fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Giovanni Guerrieri
 
PRÒSOPON E GORGÒNEION
tracce di uno scontro arcaico sul volto dell'attore
 
Sileno: l'arcaica maschera comica, mostruosa, senza tempo. Il satiro ghignante in cui risuona l'eco selvaggio del gorgòneion (1),il monstrum latino, orribile e fascinoso. Un antico, terribile monito. Sileno: il volto che l'uomo assume per ricongiungersi all'eterno, per astrarsi dall'incessante movimento del tempo. Un volto mostruoso, fatto disegni ossimorici. Libertà e paura, follia e ragione, riso e pianto convivono in questo amplesso fuori dal tempo. Perché dove il tempo non scorre, nella physis, Tutto "è" contemporaneamente. E il monstrum è quel Tutto, incessante metamorfizzarsi delle forme (2).
La maschera chimerica tesse con la vita dell'uomo un ambiguo legame: se dà un lato se ne separa radicalmente, in virtù del potere metamorfico che custodisce, dall'altro, finisce per creare con essa una relazione inaspettata. Nell'indossare la maschera per tentare una metamorfosi, per spingersi oltre i propri limiti umani alla ricerca di impossibili identità, si cela un'insidia al vivere "storico". Il tempo degli uomini, le miserie che li accomunano vengono dimenticati nella ricerca di una consolatoria via di fuga dal mondo. La "trasfigurazione spettacolare" si erge a unica possibilità di riscatto ai dolori dell'esistenza. Ignorare la vita è in qualche modo rendersene complice. La maschera silenica non "accade" in essa per modificarla, ma per sospenderla.
L'esauriente argomentazione di Fernando Mastropasqua a proposito del cratere di Pròmonos, evidenzia come alla seconda metà del V sec. a.C., dunque ad una fase tarda della tragedia, corrispondente al periodo euripideo, l'azione scenica poggi sul contrasto tra quest'essere mitico, Sileno, e l'uomo. Al satiro, creatura mitologica, si affiancano il Tiranno, l'Eroe, il Vecchio(3), Maschere segnate dal tempo: pròsopon(4).
Nel nuovo carattere antropomorfo della maschera s'annida un processo che dissocia il monstrum dal tragico. Accanto ad un Uomo immaginato, all'ideologia di un uomo, un satiro appartenente ad un'età dell'oro perduta o ad un paradiso ancora a venire, si pone un essere da esplorare in tutta la sua miseria e sofferenza. Il volto mostruoso sopravvive accanto a un volto dalle fattezze umane: l'uomo antico comprende che è nel tuffarsi radicalmente nel presente la prova più dolorosa. La maschera immersa nel tempo raccoglie il dolore umano per porlo a confronto con il volto eterno di chi è fuori dal mondo. Pròsopon e gorgòneion, Umano e Oltreumano, intrecciano indissolubilmente i loro passi. Ed è in questa antica dialettica che il tragico trova la sua massima espressione.
Sul piano teatrale, la coesistenza dei due volti della maschera scatena il conflitto tra rappresentazione della "vita" e rappresentazione dell' "ideologia della vita". Il monstrum arcaico non può esprimere la condizione tragica dell'uomo nel divenire, semplicemente perché non la rispecchia: esso non è che un'astrazione. La Gorgone per tornare alla sua arcaica ferocia ha bisogno di un uomo con cui incrociare il proprio destino, di un uomo da pietrificare col proprio temibile sguardo. Solo così può nascere una nuova, inaudita, concezione del "Terribile".
L'epifania della maschera umana spezza ogni complicità tra vita e rappresentazione Si fa strada il realismo, il quotidiano, la proliferazione dei caratteri. Nuove vie si aprono in cui indagare il dolore, nuove forme per custodirlo. Di conseguenza anche nuovi modi per dimenticarlo: una vocazione questa spesso assecondata dalle tecniche teatrali(5). La maschera teatrale, sfuggendo la morsa del tempo, finisce infatti col privarsi del suo aspetto più inquietante: si fa tipologia, carattere universale, modello vuoto e schematico, privo del dolore che lo ha alimentato, specchio non della vita, ma dell'immagine che l'uomo si è fatta di essa. L'arcaico scontro tra pròsopon e gorgòneion, si edulcora nell'astrazione di figure troppo caricaturali per essere umane, e troppo poco umane per essere mostruose.
Ma questa è solo una delle conseguenze, forse la più imbarazzante, ma che non può sminuire l'importanza del nuovo accadimento. La maschera non getta più uno sguardo su mondi mitologici, lontani, ma su questo terribile mondo. Essa non mostra più l'Altro, ma il dolore presente, le ferite nascoste.
