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Ugo Fracassa
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LA SINDROME DELL'ORCO
 
Fatta eccezione per la bibliografia redatta con scrupolo filologico e filiale dalla primogenita Idolina e acclusa al secondo volume delle Opere edito da Rizzoli, i testi licenziati da Tommaso Landolfi esplicitamente “per bambini” (così il sottotitolo alla prima edizione del Principe infelice) soffrono citazioni lacunose nei repertori, ormai numerosi, elaborati dalla critica in margine agli studi monografici sull’autore. La favola menzionata, ad esempio, compare spesso postdatata al 1954, forse per un fenomeno di attrazione operato dal secondo esperimento del genere (La raganella d'oro), stampato in quello stesso anno. É quanto accade, per esempio, nel saggio di Giancarlo Pandini edito per “Il Castoro” nel novembre 1975, ovvero nell’Enigma Landolfi di Giovanna Ghetti Abruzzi del 1979; sorte peggiore quella riservatagli nel volumetto Del Noce 1983 che li tace affatto tra le “opere principali” (spiace riferire la curatela di Carlo Bo, già dedicatario de LA BIERE DU PECHEUR)(1). Esiste almeno un’altra prova incontrovertibilmente ‘giovanile’ di mano landolfiana: la breve collana di filastrocche confluita in un volume che raccoglie versi per bambini di vari autori, pubblicato a cura di Giovanni Arpino per “I Gemelli” di Rizzoli nel 1968; certo, l'attribuzione ad autori vari non ha giovato alla paternità del libro, ma è pur vero che, fino alla comparsa dei due tomi della citata opera omnia, la restituzione di quei testi all'autore risultava malcerta. Un anno prima, infine, sotto il titolo generale di Colloqui, Landolfi affidava alcuni dialoghetti al volume collettivo Sei racconti; la veste editoriale essendo la stessa - la collana per ragazzi “I Gemelli” - e comparendo i dialoghi accanto ai racconti di Buzzati, Arpino e Rodari, un effetto di trascinamento ha qualificato l’esperienza di ‘giovanile’. Circa tale definizione, in contrasto pure con quanto afferma la nota ai testi di Idolina Landolfi (“tre racconti per bambini”), avanzeremo riserve più avanti.
Per la verità, la disattenzione verso lo scrittore di Pico, la sua esigua fortuna critica, hanno riguardato per lungo tempo - specialmente tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta - non solo gli sconfinamenti in territorio giovanile ma l’intera sua produzione. Questo dell’autore misconosciuto è diventato luogo comune della saggistica quando, in tempi più recenti, l’industria culturale ha provveduto alla riapertura del ‘caso Landolfi’ e alla sua riscoperta. Da quel momento anche le favole, i racconti e i versi per bambini hanno attirato l’attenzione degli studiosi, meritandosi giudizi superlativi: “una delle più suggestive fiabe che siano state narrate da uno scrittore italiano del nostro tempo” (2) (Il principe infelice), “un’altra [fiaba] bellissima” (La raganella d’oro), “quel capolavoro che è Il principe infelice”. (3) In generale però, trattandosi di “tipico minore” - come Landolfi diceva di sé (4) - l’autore del Principe infelice si trova a patire una doppia minorità. Se il romanziere della Pietra lunare e del Racconto d'autunno è da ritenersi minore rispetto al gotha della narrativa italiana contemporanea - Pavese, Moravia, Calvino - che sarà di quello stesso alle prese con un pubblico di minori? La questione non è nuova e riguarda lo statuto da attribuire alle sortite sporadiche tentate da un narratore nei territori, contigui ma oltre confine, del teatro, della poesia o della letteratura giovanile.
Landolfi, dopo il primo periodo fiorentino che lo consacrò maestro del racconto fantastico, si dava a sperimentare nuove forme: dal ripiegamento memorialistico dei due diari, Rien va e Des mois, prefigurati nel romanzo anomalo LA BIERE DU PECHEUR, all’anacronistico poema drammatico in endecasillabi sciolti Landolfo VI di Benevento, al radiodramma e allo sceneggiato televisivo, fino allo scioglimento lirico finale (Il tradimento precede di due anni la morte). Oltre a ciò Landolfi è stato slavista d’eccezione, traduttore dal russo, tedesco e francese, nonché critico di vaglia: tanto basta a delineare una figura di poligrafo. In questo panorama, i titoli per bambini sono andati incontro ad un annoso insabbiamento ovvero sono stati letti come di sponda rispetto ai testi più noti. Solo oggi essi ci guardano con l'insistenza di chi esige un’attenzione particolare.
La stesura del Principe infelice, compiuta nel luglio del 1938, “non deve aver preso gran tempo” (5) allo scrittore che - nello stesso periodo attendeva alla composizione di Teatrino e Favola, poi raccolti nel Mar delle blatte. Il manoscritto risulta poco variato, anche se l'edizione a stampa differisce da quello in più di un luogo, verosimilmente corretto a livello di dattiloscritto, oggi introvabile (lo scrittore era noto per fornirlo in copia unica). L’edizione princeps è appunto quella del dicembre 1943 per i tipi di Vallecchi, recante sul frontespizio l’indicazione “romanzo per bambini” e illustrato da Sabino Profeti su formato grande; la ristampa del 1954 – “assai meno belle le illustrazioni”(6), non fa testo. (7)
Il carteggio con Enrico Vallecchi - circa duecento lettere, per parte dell’autore, conservate presso l'Archivio Contemporaneo A. Bonsanti - (leggasi: lo spoglio scrupoloso di quelle per mano di Idolina) ci consentono di seguire da vicino le vicende di pubblicazione delle due favole. Ciò che immediatamente colpisce è l’attenzione riservata dall'autore a queste opere, forse maggiore (almeno a giudicare dalla consistenza epistolare) di quella riservata ad altre più note. Fatta la tara all’urgenza economica connessa alla composizione de La raganella d’oro, resta comunque la traccia di una paternità forte su queste opere, oggetto di un notevole investimento emotivo se l'autore vorrà spesso promuoverle presso l'editore con toni, volta a volta, irati, supplichevoli, disperati:

