Pasolini trentanni dopo 
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Raffaello Morbiolo
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POESIA PER PASOLINI
 
Il melo.

Caffè. E’ il risveglio.
L’odore che si diffonde. Sul fornello la moka gorgoglia.
È il mio rivolo d’acqua insaporita. La polvere marrone, farinosa ha una memoria.
C’è l’odore delle mani e della terra, della fatica.
Roma. Mi sveglio lento, le lettere di un giornale sono acquose.
Mi guardo intorno e c’è un ordine in quella casa
che mi sembra non venga vissuta da anni. Ma non c’è polvere.
Quasi che qualcuno venga ogni giorno a rassettare,
perché un ospite può sempre bussare alla porta.
Non come nella mia dimora, il mio circo, quello che porto dentro.
Vivo nella mia anima e vagabondo per la città.
Verso quali luoghi non lo so.
Ma ad ogni passo quello che scorgo al di fuori
si sublima dentro e tutto l’incomprensibile diventa chiaro.
Le sfumature e le relatività sono paure, consce.
Ma chi ci avrà fatto questo scherzo?
Essere così complessi, pensare di esserlo.
E poi la fobia di essere è la semplice risposta.
Sto per prendere coscienza di chi sono, ma devo ancora bere il mio caffè.

Mi posa le sue labbra, quasi non le sento.
È il fantasma dell’amore che mi preda e io mi lascio cacciare.
Voglio uscire per rivederlo in questo mondo, vederlo bastonato
cucito, accarezzato. Come certi amori.
Guardare la pena e il tormento del domani nelle precarie vite degli uomini.
Non c’è lavoro, non lo vorrei nemmeno.
Uscire e rientrare, continuamente.
Per scoprire che sembra tutto uguale, ma che in realtà anche i senza tetto
dormono in un’altra posizione.
Annotare il diario del giorno,
portarselo addosso, vestirsi delle parole.

Cammino stanco per le strade dissestate,
nella prima calura con i fiori sulle terrazze.
Non c’è un disegno preciso,
nei palazzi di borgata il vuoto e il pieno si alternano.
Panni stesi, parabole, segni di una vita domestica dimessa.
La fretta di andare verso un qualcosa.
I rumori metallici, gommosi, lo stridere dei pneumatici
Sull’asfalto che si polverizza ad ogni passaggio.
Si cerca di evadere, procedendo verso l’interno.
Evasione è uscire al di fuori.
Eppure qui si tende a dirigere i propri passi verso il centro.
Dove il turbinio dei prezzi e dei valori aggiunti stordisce.
Stordisce, aliena, tranquillizza.
Un altro caffè, grazie.
È amaro, come il gesto dell’elemosina.

Stracci gettati a terra, laidi.
Chiedono il luccichio di pochi centesimi.
Cosa rispondere a tanta sofferenza mentre attorno
le gole sono ingurgitano bevande.
Una mano si allunga, l’altra mano si accartoccia.
È stata rilasciata la coscienza con gesto
tra le mani di chi ormai sempre più sporco può ripulire il mondo.
Nuovi messia, agnelli del sacrificio.
Quando pago per bere, per mangiare mi giro.
Guardo a terra e vorrei a volte divenire polvere.
Perché uno sguardo può atterrire il più giusto tra i giusti.

Il sapore del caffè del mattino è già scomparso.
Ho lasciato le aspettative del nuovo giorno
sedute sullo schienale in quella cucina asettica.
I miei sogni sono lucciole,
si accendono e si spengono
e durano una notte.
Il diario del giorno, lo scrivo e lo correggo
continuamente. La mia penna non ha abbastanza sangue
per lavare le colpe dell’indifferenza.
Intanto dai palazzoni-formicaio ognuno stende i panni
lavati della polvere delle strade che si consumano.
Intrise di odori, umori e rabbie scaricate con un calcio.

Osservare il marciapiede significa sentirsi la condanna degli ultimi.
Di una terra che è stata accecata dal bitume e come tale
vede i suoi figli vagare verso il buio, che si veste di luci al neon,
aria condizionata, riflessi d’oro. Dà l’impressione del reale.
Ma è il vestito buono, quello per i funerali.
Perché l’oro fa ricchezza anche se sei alla fine del mese.
La poesia unica consolatrice.
Non v’è altro da dire.
Le immondizie non vanno lontano perché
ritornano come figli abbandonati
che chiedono il perché.
Siamo alla cassa, il conto.

Mi alzo e penso che un pranzo può bastare.
È l’ora del pensare. Non mi voglio togliere quest’ultimo desiderio.
Sono un condannato a morte, sono nato per giungere a questo.
In mezzo la follia di un giorno, vissuto nel tempo di pochi versi.
Che raccontano di fiori di pesco e un bacio tenero.
L’innocenza, almeno una volta l’ho provata.
E sarà il ricordo nella vecchiaia, quello che mi farà commuovere.

Lo sferragliare della metro, appena alzati.
Lo sferragliare ringhioso della metro, al rientro.
È un trapano che perfora i denti, senza anestesia.
Il pianto dell’acciaio, della civiltà che non ha tempo.

I fiori sulle terrazze si dissetano. Bevo un bicchiere d’acqua.
I piedi come radici si allargano cercando più punti
per ancorarsi e non ripartire. Vorrei germogliare come un melo,dai fiori bianchi.
E lasciare che le formiche mi camminino sulla corteccia.
Non avere occhi, ma la sola pelle.
Per sentire il calore del sole. Fiorire in bianco
come una sposa. Fare frutto nell’amore senza richieste.
E dormire la notte.
Senza sognare. Perché non ne ho bisogno.

Le palpebre si chiudono, sono sazio.
Gonfio di aria viziata e di odori che si confondono.
Nel tripudio del contrasto io vivo.
Per poi sognare di essere un melo.

NEMI