Pasolini trentanni dopo 
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Alfonso Cardamone
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P.P.P. “CORSARO” DELL'UNIVERSO ORRENDO
 
Il titolo di questa nostra comversazione su Pasolini già ne dichiara il senso ed il taglio. Essa farà riferimento a quell’orrendo universo, infatti, del consumo e del potere, che Pasolini denuncia e attraversa con incursioni rapide, aggressive, da guerra di corsa, appunto, così nel Caos come successivamente negli Scritti non a caso definiti corsari.
La nostra sarà, più che altro, una lettura guidata, per temi ed intrecci di temi, della presenza di Pasolini nella stagione cruciale del 68/69 e delle elaborazioni conseguenti del suo pensiero, in veggenza e preveggenza, in attualità e in previsione oltre quella presenza. Pertanto, la nostra attenzione sarà prevalentemente rivolta agli scritti del Caos, ma con alcune puntate sugli Scritti Corsari, per sviluppi e approfondimenti, lì dove appariranno necessari.
È il Pasolini polemista e giornalista, politico, certo, ma anche e soprattutto, in un certo senso, antropologo e sociologo, che qui interessa, ed anche poeta e scrittore, ché in lui i generi si mescolano e tra loro vicendevolmente si rimandano.
Gli scritti del Caossono testi tratti dalla rubrica omonima che Pasolini tenne sulle colonne del settimanale Tempo dal 1968 al 1970.
Anni critici, a livello nazionale e internazionale, anni cruciali di contestazione e di repressione, di eclissi di vecchi soggetti politici e di violenta emersione di nuovi, di vittorie operaie e di reazione. Di violenta trasformazione sociale. Anni in cui germinano i semi del terrorismo (ma vedremo qual è il senso ampio e profondo che Pasolini dà a questo termine, senso ben diverso da quello strumentale e riduttivo con cui viene usato ai nostri giorni di fondamentalismi e kamikaze, di tragiche guerre “sante” e/o “preventive”), e parallelamente i semi della colonizzazione delle coscienze. E Pasolini di tutto ciò non è solo testimone attento e sentimentalmente coinvolto, ma anche il sezionatore lucido e appassionato al tempo stesso, che incide e taglia in corpore vili, e mette a nudo cancrene e mutazioni e decomposizioni.