Non vedo né Raganelle né Principi - Son furioso, oltreché colpito al cuore (8).

Non sorprende l'attaccamento dello scrittore a queste operine se si tiene a mente la stima numerica che egli faceva del proprio pubblico (“duegenquaranta lettori”) e, all’opposto, il successo di vendite ottenuto col Principe infelice – “l'unico che ci dette qualche serio guadagno” (9) - presto esaurito. La ristampa verrà a più di un decennio di distanza, dopo aver più di una volta disperato: “Dell’altro, il Principe infelice, infelice davvero, non mi dici nulla ?”(10)
Più recentemente, nel 1985, un paio di iniziative editoriali hanno proposto la favola del ‘43 all’attenzione di un pubblico nuovo, già lanciato verso il boom di un settore in cerca di formule aggiornate a partire proprio dalle esperienze non specialistiche e meno canoniche del passato. Il principe infelice è fatto oggetto, oltre che dell’edizione Giunti - Marzocco, della prefazione di Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo alla raccolta La bottega dello stregone. La favola landolfiana viene scelta in sede critica perché considerata emblematica della funzione svolta nel novecento dagli sconfinamenti di autori ‘colti’ in territorio favolistico (11):

la trama della fiaba di Landolfi […] potrebbe aiutarci a comprendere il significato del racconto fiabesco per uno scrittore come Landolfi e, in generale, per scrittori ‘colti’, che non siano, cioè, specialisti di letteratura infantile e che si siano dedicati perciò alla scrittura di fiabe solo occasionalmente. Il contenuto del Principe infelice, infatti, sembra in qualche modo prefigurare una sorta di teoria della fiaba letteraria: il “bel sogno” destinato a guarire il protagonista dalla sua malinconia può essere assunto a simbolo della fiaba stessa, cui ci si rivolge quando la narrativa ‘colta’ ha esaurito le sue possibilità, è divenuta incapace di arricchire l'esperienza e di liberarla dalla morsa della ripetizione e della depressione(12).

Pur concordando in linea di massima con quanto affermato dai due curatori, impegnati a fornire una chiave di lettura unitaria per l’intera silloge, è facile qui notare come un simile procedimento vada incontro a qualche generalizzazione. Se quanto si dice circa l’utilità degli episodi giovanili in vista di una rivitalizzazione narrativa è condivisibile in molti casi, meno centrata appare l'intuizione proprio nel caso del Principe infelice. È pur vero, infatti, che il ‘43, data di pubblicazione dell’opera, segna il termine di quel primo tempo landolfiano all’insegna di un fantastico ancora incontaminato nonché di una intatta felicità inventivo-narrativa, cui seguirà un riaffacciarsi del realismo e una conseguente crisi narrativa e, tuttavia, occorre retrodatare il Principe infelice a quel “Pico, 28 luglio 1938”, annotato dall’autore compiuta l’opera. Quegli estremi sono proprio tempo e luogo della sua più vera ispirazione. Pico Farnese e il palazzotto avito situano la scrittura landolfiana quasi negandole altra sede(13). Il 1938, poi, è tra le annate migliori di quel quinquennio -1937/42 - durante il quale escono il Dialogo dei massimi sistemi, La pietra lunare, Il Mar delle blatte e La spada, opere che meritano lo statuto - recentemente conferito da Rizzoli - di “classici contemporanei”. Il Principe infelice viene concepito e dato alla luce in quel clima di felicità espressiva, di sorgiva facilità affabulatoria, di visionarietà fantastica che l’autore avrà modo di rimpiangere e mitizzare come personale età dell’oro nella stagione dei versi senili.

