatica: Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera. È un’immagine malinconica, elegiaca. La malinconia è un peccato, perché nei colori imbruniti del crepuscolo v’è il pericolo di assegnare alla quotidianità un carattere trascendente ovvero un valore maggiore del voluto. Non è detto che colui o colei che aspetta, riconosca il messaggero imperiale. Il testo tuttavia non dice che egli aspetta, ma che ne sogna! Il messaggero è nei recessi profondi dell’anima. Si aspetta il messaggero o il messaggio?
Kafka ha parlato di letteratura, ma l’ha fatto non come un critico, bensì come un narratore, nella cui mente tutto diviene alta creazione immaginifica.
La letteratura è canto, ma è difficile riconoscerlo in un’epoca nella quale le voci si confondono. Di canto parla l’ultimo racconto di Kafka “Giuseppina la cantante ovvero il popolo dei topi” (1924), che ad una lettura attenta sembra essere il testamento spirituale dello scrittore. "La nostra cantante si chiama Giuseppina. Chi non l’ha sentita non conosce il potere del canto…Ma è proprio un canto? Non è forse soltanto un fischiare?". La letteratura è presentata come dilemma, ma dilemma della modernità, perché "nei tempi antichi il nostro popolo cantava, ne parlano le leggende, e si sono perfino conservate canzoni, che nessuno però sa più cantare". Alle leggende era affidata la memoria dei popoli, ma nel tempo della scrittura i miti perdono il loro carattere di verità inconfutabile, si perdono tra le righe impresse d’inchiostro. E soprattutto vanno smarriti allorché narrare diviene un mestiere.
Bisogna vendere la merce. Questa la regola del capitalismo, del consumismo. Non c’è tempo di stare alla finestra e sognare. Anche la letteratura deve sottostare a questa regola.
Giuseppina è personaggio ambiguo, perché se da un lato ella sembra disegnare l’artista occupata soltanto dalla sua arte, dall’altro pare configurare l’esperto nello sfruttare gli umori del pubblico: "D’altronde lei è sempre così; ogni inezia, ogni caso fortuito, ogni renitenza, uno scricchiolio in platea, uno stridere di denti, un guasto nell’illuminazione le offre il destro di aumentare l’effetto del suo canto". Giuseppina è anche presa dalla sua arte. Ma bisogna pur vivere:"Già da molto tempo, forse dal principio della sua carriera d’artista, Giuseppina lotta per essere dispensata da ogni lavoro in considerazione del suo canto…"; "Diversa è invece la sua lotta per l’esonero dal lavoro; è sempre una lotta per il suo canto".
Sappiamo quanto Kafka abbia sofferto la sua duplice esistenza, quella giornaliera di impiegato e quella notturna di scrittore, ma non si deve commettere l’errore di pensare che lo scrittore praghese abbia inteso parlare della propria scrittura, o meglio se anche questa fosse stata la sua intenzione, si deve sempre considerare il fatto che i grandi narratori rivelano verità universali. Le considerazioni esposte, se pure nell’intenzione di Kafka fossero state limitate alle sue opere –ma non lo credo-, vanno estese a tutta la letteratura del Novecento, e forse esse sono più valide oggi che nel 1924, in un’era che appare più kafkiana di quella di Kafka, nel nostro tempo strepitante del chiasso dei giornali, della televisione, della radio, di internet, poiché si rischia di scambiare un canto per un sibilo e un sibilo fastidioso per un canto. Non più ascoltiamo le verità dei miti, assisi intorno ad un uomo sapiente, non più ascoltiamo il messaggio di colui che conosceva, ma soli leggiamo e cerchiamo fra le righe, ascoltiamo mille e mille voci e le confondiamo.
La letteratura moderna impone più attenzione e può anche sembrare, all’immediata lettura, di ascoltare un sibilo, ma leggendo o rileggendo -ad esempio leggendo e rileggendo Kafka- accade di percepire una melodia infinita ed allora porremo fra i grandi del tempo gli autori che penetrano nel nostro spirito. E forse ascolteremo anche il messaggio dell’imperatore.
può darsi perciò che non ne sentiremo molto la mancanza, mentre Giuseppina, liberata dagli affanni terreni, i quali sono riservati a tutti gli eletti, si perderà lietamente nella innumerevole moltitudine degli eroi di nostra gente, e presto, dato che noi non registriamo la storia in una redenzione superiore, sarà dimenticata come tutti i suoi fratelli”(1).

1)Franz Kafka, Racconti, Milano, pag 597