Ma se l'antico Sileno finiva con l'ignorare la vita umana, strappandola al divenire, come può una maschera che ha il volto dell'uomo non conciliarsi con esso, non assecondarlo nel suo essere nel tempo?
L'incontro di pròsopon e gorgòneion sul piano della rappresentazione riduce l'umano ad una straziante fissità. È l'arcano potere dello sguardo di Medusa: il volto dell'uomo che lo incrocia si pietrifica, sottraendosi al divenire. Si fa statua, immutabile eppure carica dei segni del tempo. Un monito alla fragilità umana. Il volto dell'uomo divenuto maschera si tuffa nel tempo per negarlo, non per confermarlo. Un gesto rischioso, che balza prepotentemente anche sul piano del vivere "storico": fermare il tempo è necessario, non per dimenticare il suo incessante scorrere, ma per urlare che astrarsene è impossibile. Le metamorfosi del teatro cessano così di essere legate a visioni estatiche di paradisiache età dell'oro perdute per sempre, per divenire metamorfosi della mente, atti di conoscenza dettati dalla contezza che solo una reale coscienza del dolore può portare al dissenso, alla ribellione, all'evoluzione cognitiva: verso età dell'oro, non perdute, ma ancora a venire.
Il rimpianto lascia il posto all'utopia, al desiderio di un tempo nuovo per gli uomini.
Questo è il nuovo potere della maschera che vive nella dialettica di pròsopon e gorgòneion. Alla necessità di un affrancamento reale dalla miseria si affianca il rischio che ne consegue, il rischio insito nel guardarsi dentro per evolversi nell'Utopia: nel nuovo monstrum fuori dal tempo affiora il viso d'uomo paralizzato dal terrore.
La nuova maschera comica, mostruosa, senza tempo.
L'immagine dell'uomo pietrificato dalla Gorgone permette di nominare questa nuova maschera ancora sfuggente e rincorrerla attraverso le epoche dell'uomo.
L'esempio che segue è interessante per due motivi sostanziali: innanzitutto perché pur ponendo il problema negli stessi termini, lo riporta al volto dell'attore privo di maschera; in secondo luogo perché anche in questo caso il punto di partenza è una tipologia concettuale, i cui segni nel corso del tempo hanno perso il loro senso riposto. Una maschera che deve rinnovare il proprio dolore.
Si tratta dell'elaborazione dell'Amleto di Ettore Petrolini.
Arrigo Boito in un libretto operistico del 1865 per Franco Faccio dà una tipica rappresentazione dell' "Amleto romantico": è avvolto di drappi neri sullo sfondo di orrori medievali, da pazzo è diventato lugubremente meditabondo: "Principe Amleto! tutto mesto e nero/ tra gli splendori del real connubio/ rassomigli alla larva del mistero".
Questa connotazione funebre e titanica caratterizzò il personaggio per tutto l'Ottocento. L'"amletismo", cioè l'indecisione, il dubbio, il "romanticismo, pessimismo, nichilismo e gran nevrosi" secondo le parole di J. Lemaître(6), fece strage in tutta Europa. È difficile stabilire come un tale modello si affermò, quale sia stata l'influenza delle interpretazioni inglesi tra Settecento e Ottocento (Kean e Garrick soprattutto), quale quella dovuta alla nascita di prototipi francesi (Lorenzaccio di Alfred de Musset), certo è che l'Amleto romantico, non solo in Italia, ma in tutta Europa, acquisì un'iconografia ben definita. Divenne maschera (7).
L'interpretazione che ne diede il grande attore italiano contribuì fortemente in questa direzione: le chiavi di lettura dell'opera nelle messe in scena italiana non tennero mai conto del valore artistico del testo, non si sforzarono mai verso un suo approfondimento reale, che eludesse lo sfoggio di una ciarlatanesca filologia nelle ricostruzioni di scenari e costumi; finirono piuttosto per sviluppare una prassi che ridusse l'originale shakespeariano ad una sorta di canovaccio, ruotante attorno al personaggio principale. E come un canovaccio il testo fu continuamente rimaneggiato, scorciato di snodi paralleli e personaggi minori, reso più "funzionale" all'interpretazione narcisistica dell'attore (8).