O cari mostri della giovinezza
Lunari orrori, ribrezzo
Di solitarie dimore, Palpiti di terrore:
Quanto più vivi e quasi lieti, quasi
Lievito di speranza!
In oggi fin l’angoscia è smorta. (14)

Oh tempi quando almeno la notte era terrore, era voluttuoso fremito d'ignoto! (15)

Nessuna meraviglia, perciò, se ad una lettura critica avvertita l’opera rivela l’impronta del Landolfi più celebrato. La favola si compone di ventiquattro capitoli, corredati di altrettanti titoli, ad isolare gli episodi ed agevolare la fruizione da parte di un pubblico infantile che è ragionevole immaginare intento alle figure e in ascolto di un adulto ‘recitante’, piuttosto che tutto solo alle prese con una prosa, come vedremo, ricca di arcaismi, toscanismi e voci desuete; fondata cioè su quel lessico inusitato che è l’idioletto landolfiano.
In un luogo remoto nello spazio, “molto lontano di qui, verso i confini dell'impero della Luna”, e nel tempo non meno distante e indistinto (un medioevo qualsiasi di principi, castelli e buffoni di corte) viveva un re saggio con il suo unico nato, erede e successore. Un brutto giorno il principe cade in una profonda malinconia - ciò che oggi diremmo depressione - per la quale non si trova rimedio. Gettato il bando (metà del regno attende chi saprà guarirlo), “dai paesi più lontani convennero allora medici e sapienti famosi”, ma invano. Quando tutto sembra perduto, arriva a corte un personaggio misterioso, alto non più di due spanne e barbuto; propone una terapia: “Ciò che occorre al principe è soltanto un bel sogno. Ch’egli lo faccia, e sarà guarito all’istante”. Il difficile ora è mandare il sogno salvifico a visitare la trista notte del nobile giovane; occorre recarsi al Paese dei sogni per perorarne la causa presso l'imperatore. Chi si offre per l'impresa è la giovane Rami dal cuore di cristallo, nipote del Re ardimentosa perché innamorata. Nient’affatto intimorita dal dover valicare le Montagne di Diamante, attraversare la Terra dei Fuochi Folletti, quella degli Orchi, la Brughiera delle Streghe, l’Impero della Luna e da ultimo il Paese degli Animali Parlanti, ella si appresta a partire quando Vanina e Ossala, altre due regali nipoti, più avide ma meno di lei innamorate, si accodano alla spedizione. Dopo aver superato tutte le traversie e già sulla via del ritorno, Rami raggiunge Vanina e Ossala in un luogo convenuto ma quelle - udito l’esito felice della ricerca - le comunicano la ferale e fallace novella della morte dell'amato principe.

Aveva essa appena pronunciata la sua menzogna, che s’udì uno schianto sinistro, come di cristallo frantumato, e Rami cadde esanime ai piedi della grande quercia(16).

Ora tocca al reuccio, ormai orfano e guarito, correre in soccorso all'amata e rinvivirla con un bacio. L’amplesso tuttavia risulta insufficiente a ridestare per intero la sventurata dal letargo, a meno che a quello non si aggiunga - secondo il nuovo parere che al misterioso nanerottolo vale l’altra metà del regno – l’effetto del profumo del Croco di Lotia.

Sarebbe troppo lungo narrare qui quante fatiche dovettero sopportare, e a quali terribili avventure andarono incontro, il Re e i pochi suoi fidi nella ricerca e conquista del Croco di Lotia(17).

Fatto sta che da ultimo i due, ormai nullatenenti, si stabilirono in riva ad un lago e “vissero felici e contenti per lungo volgere di anni, e là se nel frattempo non sono morti, vivono tuttora”. Il personaggio che dà titolo alla favola presenta, dal punto di vista sintomatologico, disturbi (umore nero, astenia, agorafobia) per i quali il lettore di Landolfi ha sviluppato un occhio clinico. Non solo Ottavio di Saint Vincent o Landolfo VI di Benevento, protagonisti delle opere eponime, ma tanti personaggi saturnini, immancabilmente autobiografici, trascorrono dalla malinconia all’accidia, dall’ipocondria all'ignavia. Varrà piuttosto la pena notare che qui, pur comparendo nel titolo, il tipico antieroe landolfiano (sarà lui ad essere soccorso dalla fanciulla e non viceversa) non accede neanche alla nominazione propria. Obnubilato dai fumi di un’atra bile, irresoluto a tutto, il principe pare non meritare distinzione onomastica oltre a quella che gli deriva da un titolo esplicitamente costruito con perizia intertestuale.
Il riferimento è, facilmente, all'opera prima di Oscar Wilde, la raccolta di fiabe del 1888 The Happy Prince and other tales. Landolfi, non nuovo ai rimandi citazionali fino in copertina (a partire dal Dialogo dei massimi sistemi), essendo in lui l’impulso letterario almeno di secondo grado, assicura, a chi ne esamini la scrittura in cerca di simili reperti, un lauto guadagno critico(18). Non a caso, infatti, la fiaba cui il titolo fa eco è opera di uno scrittore cólto, letterario, maggiore, né Landolfi ha voluto guardare, per questo suo esperimento, ai classici della letteratura giovanile dovuti a scrittori esclusivamente dediti all’infanzia. Il riferimento a Wilde, pertanto, suona come legittimazione preventiva per una sortita nel genere della favola; sta a significare che l'adozione di temi e strutture di genere non impedisce il transito della sostanza poetica, al contrario, come vedremo, al rispetto delle convenzioni anche retoriche corrisponde per l'autore un ampio margine di intervento artistico individuale.
Passando al personaggio femminile, Rami, nipote del Re e forse consanguinea del principe - secondo una tradizione endogamica alla quale “l’ultimo forse rappresentante genuino della gloriosa nobiltà meridionale” (19) doveva essere avvezzo - contende la scena al personaggio maschile relegandolo per la gran parte dei capitoli al ruolo di deuteragonista. Le figure femminili nella narrativa landolfiana hanno sempre avuto rilevanza assoluta; dei tanti esempi che si potrebbero addurre si pensi solo alla donna capra Gurù de La pietra lunare, a Le due zittelle oppure a La muta soggetto di un racconto tra i perfetti dello scrittore picano. Il nome di Rami evoca l’oriente e insieme alla particolarità cardiaca ricordata (un cuore di cristallo) contribuisce a renderne misteriosa origine e collocazione. Determinata a salvare l'amato che langue, secondo quanto cantilena ad ogni nuovo incontro, Rami è vittima della sua stessa modestia e ingenuità (si noti che, pur essendo bellissima, pochi a palazzo ne hanno memoria, tanto pare umile) quando Ossala e Vanina tramano la sua eliminazione e ne inducono la morte apparente. Già nel capitolo XI la nobile fanciulla era incorsa nel maleficio dell’immobilità, perciò, si deduce trattarsi di indole facile alla catalessi. L’immobilità nella donna , come per Kafka il mutismo, è attributo della perfezione in Landolfi. Queste figure, spesso ritratte nella fissità(20), conducono immancabilmente ad una traccia mnestica celebre di cui è notizia in Prefigurazioni: Prato(21).

