fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Giuseppe Panella
 
IL FANTASMA DELLA POLITICA - 1
il Settecento e lo sviluppo della teoria del gusto

Parte Prima
 
"Pregiudizio dei dotti. E' un retto giudizio dei dotti
che in tutti i tempi gli uomini abbiano creduto di
sapere che cosa è buono e cattivo, degno di lode e di
biasimo. Ma è un pregiudizio dei dotti che noi or si
sappia questo meglio
di qualsiasi altro tempo".
(Friedrich Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali)

La questione del gusto e la soggettività
Nel 1966, rispondendo polemicamente e vigorosamente alle accuse di incomprensibilità e di astrattezza sollevate nei suoi confronti dai rappresentanti della "vecchia" critica, Roland Barthes risollevava e risolveva (a suo modo, ovviamente) la questione del gusto come procedimento di lettura criticadella soggettività artistica in divenire:
"Come indicare un insieme di divieti che partecipano indifferentemente della morale e dell'estetica e con cui la critica classica attacca tutti i valori che non pur riportare alla scienza? Chiamiamo "gusto" questo sistema di proibizioni. Che cosa vieta il gusto? di parlare degli oggetti. Trasportato in un discorso razionale, l'oggetto è considerato triviale [...] ciò che il verosimile chiama "concreto" è soltanto, ancora una volta, l'abituale. È l'abituale che regola il gusto del verosimile; per esso la critica non deve essere fatta né di oggetti (sono troppo prosaici),né di idee (sono troppo astratte), ma solo di valori. Qui è molto utile il gusto: al servizio insieme della morale e dell'estetica, il gusto permette una comoda transizione tra il Bello e il Bene, confusi discretamente sotto la specie di una semplice misura. Tuttavia questa misura ha il potere indefinito di un miraggio [...] Il gusto è in realtà un divieto di parola"
(Roland Barthes, Critica e verità, trad. it. di C. Lusignoli e A. Bonomi. Torino, Einaudi,1985, pp.24-25)

La requisitoria di Barthes aveva per oggetto una definizione del gusto come pratica discorsiva che imponeva, di per sé, come tale il proprio intendimento soggettivo e indefinito al posto di un'indagine attenta e precisa dei meccanismi che costituiscono l'oggettività della scrittura, la sua intelaiatura retorica, il suo misurarsi strutturale con la realtà del linguaggio.
Voleva essere, di conseguenza, una rivendicazione del primato oggettivo della critica e della scienza a-valutativa delle costruzioni estetiche e, soprattutto, la costituzione di un orizzonte di concretezza nei confronti delle dissolvenze di senso create dal libero dispiegarsi della soggettività di critici che ambissero a porsi arbitrariamente di fronte al testo (letterario) e al suo tempo (estetico). Si trattava, in sostanza, di ribadire l'istanza di scientificità all'interno dei procedimenti di giudizio e di ricostruzione delle opere d'arte (anche se non va dimenticato come Barthes consideri il proprio orizzonte legato e limitato dalla natura di testo di cir che esamina ­ e ogni testo, è noto, definisce, a sua volta, una scrittura come proprio ambito di riferimento e non c'è nulla di più soggettivo della pratica della propria scrittura).
Ma la questione del gusto è oggi ben lungi dall'essere risolta con la definizione liquidatoria che ne dava Barthes negli anni Sessanta. Se si leggono con attenzione le pagine centrali del libretto di Valeriano Bozal dedicato proprio alla storia e alla ricostruzione di questo concetto centrale nella storia dell'estetica non si pur non convenire che la questione, ben lontana dall'essere stata archiviata, è ancor aperta e determinante, non foss'altro che sotto il profilo della storia delle idee e della cultura estetica.
Scrive, per l'appunto, Bozal:
"Desidero per richiamare l'attenzione su un fatto che, per quanto riguarda il gusto e l'estetica sembra determinante: nel XVIII secolo esso si precisa come argomento di riflessione con una forza e un'intensità che fino ad allora non aveva mai avuto. Non si tratta di un fenomeno casuale o fortuito: esso coincide con quello che alcuni autori hanno chiamato progetto "illuminato" e altri "progetto della modernità", ed è, a mio avviso, consustanziale a quel progetto. Non solo l'attenzione si concentra sul gusto, il che sarebbe già abbastanza, ma se ne studiano i fondamenti e se ne afferma l'autonomia rispetto a tutti i criteri che gli sono estranei"
(Valeriano Bozal, Il gusto, trad. it. di O. Bin, Bologna, Il Mulino, 1996, p.9)

