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Mario Amato
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FRANZ KAFKA, UNA FINE ED UN PRINCIPIO
 
Esistono libri inevitabili, personaggi inevitabili e, naturalmente, autori inevitabili.

È continuamente in atto una discussione fra i critici su quale sia il più grande scrittore del Novecento, dibattito sterile quando inutile, poiché non è possibile e neanche sensato compilare una graduatoria di merito fra i letterati. I nomi che più spesso vengono pronunciati sono quelli di Marcel Proust, James Joyce, Franz Kafka.
È più giusto dire che tutti hanno segnato il secolo, ognuno con opere imperiture.
Proust e Joyce hanno impresso la loro traccia rispettivamente con “La Ricerca del tempo perduto” e con “Ulisse”, mentre per una lettura approfondita di Kafka è doverosa la lettura dei tre romanzi "Amerika”, “Il Processo”, “Il Castello”. In Amerika, il protagonista, di nome Karl Rossmann, emigra nel nuovo mondo per aver messo incinta la cameriera dello zio; nel Processo, Joseph K. viene arrestato una mattina e non gli viene mai detta quale sia l’accusa; nel Castello infine K. è stato forse chiamato dal castello.
Karl Rossmann, Joseph K., K.: è evidente come progressivamente vi sia la perdita del nome, ovvero della propria identità.
Il romanzo è già dall’inizio la storia di un eroe, e per essere tali è necessario credere in sé stessi.
Kafka decreta la definitiva morte dell’eroe, riducendo il protagonista ad una mera sigla.
Vi è tuttavia un paradosso: Karl Rossmann cerca lavoro in America, Joeph K. è probabilmente un impiegato, K. è un agrimensore. Solo di quest’ultimo conosciamo il lavoro.
Il primo romanzo è ambientato nella terra promessa, il Processo si svolge in un labirinto di uffici, il terzo in un paese che ha quale caratteristica la lontananza, anche temporale. Joseph K. non riuscirà mai ad accostarsi al Tribunale, né saprà mai di quale colpa sia stato accusato, K. non si avvicinerà mai al Castello, ammesso che esso esista; solo Karl Rossmann troverà una soluzione alla propria esistenza, sebbene precaria, poiché sarà assunto da un circo e quindi destinato a girovagare, a vivere in una eterna diaspora.
I tre romanzi si svolgono in una dimensione metastorica e tuttavia essi appartengono al Novecento.
L’America è la terra promessa: se questo può rappresentare simbolicamente la parola data da Dio agli ebrei, non bisogna dimenticare che siamo all’inizio del Novecento, allorché migliaia di persone partivano con la speranza di trovare una vita economicamente degna.
Nel Processo non vi è alcun riferimento storiografico, e tuttavia il labirinto nel quale si smarrisce Joseph K. ricorda le metropoli moderne; inoltre il protagonista è oppresso da cavilli burocratici, è alla ricerca di documenti che spieghino, chiariscano, perché nel mondo moderno non basta avere nome e cognome (il suo cognome è solo una sigla), ma è necessario un documento.
Il paese nel quale si svolge la vicenda narrata ne “Il Castello” è apparentemente connotato da una esistenza semplice, eppure all’inizio, allorché K. giunge alla taverna, si ha un elemento della modernità: egli parla al telefono con qualcuno al castello (ammesso che esso esista), ma la voce giunge confusa, contraffatta dal groviglio di fili. K. non riesce a dire il suo nome, né comprende chi vi sia dall’altra parte.
Gli eroi dei romanzi sono ben definiti nella loro identità, agli eroi degli antichi poemi bastava pronunziare il loro nome: avevano nome ed avevano soprattutto un compito da svolgere.
Karl Rossmann è destinato a svolgere un mestiere incerto, di Joseph K. non conosciamo esattamente l’occupazione, solo di K. sappiamo che è un agrimensore, attività tuttavia che non è necessaria al Castello. Più volte K. sottolinea quale sia il proprio lavoro. K. ha un lavoro, ma non un nome.
Nel mondo capitalistico non è importante l’essere, ma la funzione: bisogna produrre.
Vi è una conseguenza terribile socialmente e individualmente: chi produce può essere sostituito e rimpiazzato, perché è simile al prodotto, è res, e merce.
Non è irrilevante che K. sia un agrimensore (Landvermesser), letteralmente un misuratore di terra: egli ha un sistema di misure per valutare il mondo, ma di fronte al Castello la sua Weltschaung non serve, non gli permette di comprendere.
È probabile che nella scrittura kafkiana il Castello, inaccessibile, lontano, forse inesistente, rappresenti l’Assoluto, ma nella situazione di K. è anche da vedere quella dell’uomo del Novecento che perde le certezze raggiunte dalla scienza positivistica ed i grandi ideali romantici e non trova strumenti di conoscenza in grado di spiegare il mondo, il nuovo mondo che sta nascendo.
Kafka scrive agli inizi del Novecento e il mondo sta per essere sconvolto da una guerra impensabile, che cancellerà tre imperi, quello austro-ungarico, al quale apparteneva lo stesso Kafka, quello ottomano e quello zarista.
La medicina ha scoperto il lato oscuro dell’uomo, il subconscio, grazie a Sigmund Freud, sebbene la letteratura avesse anticipato lo scienziato austriaco; Albert Einstein ha rivoluzionato la fisica con la teoria della relatività, che cambia i concetti di spazio e di tempo.
L’uomo nuovo del Novecento si trova dinanzi ad un mondo che i vecchi strumenti filosofici, scientifici e religiosi non sanno spiegare. Quegli strumenti non danno sicurezze e non si può più essere certi nemmeno della propria identità; ormai tutto può essere sostituito, anche gli uomini, che hanno valore soltanto per quello che producono, e tutto può essere ridotto ad una cifra, ad una sigla o ad una lettera.
È tipico dei periodi di crisi l’uso del simbolo, che è per sua natura polivalente.
Anche nella scrittura di Franz Kafka vi è un paradosso: la sua lingua è semplice, ma non lo è la sua letteratura. Un castello è un castello, ma K. non riesce a vedere neanche la sua struttura architettonica.