La verità. Questa sembra essere la motivazione di fondo dei suoi interventi. La sua ossessione. La sua missione.
La rubrica del Caos nasce dalla “necessità ‘civile’ di intervenire, nella lotta spicciola e quotidiana, per conclamare quella che secondo me è una forma di verità”. Così dichiara nell’intervento di apertura del 13 agosto ’68. Sostenendo che, nonostante per natura potesse subire il fascino del “disimpegno” e del “distacco dalle cose”, a contraddire quegli aspetti della propria natura era spinto dal suo “conformismo” comunista. Ma qui appare subito una delle contraddizioni di Pasolini (contraddizioni, comunque, che egli rivendicherà sempre come paradigmatiche della sua sostanziale coerenza); o, meglio, qui appare il contrasto tra percezione superficiale di una sempre più labile appartenenza, e maturazione nel profondo di un sempre più significativo distacco e allontanamento da quella appartenenza. Il conformismo del PCI poteva spingere infatti all’impegno politico, ma il machiavellismo di fondo di quel partito, per cui il fine poteva giustificare qualsiasi mezzo, non poteva certo essere condiviso dall’equazione pasoliniana impegno-disvelamento della verità. Per Pasolini, non per il PCI, la verità era veramente rivoluzionaria.
D’altronde, già i tre anni di silenzio che, dopo la chiusura della precedente rubrica, “dialoghi con Pisolini”, dallo scrittore tenuta su “Vie Nuove”, avevano preceduto l’impegno assunto con Il Tempo, avevano coinciso, tra l’altro, come scrive Ferretti nell’introduzione all’edizione degli Editori Riuniti del Caos, “con un’accentuata freddezza verso il PCI ed il concomitante interesse nei confronti dei movimenti “scandalosi” e “diversi” dei negro-americani e del Terzo Mondo”. Poi, scoppia il Sessantotto e quella freddezza, quella crisi si accentuano anche a livello di consapevolezza, mentre cresce, all’opposto la considerazione per il Movimento Studentesco, considerazione certo conflittuale, certo contraddittoria, ma quanto significativa per la maturazione del pensiero sociologico e antropologico, ancora prima che politico, di P.P.P.!
Ma andiamo con ordine, provando a sezionare, anche noi, sulle pagine del Caos e degli Scritti corsari.
comunista dissidente, a sinistra del PCI, solo, non per moda, e spesso in pessima compagnia”, si definisce nella rubrica del 9 novembre ’68 (e vedremo in seguito la portata di quel “solo”, così come la natura e il senso della “pessima compagnia”).
Il 20 dicembre dell’anno successivo, a chiosa dell’articolo con cui Berlinguer sull’Unità illustrava le motivazioni della radiazione dal PCI dei redattori del Manifesto, è proprio sui cardini dichiarati di quelle motivazioni, coerenza, chiarezza, principi e regole di condotta, serietà infine, che si appunta, aspramente, sarcasticamente, la critica di Pasolini:
“Io trovo tutto ciò fuori dalla sfera umana, esistenziale e logica: la ‘coerenza più rigorosa’ è di una disumanità da far rizzare i capelli, è il lacerto di un linguaggio per monaci fanatici, non per uomini; e così la ‘massima chiarezza’; per non parlare dei terribili ‘principi e regole di condotta’! Si ha coerenza e rigore solo là dove c’è effrazione e contraddizione; si ha chiarezza solo là dove c’è anche oscurità; e i principi e le regole sono fatti per essere violati. È così ovvio da vergognarsi a dirlo”.
E, a proposito del decantato vanto del PCI “partito serio”: “Come ci si può vantare della propria serietà? Seri bisogna esserlo, non dirlo, e magari neanche sembrarlo! Seri o si è o non si è: quando la serietà viene enunciata diventa ricatto e terrorismo!”.

Terrorismo, ecco, esce fuori, anche a questo proposito la terribile parola. Ma che cos’è “terrorismo”, per Pasolini?
Il sottotitolo ideale del titolo della rubrica, scrive sempre in “il perché di questa rubrica” del 13 agosto ’68, “potrebbe essere ‘contro il terrore’“, aggiungendo che l’autorità “è sempr terrore, anche quando è dolce”; e anche la buona educazione è “per sua natura terroristica”, perché fondata su comandamenti negativi e perché finisce per diventare la pretesa di un diritto, sulla cui base esercitare, da adulti, i propri ricatti morali. Questa è la base del terrorismo del mondo borghese, ma “ci sono terrorismi alla destra, clerico-fascista, di questo mondo, e terrorismi alla sinistra”. E, alla sinistra, di terrorismi di questa natura ce ne sono di vario genere: c’è il “terrorismo staliniano … ma anche [il] terrorismo della nuova sinistra” (le “cattive compagnie”, appunto) e, come abbiamo visto, quello moralistico e conformistico, del PCI.
Ecco perché Pasolini ha la piena, dolorosa consapevolezza di essere completamente solo in questa sua missione: “E se dunque mi preparo –in questa rubrica, frangia della mia attività di scrittore- a lottare, come posso, e con tutta la mia energia, contro ogni forma di terrore, è, in realtà, perché sono solo. Il mio non è qualunquismo, né indipendenza: è solitudine.” E’ quasi un grido, il suo:
“Io sono completamente solo”!!!!
“la mia provocatoria indipendenza” è ciò che “fa nascere contro di me tante ostilità” scrive nella rubrica del 4/1/69.
Sì, Pasolini si sente perseguitato, e di fatto lo è (i processi, le accuse vergognose, le incomprensioni e gli attacchi degli intellettuali, anche di quelli che, per collocazione politica, avrebbero dovuto essergli più vicini ): “Io, solo come mi trovo, fuori da ogni codice per non dire da ogni legge, mi arrogo la facoltà di un’assoluta indipendenza di pensiero e di parola: è giusto quindi che la paghi” (20/9/69).
Sempre più solo, dunque, nella sua lotta contro “quel Qualcosa di fatale che è il modo di essere di una nazione (ignorante, provinciale, volgare, riduttiva, vecchia, terroristica, ingiusta)”, perché così ridotta dalla malattia vampiresca di cui è portatrice la borghesia. Sempre più solo nella denuncia e nell’attraversamento di quell’universo orrendo creato dal nuovo capitalismo (che a lui appare già globalizzante) e che si nutre della pestilenza borghese.