Il punto fondamentale, qui, a mio avviso, è rappresentato dal problema dell'autonomia del gusto come progettualità e come momento ­ filosoficamente definito ­ della costruzione di una 'nuova' soggettività. Il "progetto illuminato" o il "progetto della modernità" hanno senso, come categorie, soltanto in questo contesto. Senza nuovo Soggetto, nuovo orizzonte di significato, nuova individualità definita dalla superiorità del principio del gusto quale sua categoria costitutiva (e fondatrice del suo significante) non si ha progetto che valga. altrimenti, il riferimento di senso andrebbe tutto a ricadere in quel processo e in quella pratica di "estetizzazione diffusa" che Charles Taylor definisce "malaise della modernità" in un suo saggio recente e che è peraltro assai discutibile e sicuramente risulta schiacciato e nella sua pars destruens troppo sbilanciato in rapporto alla questione della post-modernità):
"Ciò emerge in maniera sempre più chiara nel riconoscimento che le esigenze dell'autenticità sono strettamente legate alla dimensione estetica. Questo termine ci è molto familiare e noi tendiamo a pensare che una dimensione estetica sia sempre stata presente nella vita degli uomini o almeno fin da quando essi hanno amato l'arte e la bellezza. Ma non è così. la nozione dell'estetico emerge da un'altra, parallela trasformazione settecentesca nella concezione dell'arte, connessa allo spostamento dei modelli dall'imitazione alla creatività. Quando sia intesa come fondamentalmente una specie di imitazione della realtà, l'arte pur essere definita in termini della realtà raffigurata o della maniera in cui la raffigura. Ma il Settecento assiste a un altro di quegli spostamenti verso il soggetto di cui abbiamo già visto un esempio con la filosofia del senso morale. la specificità dell'arte e della bellezza cessa di esser definita in termini della realtà o della maniera in cui questa viene ritratta e si arriva invece a identificarla mediante il tipo di sensazione ch'esse suscitano in noi: una sensazione sui generis, diversa dal sentimento morale e da ogni altro tipo di piacere" (Charles Taylor, Il disagio della modernità, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp.74-75).
Senza tener conto qui della veridicità o della pregnanza delle argomentazioni di Taylor riguardo la natura della richiesta di autenticità e di auto-realizzazione espresse attraverso l'arte dal corso digradante (e in crisi) del processo di costruzione del soggetto nella modernità, va rilevato che proprio quella "sensazione sui generis" cui si allude costituisce il principio cui fa capo il gusto estetico. È il frutto (come Taylor non manca di rilevare) dell'ipotesi articolata da Francis Hutcheson dell'esistenza di un 'senso interno' in grado di accettare e di recepire, in maniera autonoma e a pari livello per tutti gli uomini, l'impatto costituito dalla natura della bellezza. Che poi essa venga apprezzata e compresa seguendo diverse stratigrafie di senso e secondo prospettive digradanti a seconda della loro natura e della loro educazione costituisce l'oggetto di detta ipotesi.
Su questo punto, per evitare di soffermarmi troppo sul tema in questione, non posso che rimandare alla bella analisi di Giorgio Agamben relativa al concetto storico di giudizio di gusto contenuta nel suo L'uomo senza contenuto (Milano, Rizzoli, 1970, pp.31-63) che resta pregnante e precisa nonostante il molto tempo intercorso dal momento in cui è stata formulata.
Ma proprio perché il legame tra apprezzamento estetico e costituzione della soggettività definisce lo statuto specifico del gusto come rapporto tra uomo e mondo e come orizzonte della sua ricostruzione (e ricostituzione) in termini estetici, quest'ultimo non pur essere fatto riverberare sui processi di 'estetizzazione del mondo' che contraddistinguono la modernità (e su cui già Georg Simmel aveva da par suo, con intelligenza e disperazione, richiamato l'attenzione). Non si tratta, a mio avviso, tanto di definire i criteri di autonomia di esso quanto di analizzare e di ricostruire in chiave teorica e storica insieme i suoi legami con la nascita della soggettività storica dea Moderno che lo rendono così importante per la definizione dei progetti di individuazione dei nuovi soggetti che ne contraddistinguono la fase costitutiva.
Enunciato in tal modo, il procedimento risulta certo troppo ambizioso per poterlo esaurire a livello di 'catalogo delle idee' o di dizionario dei concetti ­ mi limiterò a circoscriverlo.
Per attuare (almeno in parte) il mio programma, mi sarà necessario individuare ­ dove tale ricerca sarà praticabile o meritevole di prosecuzione ricostruttiva ­ le intersezioni esistenti tra definizione ed esercizio del gusto come categoria estetica (o in via di sistemazione come tale) e momento politico come rappresentazione (le immagini del sentire) di una nuova soggettività individuata nel suo rapporto con l'educazione e la società.
Si tratta qui, evidentemente, di evocare il fantasma della politica per far materializzare il fantasma di una soggettività che dal Settecento ad oggi non ha cessato di esercitare il proprio diritto a manifestarsi nel momento in cui sembrava necessario fare i conti con una concezione dell'arte e della poesia che volesse fare a meno del suo rapporto con una dimensione sociale specifica cui fare riferimento .legare politica ed estetica mediante il fantasma.di una soggettività in cerca di espressione concreta e stringente è la scommessa teorica della mia presente relazione sul gusto e il suo destino antropologico e storico.