Vi è nella letteratura un’altra lettera famosa, la “A” scarlatta da cui è contrassegnata Ester Pearl, la protagonista de “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne: il narratore nota che tutti gli uomini che vogliono fondare la città di Dio sulla terra destinano una parte di terreno al cimitero ed un’altra parte alla prigione ed in una di queste prigioni giaceva Ester Pearl. La lettera scarlatta riluceva più intensamente alla luce delle stelle. La “A” simboleggia l’adulterio, il peccato commesso dalla protagonista, ma simboleggia anche l’America.
Anche qui siamo in presenza di una colpa, anche qui siamo in presenza di uomini che non comprendono il mondo dinanzi a loro. I puritani sbarcarono sulle coste americane con la loro fede incrollabile, con il loro cristianesimo intollerante, così come lo era quello di coloro che li perseguitarono e li costrinsero a fuggire, così come lo era quello della Santa Inquisizione cattolica, e si trovarono di fronte a popolazioni che avevano con la natura, con il mondo, un rapporto completamente diverso. La Bibbia, unico strumento di conoscenza dei puritani, non poteva spiegare il modo di vivere di quegli uomini e la risposta, l’unica possibile, fu che quegli uomini erano esseri demoniaci.
E quante volte abbiamo sentito definire le macchine moderne aggeggi infernali?

I personaggi dei romanzi kafkiani non comprendono il mondo, ma non lo demonizzano, perché è Kafka che non lo demonizza.
Vi è una via di salvezza, non trovata da Karl Rossmann o Joseph K. o K., ma da un altro personaggio kafkiano, da Josephine, la cantante (Franz Kafka, Josephine, la cantante ovvero del popolo dei topi, Racconti).

La soluzione è la poesia. Nella ressa di messaggi, nella confusione di voci che strepitano, urlano, nella moltitudine di informazioni che giungono dalle nostre sofisticate macchine elettroniche, possiamo ascoltare ancora l’unica voce consolatrice: la poesia.


dicembre 2003