Già, a Pasolini la borghesia non appare più semplicemente come una classe economica, ma come qualcosa di altro e di ben più invasivo. E anche a questo proposito, sia detto en passant, si misura il suo allontanamento dall’ortodossia marxista. La borghesia, dunque; l’attacco, anche violento, contro la borghesia sarà “il tema centrale” del suo discorso settimanale impegnato nel disvelamento della VERITA’. Ma che cos’è la borghesia?
“io, per borghesia non intendo tanto una classe sociale quanto unavera e propria malattia. Una malattia molto contagiosa: tanto è vero che essa ha contagiato quasi tutti coloro che la combattono…”
Il borghese è “un vampiro, che non sta in pace finché non morde sul collo la sua vittima per il puro, semplice e naturale gusto di vederla diventar pallida, triste, brutta, devitalizzata, contorta, corrotta, inquieta, piena di senso di colpa, calcolatrice, aggressiva, terroristica, come lui”. Dove, al di là del profluvio incontenibile di aggettivi, sono gli ultimi tre a chiarire inequivocabilmente il senso della malattia borghese per Pasolini, il quale innanzitutto, nella sua polemica, si qualifica non tanto pro qualcosa o qualcuno, ma contro: egli è controborghese! E quanto ormai lontano dalla rigida ortodossia marxista:

“È giunto dunque il momento in cui non è più sufficiente riconoscere la borghesia come classe sociale, ma come malattia: ormai, riconoscerla come classe sociale è anche ideologicamente e politicamente sbagliato … Infatti, la storia della borghesia -attraverso una civiltà tecnologica, che né Marx né Lenin potevano prevedere- si accinge ora, in concreto, a coincidere con l’intera storia del mondo” [visione ad un tempo rivoluzionaria, a fronte del conservatorismo ideologico dell’epoca, e singolarmente preveggente!].
“Sintomo sicuro della presenza del male borghese è appunto il terrorismo, moralistico e ideologico”.
Già, il terrorismo: esso è tutt’uno con la malattia borghese. C’è un terrorismo piccolo-borghese che vive del ricatto fondato “sul suo moralismo, sulla sua ipocrisia, sul suo comportamentismo divenuto norma intrasgredibile” (10/5/69).
Moralismo, comportamentismo normativo, ipocrisia: questa la micidiale miscela che sostanzia il cosiddetto buon senso del cosiddetto uomo medio:
Il buon sensoè “sempre pericoloso e terroristico”, perché “esso è, in una parola, il ‘qualunquismo che si promuove a visione del mondo’ “; e le “persone dotate di ‘buon senso’ … sono potenzialmente dei fascisti. Sono potenzialmente dei fascisti perché sono dei qualunquisti, ed eleggono ad ideale umano l’uomo medio, che è una minacciosa e terroristica astrazione”.
Perché l’uomo medio?
Perché “… l’uomo medio, nell’accezione irrazionale con cui si usa generalmente questa espressione, è praticamente un criminale. Si potrebbe dire che è nel torbido (o se vuoi squallido) ambiente degli uomini medi che maturano le guerre, i delitti contro l’umanità, e ogni grande o piccola repressione”. (29/11/69)

E dunque, la borghesia è terroristica e volgare:
“la volgarità è peggio della lebbra. … La volgarità è aggressiva, ricattatoria, prepotente, possessiva, presuntuosa: essa nasce –nel nostro particolare momento storico- dalla ‘sottocultura’ borghese”. (gennaio 1970).