Digressione sul tatto e il gusto

Prima di passare, tuttavia, alla disamina del rapporto esistente tra estetica del gusto e politica della soggettività in Edmund Burke e in Joseph Addison (unici due autori ai quali, purtroppo, sarò costretto a circoscrivere un'indagine che meriterebbe, invece, di essere allargata fino a coinvolgere l'intera genealogia cui si può far risalire la tassonomia estetica della riflessione sul gusto),sarà necessario calibrare adeguatamente le categorie mediante le quali parlare della questione e della natura del gusto estetico. Non è un caso, comunque, che il gusto (a differenza di altre categorie 'oggettive' della soggettività giudicante) abbia conservato la matrice materiale della sua nominazione. Rimane, pur sempre, insieme al tatto il più 'materiale' dei cinque sensi e come il tatto è il più 'apprezzato' in chiave gnoseologica e fondativa nel Settecento dei Diderot e dei Condillac; più della vista o dell'udito, esso permette una comparazione e una verifica della verità delle sensazioni. Su questo tema basterà apportare la testimonianza dirimente del Trattato delle sensazioni di Étienne de Condillac (che è del 1754) incrociandola con le affermazioni che rapprendono e costituiscono la sostanza propositiva delle tesi esposte nel Saggio sul gusto che apre l'Inchiesta sul Bello il Sublime di Edmund Burke (la cui dimensione è ovviamente assai meno radicale della proposta di Condillac).
Ciò che cosa sostiene, infatti, il paradigma del sensismo teorico riguardo il rapporto tra i due sensi del tatto e del gusto è fondamentale, infatti, a livello di costituzione della soggettività:

"La nostra Statua, priva dell'olfatto, dell'udito, del gusto, della vista e limitata al senso del tatto, esiste, dapprima, per il sentimento che ha dell'azione reciproca delle parti del suo corpo tra loro, specialmente nel movimento di respirazione: questo è il grado più piccolo di coscienza a cui può ridursi"
(Étienne Bonnot di Condillac Trattato delle sensazioni, trad. it. di A. Carlini, revisione della traduzione e note di P. Salvucci, Roma-Bari, Laterza, 1970, p.97).

Acquisita la possibilità di avere conoscenza dei corpi mediante la coscienza dell'estensione che costituisce il suo proprio corpo, la Statua ­ motore immobile ed exemplum fictum della proposta teorica di Condillac ­ si immerge nella scoperta di se stessa e giunge a definire la realtà in termini quantitativi. Ciò che le permette di assestare la propria soggettività in termini qualitativi è, invece, il rapporto con gli altri organi di senso e con la sintesi superiore che essi compongono una volta individuati tramite il tatto. La bontà e la bellezza subentrano successivamente come conseguenza dell'esercizio dei sensi:

"Le parole bontà e bellezza esprimono qualità per cui le cose contribuiscono ai nostri piaceri: quindi, ogni essere sensibile ha idee d'una bontà e d'una bellezza relativa a lui. Chiamasi infatti buono tutto ciò che piace al gusto o all'olfatto e bello ciò che piace alla vista, all'udito o al tatto. Ma il buono e il bello sono relativi anche alle passioni e allo spirito; ciò che favorisce le passioni è buono; ciò che lo spirito gusta è bello; ciò che piace alle passioni e allo spirito è buono e bello nello stesso tempo"
(Op. cit. , p.203).

Il punto d'approdo della Statua è, dunque, una capacità di cogliere attraverso i sensi una prospettiva di totalizzazione della sensibilità. Il gusto, da puro e semplice organo di senso in riferimento alla nutrizione, accede alla sfera della bellezza mediante l'opera di sollecitazione che le passioni operano sullo spirito. E

"…il giudizio, la riflessione, le passioni, tutte insomma le operazioni dell'anima non sono che la sensazione stessa che si trasforma differentemente... " (Op. cit., p.17).

Per Condillac, il gusto come apprezzamento della bellezza è il frutto dell'azione combinata dei sensi che, articolandosi secondo le leggi di funzionamento delle passioni della Statua, conducono al rovesciamento della passività relativa alle impressioni sensibili. In tal modo, la Statua trasforma se stessa da oggetto patetico delle sensazioni primarie in soggetto in grado di asseverare e di apprezzare il portato di quella stessa originaria sensibilità. Da paziente soggetto alle imposizioni dei sensi si fa soggetto portatore e capace di giudizio sull'attività realizzata mediante quegli stessi sensi. Tale rovesciamento pratico produce, alla lettera, una nuova soggettività.