io ero un bambino che a un anno e mezzo avevano portato davanti a sua madre morta, colla vana speranza che i lineamenti di lei gli rimanessero impressi nella memoria; e che aveva detto: lasciamola stare, dorme.

Occorre prendere coraggio e rileggere il letargo di cui al capitolo XXII alla luce di questo riferimento interno, come rigor mortis.

Ora avvenne un giorno, che cavalcando così, solo e senza meta, il re capitasse sul limitare di quella tale foresta, presso quella tale quercia ai cui piedi la giovinetta Rami era caduta esanime tanti mesi prima. Oh, meraviglia ! Le fiere avevano rispettato il suo fragile corpo, ed ella non pareva morta, ma soltanto addormentata placidamente fra l’erba(22).

Nessun altro esempio più di questo può dirci quanto cogente e magmatica possa essere la sostanza poetica sottesa da un autore anche ad opere a destinazione giovanile, qualora lo stesso vi si accosti ‘ispirato’ e scevro da pregiudizi, senza cioè ricorrere preliminarmente ad un'autoriduzione letteraria, frustrante per lettori di qualsiasi età.

Qui sorse a parlare, dal seggio foderato di damasco dove era seduta, una delle nipoti del Re, principessa di sangue reale e fanciulla di straordinaria bellezza […] Quella aveva i capelli castani, con riflessi verdognoli(23)

La descrizione, pur breve e solo accennata, del tipo fisico riporta inesorabilmente Rami all'immagine muliebre ricorrente nella narrativa di Landolfi, con l’effetto, innanzitutto, di proiettare su di lei il potere conturbante e le dinamiche del desiderio connesse. Ecco come viene ritratta la men che adolescente Rosalba nella Morte del Re di Francia:

il ventre ampio e cavo, ombreggiato di bruno e viola con sfumi di biondo verso l’alto, come della vegetazione nascente (24)

La tonalità cromatica tendente al verde, che tornerà in molte altre descrizioni di giovinetta, rimanda al frutto acerbo, in ossequio ai canoni di un lolitismo molto vivo nell’immaginario erotico landolfiano, e da quello alla rimozione della fecondità come attributo femminile, secondo la doppia opzione della verginità e/o sterilità. È il caso di Lucrezia, “la vergine lattante” che compare nell’allucinato Mar delle blatte:

E infine Lucrezia. Giunse sospinta brutalmente da due uomini in tricorno assai muscolosi. Era seminuda, con un seno fuori, dalla cui punta a ogni strattone degli uomini gorgogliava un fiotto di latte (25)

Una stessa invenzione apparenta Rami a Lucrezia, due fanciulle peraltro così distanti. Si tratta di un’immagine il cui potere perturbante nasce dall’accostamento del non umano (un rettile, un aracnide) al simbolo stesso della maternità: il seno.

