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Mario Amato
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IL RITORNO DI ZAIN
 
Zain stava sulla vetta più alta del mondo. Stava su quella sommità per l’ultima volta, poiché l’ora del ritorno era giunta; doveva tornare al di là del mondo, al di là del cielo, oltre il tempo. Da quel luogo inaccessibile ad ogni essere che calca la terra, Zain poteva vedere le albe e i tramonti, la luce e la tenebra, il giorno e la notte ed ora infine sapeva di essere stato un sogno, di essere stato un segno.
I sogni non hanno tempo, i segni restano fino alla dissoluzione.
Era penetrato in ogni alito della vita, aveva assunto mille e mille aspetti, fino a quando non era diventato parte del mondo, di questo mondo al di qua dei cieli, fino a quando non aveva compreso di essere egli stesso, Zain l’angelo esiliato, l’ultima nota, fino a quando non aveva compreso di essere un respiro di lode, come ogni essere di questa terra.
Guardava i giorni e le notti, l’alternarsi delle stagioni, comprendeva che egli era un essere senza tempo e che il tempo della chiamata era sopraggiunto.
Le stelle, il cielo, l’erba, gli animali lo salutavano con indifferenza.
Era destinato a dimenticare le vite vissute, ma per l’ultima volta voleva tenersi avvinto ad ogni esile pulsare dell’esistenza, essere parte del mondo dell’imperfezione, della memoria.
In principio, in quella prima alba in cui era giunto sulla terra, egli non era ancora in grado di intendere pienamente il suo compito; aveva spiegato le lievi ali e aveva percorso ogni luogo sussurrando agli esseri umani, rivelando loro segreti sui cieli. In seguito aveva rinunciato alle ali ed aveva camminato come fanno tutti gli uomini, e a loro aveva parlato, ma costoro non lo capivano ed allorché si rivelava per quello che era, movendo leggermente le invisibili ali, altro non faceva che spostare un po’ d’aria.
Guardava il mondo ed udiva la musica segreta di ogni creatura, udiva la sinfonia del tutto e l’anima traboccava di una gioia infinita.
Aveva attraversato il tempo, quel tempo che non gli spettava, aveva conosciuto esseri umani che erano ormai polvere dispersa. Di tutto serbava il ricordo.
Allorché aveva indossato i paludamenti umani, scacciato dai cieli, si era ornato anche del terribile dono della memoria. Nella sua patria non c’era né presente, né passato, né futuro, non c’era ricordo o speranza.
Una piccola dose di tristezza si insinuava nella gioia di Zain: egli ricordava ed indugiava, le sue ali non s’aprivano.
I volti degli uomini conosciuti si paravano innanzi ai suoi occhi, percepiva le loro voci. Doveva lasciare il calore del sole, il freddo degli inverni, il profumo dei fiori, il crepitare dei camini, il pianto dei neonati, i lamenti degli infermi, l’amore delle fanciulle, la stanchezza dei vecchi, le feste, il vino, i buoni cibi, il pianto delle partorienti, l’allegro chiasso dei fanciulli in gioco, le guerre che creano morti ed eroi, i ciarlatani, i vagabondi, le stelle lontane. Le stelle lontane! Levò lo sguardo agli astri; egli era diretto al di là di essi? Avrebbe ancora visto il cielo ingemmato? Si sarebbe mai più commosso dinanzi ad un’alba o ad un tramonto? Avrebbe ancora sentito la pioggia sulla pelle, avrebbe ascoltato il sibilo del vento freddo del nord ed il silenzio del deserto?
Zain, l’angelo venuto alla ricerca della settima nota, non aveva memoria della sua primigenia dimora; al contrario le sue vite terrene erano per sempre impresse nella sua anima. Sì, egli aveva avuto spesso nostalgia del mondo senza tempo e senza spazio; in quei momenti di struggimento aveva frequentato biblioteche e sfogliato libri di astronomi e teologi, era salito sulle guglie di tutte le cattedrali del mondo ed aveva per giorni guardato le statue dei suoi fratelli con le ali. Non aveva mai dimenticato il suo campito; sulle cime dei monti, sulle cupole dei templi aveva teso era stato attento ad un suono proveniente da oltre le nubi, ma quel canto giungeva a lui flebile e sommesso. Egli non avrebbe potuto descrivere il suo mondo originario, sapeva soltanto che un giorno sarebbe tornato.
Aveva alfine trovato la settima nota ed era pronto al ritorno, era predisposto a completare il canto dei canti, ma non v’era gioia in lui. E che cosa era la gioia e la tristezza? L’allegrezza e la disperazione? Egli non conosceva i sentimenti umani, se non per averli visti; aveva ascoltato gli ultimi respiri dei morenti, il chiasso delle taverne odorose d’assenzio, le promesse di amore eterno degli amanti, i deliri preveggenti degli ubriachi, le afflizioni degli esseri umani soli…e tutto ciò che rende umano, ma dai suoi occhi mai era sgorgata una lacrima, dalla sua bocca mai era scaturito un singhiozzo, la sua bocca non si era mai illuminata al sorriso. Egli ascoltava soltanto per trattenere tutto nel suo animo e assolvere la missione per la quale era sceso.
Quante esistenze aveva vissuto? Le ere trascorrevano tutte uguali: la vita degli uomini non mutava fra guerre e paci, paci e guerre, dolori e amori, passioni e accidie, ricchezze e povertà, eppure questi esseri restavano avvinti alla terra.
Perché gli uomini si affannavano sempre e sempre nello stesso modo, perché amavano la monotona banalità della vita? Ogni esistenza si compiva sempre ripetendo le stesse azioni, vivendo sempre gli stessi sentimenti.
Ed ecco per la seconda volta desiderò! Era anche questa vaghezza una volontà d’amore, ma ben diversa dalla prima volta. Egli desiderava per sé stesso, e questo era già umano. Desiderò rivedere il volto di una fanciulla incontrata molte vite prima, ascoltare la voce di una madre che narrava fiabe al suo pargolo, vedere le luci riflesse nell’acqua, inebriarsi del profumo di un fiore, accarezzare il viso rugoso di un vecchio stanco, desiderò mille altre sensazioni che gli uomini provano.
Il canto si fece più forte, si avvicinava sempre più e pervadeva la sua anima, la bocca si atteggiava già ad intonare la settima nota, ma altri suoni echeggiavano nei recessi dell’anima di Zain: il chiasso delle stazioni, i canti gioiosi nelle feste, il crepitare del fuoco in un camino…ed altri e altri e altri…; egli tacque, non si unì al coro.
Egli aveva fino ad allora avuto reminiscenza di ogni attimo, ogni volto, ogni profumo, ogni colore, ogni voce, ogni immagine, ogni cosa toccata, ma nessuno avrebbe mai ricordato Zain; l’angelo esiliato non avrebbe lasciato nessun segno del suo cammino.
Una lacrima solcò il suo viso e cadde sulla fredda umida terra.
Per sempre caddero le sue ali. “Per sempre” non poteva più dirlo: aveva scelto, era nato una seconda volta.
Ora non ricordava le vite vissute, non conosceva la ragione della sua presenza su questa terra.
La settima nota è in qualche angolo del mondo, forse è il suono della goccia di pianto caduta dall’anima dell’angelo bandito…