E poiché la massa degli studenti è prevalentemente di estrazione borghese, anche in loro può covare il germe del terrorismo. Ma questa, si badi bene, è solo una potenzialità, che Pasolini denuncia come un rischio.
In realtà, ben diverso è il giudizio sostanziale che egli dà sul senso e sulla portata del M.S. Sulla sua posizione molti equivoci furono ingenerati dalla distorta o parziale interpretazione della famosa poesia.
Ma sentiamo, a tal proposito, lo stesso Pasolini. Nella rubrica del 17 maggio 1969, così scriveva:
“Proprio un anno fa ho scritto una poesia sugli studenti, che la massa degli studenti, innocentemente, ha ‘ricevuto’ come si riceve un prodotto di massa: cioè alienandolo dalla sua natura, attraverso la più elementare semplificazione. Infatti quei miei versi, che avevo scritto per una rivista ‘per pochi’, ‘Nuovi Argomenti’, erano stati proditoriamente pubblicati da un rotocalco ‘L’Espresso’ (io avevo dato il mio consenso solo per qualche estratto): il titolo dato dal rotocalco non era il mio, ma era uno slogan inventato dal rotocalco stesso, slogan (‘Vi odio, cari studenti’) che si è impresso nella testa vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia. Potrei analizzare a uno a uno quei versi, nella loro oggettiva trasformazione da ciò che erano (per ‘Nuovi Argomenti’) a ciò che sono divenuti attraverso un medium di massa (‘L’Espresso’). Mi limiterò a una nota per quel che riguarda il passo sui poliziotti. Nella mia poesia dicevo, in due versi, di simpatizzare per i poliziotti, figli di poveri, piuttosto che per i signorini della facoltà di architettura di Roma (negli scontri ormai così lontani di Valle Giulia): nessuno dei consumatori si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetto di un odio razziale a rovescia, in quanto il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri –gli spossessati del mondo- ha la possibilità anche di fare di questi poveri degli strumenti, creando verso di loro un’altra specie di odio razziale: le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ‘ghetti’ particolari, in cui la ‘qualità di vita’ è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università. Nessuno dei consumatori di quella mia poesia si è soffermato su questo: e tutti si sono soffermati al primo paradosso introduttivo appartenente ai formulari della più ovvia ars retorica”.

Già, appunto, nessuno si è soffermato ecc. E come avrebbero potuto, come sarebbe stato possibile, dal momento che un altro dei connotati dell’universo orrendo che si andava costruendo in quegli anni, e che puntualmente Pasolini distingue e denuncia, era appunto la cancellazione di ogni residuo della cultura umanistica?
“Il passaggio da una cultura umanistica a una cultura tecnica pone in crisi la nozione stessa di cultura” e genera alienazione (28/12/68).
In uno degli Scritti Corsari (15/7/73), parlando della relazione cultura di massa-borghesia-globalizzazione, scriverà:
“la ‘vera’ tradizione umanistica … viene distrutta dalla nuova cultura di massa e dal nuovo rapporto che la tecnologia ha istituito -con prospettive ormai secolari- tra prodotto e consumo; e la vecchia borghesia paleoindustriale sta cedendo il posto a una borghesia nuova che comprende sempre di più e più profondamente anche le classi operaie, tendendo finalmente alla identificazione di borghesia con umanità”.
L’avvento della comunicazione massificata (e già potremmo diremassmediatica, con l’attacco che Pasolini porta alla Televisione) segna la morte della ricchezza espressiva (e qui sembra quasi di leggere un’anticipazione alle considerazioni del recente saggio di Mario Perniola “Contro la Comunicazione”):
La finta espressività dello slogan” (S. C. 17/5/73), che egli prende a segno emblematico del suo discorso, e che è “mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività”, è “la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica”: essa è “il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, ultimi depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte”.