Dalla cesta si levarono due serpi sonnolenti, strisciarono fuori sul pavimento vicino ai piedi dell’avvocato immobile, girarono lentamente il capo a destra e a sinistra quasi a orientarsi, poi si diressero con sicurezza verso la fanciulla. Ciascuno si impadronì di un capezzolo e rimasero così a succhiare il latte(26)
ella non pareva morta, ma soltanto addormentata placidamente fra l’erba. Dalla punta del cappuccio al seno un industre ragno aveva tessuto la sua tela, che scintillava al sole. (27)

Si noti come, pure nel secondo caso, sebbene attenuato e quasi in litote (“seno”), l'invenzione visiva rimandi al capezzolo in quanto terminazione sensibile, infatti, per quella tela tessuta dalla punta del cappuccio, occorre immaginare all'altro capo un appiglio non meno svettante. Tale audace immagine pare evocare, per tornare a Wilde, il liberty trasgressivo di Aubrey Beardsley e allude ad un livello di lettura ulteriore.
I testi per l'infanzia di Tommaso Landolfi sono costruiti in modo da contenere una sorta di doppio fondo che consente all'adulto di cogliere citazioni, ammiccamenti, disincanti ed ironie precluse al bambino. Eccone una rapida rassegna: “quella fanciulla [Rami] aveva il cuore di vetro, mentre le altre due lo avevano di carne, come la maggior parte della gente”; dove, per l’autore del Dialogo dei massimi sistemi e il suo lettore ideale, l’understatement riguarda la consistenza lapidea di molti miocardi. Ancora; giunta nel Paese dei sogni e sorpresa da quanto vede, Rami domanda: “Anche i cavalli sono sogni?” La risposta che segue non ferisce le orecchie implumi della fanciulla solo perché omnia munda mundi: “anzi i cavalli popolano spesso i sogni degli uomini, e specie delle donne”.
È poi facile immaginare il cinismo landolfiano dietro questo scambio di cortesie tra principe e nanerottolo:

Dirò da ultimo che sono dolente di togliervi l’altra metà del vostro regno (“oh, prego!” fece il re senza pensarci), ma a ciascuno il suo: a me le cure d’un vasto regno, a voi e alla vostra sposa la felicità. (28)

L’ironia su gnomi, orchi e fate tradisce la competenza di genere dello scrittore, fresco di traduzione dalle fiabe dei fratelli Grimm: gli gnomi “escono spesso dai loro covi verso mezzogiorno per aggiustare le loro scarpette (non so perché hanno sempre tante scarpe da aggiustare)”(29); “spesso le fate buone si recavano fra le streghe per riparare al male che queste facevano”(30); gli Orchi “non sono tanto cattivi quanto si dice”(31). Infine, un vero e proprio attestato di riconoscenza alla letteratura per ragazzi nella persona di Jules Verne si avrà con uno scritto critico raccolto nel 1971 in Gogol’ a Roma (sul quale occorrerà tornare). Un paio di velati riferimenti a testi di ben altro peso sono nascosti nel capitolo iniziale. Nel favoloso medioevo di ambientazione, l’eco deformata delle idee espresse nell’ Émile di Jean Jacques Rousseau sfuma in reminiscenze campanelliane:

Il piccino venne fin dalla più tenera età affidato alla cura di un’abile precettore, uomo fra i più sapienti del reame, il quale pose a profitto dell’illustre pupillo non solo tutta la sua sterminata dottrina, ma anche tutte le sue arti e la sua esperienza. Fino all'età di quindici anni circa egli lo intrattenne dei grandi spettacoli della natura, lasciò che i suoi occhi si empissero di sole e le sue orecchie di suoni, che il suo cuore battesse all’unisono col grande cuore delle cose; ma compiuta che ebbe il principe quell’età, chiese ed ottenne dal re di rinchiuderlo in un vasto castello, sontuoso a vero dire, ma dove il ragazzo era tenuto come prigioniero.(32)

Fin qui l’ Émile

Sulle pareti poi di questo castello, in parole in segni in immagini, era iscritto tutto lo scibile umano, le parole dei saggi e quelle di poeti.(33)

In queste righe il ricordo della pedagogia impartita nella Città de Sole:

tiene [il Sapienza] un libro solo, dove stan tutte le scienze, che fa leggere a tutto il popolo ad usanza dei pitagorici. E questo ha fatto pingere in tutte le muraglie, su li rivellini, dentro e di fuori, tutte le scienze […] e li figliuoli, senza fastidio, giocando si trovano saper tutte le scienze istoricamente prima che abbin dieci anni. (34)

Non è poi una caso se, mettendo mano al suo primo libro per ragazzi, Landolfi sceglie di aprire con due riferimenti - nel titolo e nel capitolo primo - che orientano verso una prevalenza del letterario sul didascalico. Infine, quanta amara consapevolezza nel seguente inciso: “la sapienza è, o almeno dovrebbe essere fonte di gioia”, dove il condizionale introduce un pessimismo le cui più lontane tracce condurranno il lettore adulto fino all’Ecclesiaste.
La funzione metaletteraria, sempre attiva in Landolfi, non smette di operare in occasione degli sconfinamenti ‘giovanili’ e, analogamente a quanto accade col lettore adulto, configura un destinatario capace di riconoscere i sedimenti letterari. L’autore del Principe infelice postula un lettore (bambino) modello capace di ravvisare, nel brano seguente, la scena madre della Bella addormentata:

Poi si chinò per deporre il primo e l’ultimo bacio sulla fronte della giovinetta, prima di darle degna sepoltura. Ma sotto le sue labbra gli parve d’un subito sentire ancora un vago calore sulla fredda fronte: “Sarebbe mai possibile? Vive ella ancora? No, certo le mie labbra erano troppo ardenti, e non è che un’illusione!” Egli appoggiò tuttavia l’orecchio sul cuore della giovinetta. Non era un'illusione: un palpito sordo e remoto, quasi venisse dalle profondità della terra su cui il tenero corpo posava, agitava, seppur debolmente, quel cuore: la fanciulla viveva! (35)

La stesura della prima favola landolfiana risente in particolare dell’influenza di Novalis e dei fratelli Grimm. Del primo e della sua metafisica della fiaba Landolfi è debitore per la trovata del sogno risanatore idea romantica quant’altre mai. Del resto, per dirla con Macrì, “la filiazione romantica di Landolfi è certa: meglio postromantica”(36), per la precisione il polo di attrazione è da collocare tra Novalis e Hoffmansthal, dove “la linea postromantica si salda con la simbolista”.(37) Dai fratelli Grimm deriva al Principe infelice un’atmosfera languida, lunare, a tratti mesta che è poi la tonalità dominante del racconto se si eccettuano il primo e l’ultimo capitolo. La traduzione dell’Enrico di Ofterdingen novalisiano e di sette fiabe raccolte dai Grimm (Fiordirovo, I talleri di stelle, Giandiferro, Cappuccetto rosso, La ragazza senza mani, Pidocchietto e Pulcetta, La luna) precedono di qualche mese la pubblicazione del Principe infelice e comunicano a Rami e al suo sposo tutto il languore di un romanticismo estenuato.
Del resto, il valore di un’opera come il Principe infelice non va cercato nei rari e comunque forzosi tentativi moraleggianti; si vedano i seguenti giocati sull’edificante binomio amore / cuore:

basta dire che non possedevano l’amore [Vanina e Ossala] senza di cui non si porta a compimento un’impresa di quel genere(38)

Non dovete però disperarvi, né disperar di ridar un giorno alla vostra sposa il cuore di prima. Con molto amore senza dubbio vi riuscirete: quale incrinatura non si rinsalda e quale cuore non si risana se si è in due?(39)

ma piuttosto nel doppio livello di lettura che l’autore governa con mano sapiente, facendo in modo che la complicità col lettore adulto non danneggi la centralità del destinatario ‘minore’.
Da questo punto di vista, un’analisi del lessico può servire da esemplificazione. Ai regionalismi (costì, leticare) che rimandano al periodo fiorentino nonché ad un gusto cruschevole caratteristico dell’intera produzione, si aggiungono arcaismi (ratta, affigurarla), voci desuete (il come causale, epperò in luogo di perciò, il plurale farmachi) e un lessico settoriale (aristocratico) capace di distinguere le gerarchie della servitù (guatteri, famigli). Un simile impasto linguistico, non solo non impedisce la fruizione infantile, ma giova alla connotazione favolosa del racconto e aggiunge alla suggestione narrativa quella fonetica, derivante dallo scollamento significante - significato, presto ricomposto dall'adulto che gestisce o supporta la lettura. Quanto più ricco, infatti, l’elenco delle gioie di Vanina ad un orecchio per il quale “bùccole” e “perle schiccate” risuonino per la prima volta?
Quelle linguistiche non sono poi le uniche libertà che lo scrittore si prende in occasione del suo esordio di favolatore. Tanto più che il dover corrispondere ad uno schema consolidato di narrazione, lungi dal frustrarne l’autonomia creativa, fornisce allo scrittore un solido impianto sul quale esercitare la propria inventiva letteraria. L’annotazione del 4/4/1959 in Rien va recita:

rifantastico di preziosi amici capaci di fornirmi quel minimo pretesto narrativo, quell’intriguccio intorno al quale dovrei fabbricare la mia perla

questo tipo di fantasia si produce in Landolfi, letteralmente, “per mancanza di favola”(40) sicché è facile intuirne l'agio mentre fabbrica, al riparo del guscio fiabesco, quella perla di ironia e disincanto che è il Principe infelice.
La dinamica libertà-convenzione, che ogni autore cólto conosce misurandosi con i numerevoli actantes o personaggi (siano essi sei o sette) e funzioni (siano esse venti o trentadue, a seconda che si guardi al modello di Greimas o di Propp), può riuscire infatti gradita a chi - come molti dei narratori contemporanei - ricerchi un grado zero dell’invenzione dal quale ripartire.

La favola è piena di leggi, di limiti e di costrizioni e - nella tradizione più pura - non permette tanta libertà; eppure io nella fiaba ho più libertà che nel romanzo

La dichiarazione rilasciata in occasione di un’intervista RAI dell’82 da Moravia, chiarisce i termini letterari della questione. La stessa “libertà negativa” si carica in Landolfi di più profonde motivazioni esistenziali.