Ma, tornando ai rapporti con il Movimento Studentesco, in verità, lungi dall’esserne stato un denigratore, Pasolini ne è stato, per quanto possa suonare strano a causa dell’immagine veicolata, appunto, nel cosiddetto immaginario collettivo, dal gioco perverso della comunicazione, un vero e proprio glorificatore.
Intanto, il conclamato rigetto del principio di Autorità, non solo stabilisce le modalità di comportamento e di relazione del poeta con i giovani contestatori, ma contemporaneamente fornisce l’elettivo terreno di incontro e di condivisione delle idealità di fondo.
La rivoluzione del Sessantotto fu principalmente rivolta contro il ricatto dei padri, e Pasolini da subito, come abbiamo visto, dichiara di abiurare al principio di Autorità: “Un giovane che apra gli occhi oggi alla luce (culturale) non può non vedermi inserito in [una] sorta di Autorità paterna che lo sovrasta. Ebbene, io non voglio ammetterlo. Ecco perché questa rubrica non avrà –almeno nelle mie intenzioni- nulla di autorevole, e io non avrò nessuno scrupolo nello scriverla: nessun timore, intendo dire, di contraddirmi, o di non proteggermi abbastanza” (rubrica di apertura di Caos).
E più avanti, il 9/11/68, espliciterà ancor meglio questa sua volontà di non essere padre: “Quando osservo, con amore o con avversione, con complicità o con rabbia … gli studenti del M. S., un sentimento è continuo e certo: la volontà a non volermi considerare loro padre”.
E Dutshke, Rudy Dutshke, Rudy il Rosso, che terrorizza la borghesia, benché per motivi anagrafici gli possa essere padre, Pasolini lo guarda con “l’occhio del figlio”, pende dalle sue labbra “che dicono novità” e lo chiama “padre mio, capo”, perché, insieme con i suoi “giovani coetanei”, va “per la strada maestra della storia, non per i sentieri”. Altro che sottovalutazione! Altro che denigrazione!
Gli studenti che manifestano contro la condanna a morte di Panagulis gli appaiono come l’unica speranza contro il terrorismo dell’opinione pubblica:
“È l’unica speranza. Il mondo ridotto a una cassa armonica che moltiplica per milioni di volte uno stesso sentimento. L’opinione pubblica –covo del terrorismo, sede deputata della rassegnazione- è sconvolta nei suoi termini logici (pazzeschi) dalla presenza degli studenti che gridano. Dentro l’opinione pubblica c’è dunque ormai una altra opinione pubblica, che lacera e manda in pezzi la prima, esplodendovi dentro. Anche questa seconda opinione pubblica, è vero, ha in sé i germi di un nuovo terrorismo: ma essa sta nascendo, ne è ancora esente: si presenta come speranza, opponendosi alla rassegnazione e al bieco memento mori dell’ufficialità. Il futuro reale forse la contaminerà: ma il futuro ideale, verso cui si proietta, la rende stupenda (mi capisce chi è stato giovane ai tempi della Resistenza). … La loro coscienza si adempie –in una pienezza democratica mai vista finora nel mondo- nella protesta, nella lotta, nell’azione, nel sentimento di giustizia da realizzare”.

Sì, non gli sfuggono i limiti ed i rischi impliciti nei giovani “rivoluzionari” e, addirittura, il terreno comune che possono arrivare a condividere con il tecnicismo neocapitalistico trionfante, attraverso la cancellazione del passato:
“il ‘rapporto sacrilego con il passato’ del tecnico [che stravolge le città] e quello del rivoluzionario” gli sembrano coincidere; in Italia, p. es., l’apparente analogia si coglie “in certo atteggiamento drastico dei giovani, che condannano indiscriminatamente ‘tutto’ ciò che è vecchio in nome della rivoluzione, facendosi così portatori di un valore neocapitalistico: la sostituzione totale del nuovo potere industriale ai vecchi poteri. Oppure nel culto che hanno certi gruppi di giovani per il lavoro collettivo, d’equipe! Come se appunto si trattasse di una collettivizzazione del lavoro di tipo rivoluzionario e popolare, mentre si tratta proprio di una richiesta di spersonalizzazione da parte della cultura di massa” [oggi, potremmo dire, da parte della matura postmoderna mitologia del progetto che pretende di espropriare e sostituire il soggetto] (22/3/69).
E stigmatizza: “puritanesimo rivoluzionario e puritanesimo industriale si identificano, e l’amore per la bellezza viene considerato peccato” (22/3/69). Avendo già in precedenza osservato che l’esplosione industriale neocapitalistica cancella le storie particolaristiche in ogni parte del mondo, in quanto esse “si vanno estinguendo e perdendo in una storia generale e comune: gli stili confluiscono, stingendo e divenendo sopravvivenze,in uno stile unico: cioè quello neocapitalistico, stupido, pretenzioso, e in fondo anche povero” (1/3/69). E a noi sembra quasi di leggere la critica puntuale e devastatrice dello Jameson del saggio sul Postmoderno: Pasolini certo non usa questo termine, ma sono proprio le basi del postmoderno che egli sta attaccando insieme con il neocapitalismo!

In quest’ambito, sia detto di passaggio, si inserisce anche la critica pasoliniana alla nuova avanguardia e la celebrazione, di converso, del valore iperstorico della poesia. Riprendendo la questione dell’intellettuale, egli scrive: “Dov’è l’intellettuale, perch e come esiste?”; e così si risponde il 13/8/68:
“Ora l’egemonia culturale, che per circa un ventennio è stata detenuta dal PCI, è passata nelle mani dell’industria.
Così che la risposta … potrebbe essere, oggi, la seguente: ‘L’intellettuale è dove l’industria culturale lo colloca: perché e come il mercato lo vuole’ ”.
Naturalmente, questa risposta riguarda solo la figura di un “intellettuale ‘medio’ e quindi astratto”, ogni eccezione essendo possibile ed augurabile. Ma ciò che interessa è:
- in prospettiva, la lucida consapevolezza di una tendenza ai nostri giorni divenuta tragica e generalizzata norma e consuetudine;
- l’attacco che Pasolini, sulla base di queste premesse, sferra alla neoavanguardia e, indirettamente, all’universo grottesco del postmoderno [anche se mai lo cita come tale]: “lo scrittore caro all’industria culturale, non è solo lo scrittore che produce falsi bei romanzi … ma è … anche lo scrittore d’avanguardia. Anzi, i primi scrittori a essere scrittori di ‘potere’, completamente inventati e lanciati dall’industria culturale, sono stati appunto gli scrittori d’avanguardia (il Gruppo ‘63, testé defunto)”.

Passa quindi egli ad analizzare contrasti e convergenze tra neoavanguardia e Movimento Studentesco:
“la fatuità dell’avanguardia era esclusivamente letteraria. Infatti non ne è uscito un solo libro buono. Il M. S. ha travolto la N. A., ossia una contestazione puramente verbale (e quindi letteraria) non escludente la malafede (e anzi conclamante la malafede come uno strumento necessario ai propri fini), attuata da scrittori la cui accettazione del ‘sistema’ e quindi dell’ ‘integrazione’ , era il fondamento ideologico paradossale. La Rivoluzione di Maggio ha dunque travolto la fatuità del disimpegno imponendo una nuova specie di impegno … I neo-avanguardisti (forse in nome di quella loro vantata malafede ‘dadà’, mistificante per eccesso di demistificazione) hanno accettato la Rivoluzione di Maggio con molta disinvoltura: vi si sono bellamente identificati. E poiché, naturalmente, il terrorismo è insito in ogni movimento programmato per una volontà non escludente la malafede, come paradosso totale; e poiché un certo terrorismo è anche insito in ogni movimento fondato sul moralismo (la spinta a rivendicare in modo radicale la purezza dell’ortodossia, nella fattispecie marxista), i due terrorismi si sono fusi in una specie di ‘monstrum’. Per cui molti contestatori globali hanno creduto di riconoscere il loro correlativo letterario nella letteratura d’avanguardia di moda, come momento puramente eversivo di cui essi non erano in grado di riconoscere la pura e semplice vanità letteraria: e i neo-avanguardisti hanno assurdamente fatto loro la contestazione pragmatica, il mito castrista dell’azione ecc., facendo lo gnorri sulla propria ideologia per cui la contestazione era stata solo e unicamente linguistica o verbale” (da Scritti Corsari, Dentro la cultura, 17/1/70).