La sera che in carcere, levando quasi materialmente le braccia alla due volte inferriata finestra, esclamai: Dio, ti ringrazio per la libertà che m’hai dato, non intendevo affatto quello che si può pensare, ma anzi il contrario. Io non intendevo ringraziare Dio del fatto che, sebbene fosse in ceppi il mio corpo, l’anima si serbasse libera e franca, e che quei ceppi non valessero a mortificare la mia umana dignità, eccetera eccetera. No, io semplicemente lo ringraziavo per ciò che ero in ceppi, per avermi tolto, come sopra, ogni pensiero e ogni possibilità d’azione e decisione, donde una gran calma era sgorgata.(41)

L’ossequio al genere non si esaurisce nell'attribuzione ai personaggi delle funzioni canoniche (vedi il nanerottolo aiutante) né con l'assunzione del lieto fine, in parte mitigato dal landolfiano umor nero, o con la vaga ambientazione medievale, ma si estende alle formule retoriche. Se l’incipit “C’era una volta” è rimandato solo di qualche anno - aprirà infatti la Raganella d'oro - non manca l’explicit “vissero felici e contenti”; è sorprendente che un autore come Landolfi, noto per aver messo in crisi e destrutturato la forma della narrativa tradizionale contaminando racconto e teatro, romanzo e saggio, accetti di buon grado di ricorrere ai più vieti espedienti, ormai fossili della tradizione orale: l’iterazione (“cammina, cammina, cammina”, “ma lontano, lontano, lontanissimo”), il richiamo fàtico al pubblico degli ascoltatori (“Immaginatevi il re e la regina!”), lo stereotipo (“scorse un lumicino”). Tutto ciò lascia credere che l’autore trovi compensazione a tanta supina acquiescenza in un livello meno esplicito del testo, a quel secondo livello che - come detto - permette ai “duegenquaranta” lettori fidati di riconoscerne la voce e di decodificare i messaggi “criptati”. Così lo sberleffo del falso rinvenimento di Rami al bacio del reuccio rimanda alla ‘poetica dell’insufficienza’ spesso dichiarata; così il finale caustico – “là dunque vissero felici e contenti per lungo volgere d’anni, e là, se nel frattempo non sono morti, vivono certo tuttora” - svela l’umor nero dell'autore e riscrive a ritroso l’intera favola, che può sopportare catalessi e risurrezioni ma non il nudo dato della morte naturale.
Per concludere, non si tacerà l’impressione che l’instabile equilibrio tra convenzione e libertà, sapientemente raggiunto e mantenuto fin quasi alla metà del libro, si fa precario col procedere dei capitoli. (42) È come se Landolfi perdesse progressivamente interesse alle regole del gioco, tendenza che si estenderà alla composizione della Raganella d'oro e non gli permetterà di bissare il successo (artistico) della favola d'esordio.

15/5/47
ti spedisco col medesimo corriere il libretto per bambini che non mi par malvagio, a parte il difetto che ti accennai a voce. Volevi circa 30 cartelle: eccone 26 fitte. Il titolo ti verrà trasmesso in seguito (che ne diresti di: La raganella d'oro ? A me sembra un po’ troppo squacquerato). Rammenta bene e avverti che il dattiloscritto è, al solito, in COPIA UNICA. E ora a te: guarda di pubblicare il più presto possibile, al massimo per settembre od ottobre (43).