Ma, al di là della pur lucida consapevolezza dei limiti, esaltante è, in definitiva, la glorificazione, come dicevamo, del M.S.:
“È il popolo italiano -si chiede- in grado di accepire le nozioni di autogestione e di decentramento? Ha mai vissuto, il popolo italiano, non dico un momento di democrazia reale, ma il desiderio di una democrazia reale? Ebbene … sì. Nel 44-45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire -magari solo a livello pragmatico- cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. In mezzo c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline”.

Bene: questo dovevamo, per rispetto della verità, a Pasolini ed al Movimento.
Ma mi piace chiudere queste note, richiamando la celebrazione, questa sì priva di ogni titubanza o ripensamento, del valore rivoluzionario della poesia:
“… l’opera di un autore è come la faccia di un negro. È con la sua stessa presenza, con il suo ‘esserci’, che è rivoluzionaria. E ciò, secondo me, non avviene affatto a livello sovrastrutturale, ma strutturale [e qui noi cogliamo la vera chiave del suo allontanamento, della sua solitudine rispetto al comunismo]. Infatti l’intera struttura è messa in ballo e in pericolo, dal solo ‘esserci’ della faccia di un negro o dell’opera di un autore”. E questo perché la diversità è sostanziale: la poesia “Non è merce”! “La poesia infatti non è prodotta ’in serie’ [ecco la ragione profonda della sua avversione radicale alla neo-avanguardia]: non è dunque un prodotto”.
La poesia, inoltre, “non è ‘valore metastorico’… Essa è se mai iperstorica, perché la sua carica di ambiguità non si esaurisce in alcun momento storico concreto”.

Dopo la sua morte, dopo la sua esecuzione, le spoglie di Pasolini, le ceneri di Pasolini, hanno visto gli avvoltoi volteggiare su di esse; esse sono state contese un po’ da tutti: dagli estremisti di sinistra e da quelli di destra, passando per i veterocomunisti, i radicali e quant’altri mai non ne avessero alcun diritto.
È mia convinzione che Pasolini, che odia il potere ovunque si trovi (poiché “il potere è sempre di destra” –21/12/68-); che rifiuta e respinge anche per sé ogni riferimento e garanzia derivanti dal principio di autorità; Pasolini, che “negli atteggiamenti veramente spontanei e naturali della gioventù moderna” (il suo culto dell’ autenticità e dell’ingenuità) coglie analogie con gli anarchici italiani storici, commovendosi di fronte alla coincidenza di atteggiamenti che non conoscono compromessi o “vie d’uscita, flessioni e debolezze, davanti all’ ‘autorità’ e alla ‘repressione’ “(12/4/69); che si domanda: “che senso ha vivere, se non essere fedeli, disperatamente e magari ottusamente, alla prima e rozza idea di libertà che ci spinge da giovani ad agire?", e che orgogliosamente dichiara: “Parlo da utopista, lo so. Ma o essere utopisti o sparire”; è mia convinzione, dicevo, che questo Pasolini ha profondi punti di contatto con il sentimento anarchico piuttosto che con qualsiasi altro.

Ma neanche dagli anarchici, in quanto sia pur vago soggetto politico, egli può essere rivendicato in maniera esclusivistica. Il suo pensiero, la sua opera, e la sua eredità, in realtà, sfuggono e si sottraggono ad ogni mutilante appartenenza politica. Egli appartiene all’intera umanità, ma propriamente, si badi bene, a quella umanità non ancora liberata e per la cui liberazione egli ha lottato. E solo i poeti, in definitiva, come lui diversi ed ambigui (diversi ed ambigui –sia chiaro- non per altro, non per altro che per non essere asserviti al culto omologante della merce), non metastorici ma iperstorici, che come lui conservano un “elemento anarchico” nella propria “ideologia” (S.C. 7/1/73/) hanno il diritto di riconoscerlo e di chiamarlo, in perpetuo, fratello.

intervento dagli "Atti del Convegno" di Frosinone

il neretto che evidenzia alcuni termini pasoliniani è dovuto ad intervento del redattore