NOTE
1) “A Carlo Bo restino dunque dedicate queste pagine, nelle quali forse soltanto lui capirà qualcosa. E sarà ventura; poiché tra i non intendenti si vuol porre me stesso”, Tommaso Landolfi, LA BIERE DU PECHEUR, in Opere, vol. I, Milano, Rizzoli, 1991, p.571
2) Enrico Ghidetti, Leonardo Lattarulo, La bottega dello stregone, Roma, Editori Riuniti, 1985, pag. VII
3) Pino Boero, Carmine De Luca, La letteratura per l’infanzia, Bari, Laterza, 1995, pag. VIII
4) Tommaso Landolfi, Rien va, Milano, Rizzoli, 1984, p.163
5) Da: Idolina Landolfi, Nota ai testi, in Tommaso Landolfi, Opere, cit., vol. I. p. 1004
6) Idolina Landolfi, Nota ai testi – Il principe infelice, in Tommaso Landolfi, Opere 1937- 1959, Milano, Rizzoli, 1991,vol. I, pag. 1003
7) “La ristampa del ‘54 non è comunque in alcun modo seguita da Landolfi, che il 6 dicembre, da Pico, si limita ad accusare ricevuta dei volumi. Essa è infatti in sé piuttosto sciatta, con numerosi refusi ed alcuni omissioni di intere frasi. I capoversi sono distribuiti arbitrariamente, col chiaro scopo di aumentare il numero delle pagine; inoltre scompare l’indicazione dei capitoli”. Ibid.
8) Ibid.
9) Dalla lettera di Tommaso Landolfi ad Enrico Vallecchi, datata 3 luglio 1950 pubblicata dalla figlia Idolina nello studio: Tommaso Landolfi e i suoi editori: un caso emblematico, in Fonti e studi di storia dell’editoria, Bologna, Baiesi, 1995, pag.199 Le due favole gli valsero allo scrittore di Pico il Premio Marzotto 1955
10) Landolfi a Vallecchi il 16 ottobre 1953. Idolina Landolfi, Nota ai testi, in Tommaso Landolfi, Opere 1937- 1959, cit. pag. 1003
11) Nell’antologia però compare La raganella d’oro, forse per non replicare la pubblicazione di Giunti.
12) Enrico Ghidetti, Leonardo Lattarulo, Prefazione, in AA.VV. La bottega dello stregone, Roma, Editori Riuniti, 1985, p.VIII
13) “la penna che laggiù [Pico] correva, qui [SANREMO] s’impunta e per avviarla ‘ci vuol la mano di Dio’ ”, Tommaso Landolfi, Rien va, cit., p.117.
14) Tommaso Landolfi, Il Tradimento, Milano, Rizzoli, 1977, p.89
15) Tommaso Landolfi, Rien va, cit., p.164
16) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere1937-1959, cit. pag. 384
17) Ivi, pag. 388
18) “gli interpreti devono lavorare intertestualmente in proprio. Ma questo lavoro è indispensabile, se si vuole finalmente comprendere che, a scrivere le opere di Landolfi […] non era impegnato soltanto Tommasino”, Edoardo Sanguineti, Le rivelazioni di Onisammot Iflodnal, in “Gradiva”, IV (1989), 3
19) Tommaso Landolfi, LA BIERE DU PECHEUR, in Opere, cit., vol. I, p. 667.
20) Ecco come viene immortalata l’adolescente di Settimana di sole: “ Se capita su una soglia, la luce di fuori trapassa la sua vestina leggera e la fa apparire quasi nuda, allungandole smisuratamente le gambe e scavandone l’incavalcatura senza pietà”, in Opere 1937-1959, cit. pag. 89
21) Ivi, pag. 743
22) Ivi, pag. 385
23) Ivi, pag. 363
24) Tommaso Landolfi, La morte del Re di Francia, in Opere 1937-1959,, cit. pag. 23
25) Tommaso Landolfi, Il Mar delle blatte, in Opere, cit., vol. I, pag.207
26) Ivi, pag. 209
27) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit., vol. I, p.385
28) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit. pag. 387
29) Ivi, pag. 367
30) Ivi, pag.371
31) Ivi, pag. 372
32) Ivi, pag.359
33) Ibid.
34) Tommaso Campanella, La città del Sole, Milano, Feltrinelli, 1962, pagg. 6-8
35) Ivi, pag. 386
36) Oreste. Macrì, Tommaso Landolfi. Firenze, Le lettere, 1990, pag.121
37) Ibid.
38) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit. pag.383
39) Ivi, pag.387
40) Ancora in Rien va all’8/6/58: “Ma l’intrigo è sempre stato la mia difficoltà insormontabile, e ho sempre invidiato Gogol’ che (incerto moralmente quanto me) fu soccorso da Puškin, si dice: datemi un intrigo e vi solleverò il mondo, e mi basta una storia qualunque giacché poi non è la storia che conta, benché necessaria”
41) Il riferimento è al mese di detenzione politica alle Murate di Firenze (23 giugno - 26 luglio 1943) Il brano è tratto da LA BIERE DU PECHEUR, cit., p. 638.
42) Si veda il personaggio dell'Imperatore del Paese dei Sogni, nel dettato del quale si affaccia il tipico falsetto landolfiano, ad esempio, nel ricorrente stilema degli eccetera: “Ma ora son tutto a te, e io solo godrò l’onore della tua preziosa compagnia , eccetera eccetera”; oppure: “ma proverò lo stesso ad aiutarti, per i tuoi begli occhi”. D’altra parte, è proprio nell'episodio del Paese dei Sogni che si affaccia il tema del gioco d’azzardo, caro all’autore e per legge proibito ai minori, quando l’Imperatore tenta di organizzare un sogno di vincita: “No, e poi no! Vi dico che così non va bene. Riproviamo. Io dunque, facciamo conto, sono il giocatore che sogna; ora, voi dovete farmi vincere, avete capito, si o no? Avanti, riproviamo”. I capitoli XV - XIX sono interamente all'insegna del Landolfi ‘maggiore’, a partire dal sogno del Principe infelice, giocato su un déreglement cromatico allucinatorio, alla trovata finale del sole caduto e ruzzolato “come una forma di cacio”, che ricorda da vicino la luna catturata nel Racconto del Lupo mannaro. Infine, tra gli esemplari più riusciti dell’imagerie landolfiana occorrerà, d’ora in poi, annoverare la descrizione fisica degli incubi: “Ma senza dubbio le creature più bizzarre di quello strano mondo, buffe e orribili al tempo stesso, erano certi esseri a forma di palloni più o meno afflosciati, che però conservavano vagamente forma umana. Enormi erano questi esseri e grigi, avevano occhi spaventosamente tristi che non si potevano guardare senza terrore e senza lagrime; la loro testa si perdeva fra i tetti delle case, e quasi non toccavano il suolo camminando, anzi sembravano oscillare portati lentamente alla deriva dal vento.”
43) Brano riportato in, Idolina Landolfi, Tommaso Landolfi e i suoi editori: un caso emblematico, in Fonti e studi di storia dell’editoria, Bologna, Baiesi, 1995, pag.192