In questo schema espressivo fu sicuramente determinante l'influenza dell'Opera (9): il grande attore e il cantante lirico incrociarono più volte i loro passi, recitarono negli stessi teatri, per lo stesso pubblico. Si fecero concorrenza e si influenzarono reciprocamente. Il modello recitativo che ne derivò finì col confermare quelle allegorie che, da Alfieri in poi, popolarono l'universo romantico italiano, e non per rinnovarle, per restituirle alla loro perduta vivacità. Amleto fu una di queste allegorie: un nuovo Oreste, privato di regole aristoteliche (10). La declamazione del grande attore, nella sua frivola rivalità col canto, non aggiunse che vacuo esibizionismo, un volto popolare da sovrapporre a quello del personaggio, uno straordinario virtuosismo per un'esecuzione che finì con l'ucciderlo (11).
Il grande attore riempì la tipologia di vanità.
L'operazione di Petrolini parte di qui.
C'è da chiedersi come Amleto possa essere "capitato" nel Teatro di Varietà, come abbia potuto abitare una forma spettacolare così strettamente contingente al quotidiano, le cui tipizzazioni tesero a creare un universo di macchiette intrise di tic borghesi. Un teatro per sua stessa costituzione lontano dai "classici" (12).
Non è nel gusto della parodia, nel voler divertire a tutti i costi, che va cercata la risposta a queste domande, bensì in quella che fu la natura più intima del Varietà: un mondo di folli, di nuove tipologie, linfa vitale per rinnovare gli ormai consunti modelli teatrali. Un universo spettacolare carico dei segni del tempo.
E in questa prospettiva l'operazione di Petrolini recupera una tragica e arcaica consapevolezza: non si può riflettersi in un'astrazione per rinnovare un dolore universale. Così egli immerge nel tempo la maschera di Amleto, la spoglia della sua tipologia concettuale, la squarcia, per far emergere da essa il volto di un folle. L'allegoria si innesca di un dolore umano. Indossato dal comico romano, Amleto torna ai suoi antichi splendori di fool.
Shakespeare compie in definitiva la stessa operazione con il suo personaggio: "L'attenzione di Shakespeare si rivolge soprattutto a Everyman in virtù della sua peculiarità di maschera dell'uomo, condannato a nascere per morire. [.] È tutt'altro che stravagante che Amleto-Ognuno indossi la maschera del suo stato infelice, la maschera del folle. Ma la sperimentazione di Shakespeare è ancora più sottile, in quanto le allusioni di Amleto e il suo atteggiamento rimandano a una particolare forma di follia, a un tipo di folle ben noto dal XV secolo: il folle Nessuno con il dito sulla bocca che invita al silenzio. Perciò l'intuizione di Shakespeare crea un felice oxymoron poetico e drammatico: Ognuno (Everyman) assume il volto di Nessuno (Nobody)" (13).
Amleto indossa la maschera del Nobody per "rimettere il mondo su suoi cardini", per immergersi nel tempo. Ma la sua natura di Nessuno gli permette di negarlo, per acquisire una nuova dignità dalla consunta tipologia di Ognuno, "per annunciare la possibilità di un tempo nuovo, la cui radicalità sta nell'annunciarsi non-tempo, non-mondo, non-Ognuno: un uomo che non c'è per un mondo a venire" (14).
Il Varietà creò un immaginario di folli equivalente a quello rinascimentale: un universo di tipologie sporche dei segni del mondo, spesso vacue e superficiali, altrettanto spesso concilianti e borghesi, ma tra cui si distinsero maschere capaci di opporsi al "mondo" in virtù della loro natura eversiva. Petrolini fu una di queste: l'equivalente del Nobody per il Rinascimento.
E come il Nobody shakespeariano, Petrolini nel suo Amleto si carica sulle spalle i mali del mondo: la vanità altrui, la boria terrena, il superomismo, sono i "vizi" che egli indossa nel suo mascheramento. Ma non per confermarli, bensì per smascherarli. È nel "costruire sulla vanità" del grande attore, la genialità dell'operazione e al tempo stesso la sua nuova tragicità. Vanità sulla bocca del fool, di colui che conosce il senso recondito delle parole, si carica di tutto il suo terribile significato: ciò che è vanitoso è vano. È niente. Un senso nuovo che fa esplodere la tipologia amletica del grande attore, ricaricando il personaggio di una nuova dolente dignità, a cui Petrolini presta il suo volto, irrigidito in una smorfia ghignante. La sua è la maschera di un folle, la stessa che gli ha permesso di immergere Amleto nel mondo senza conciliarsi con esso. Ma è anche una maschera di dolore, nata dall'aver gettato uno sguardo sul mondo, dall'aver compreso lo scorrere del tempo, la vanità di ogni metamorfosi, di ogni superomismo. In quella straordinaria metafora che è il teatro l'attore diviene l'uomo che scruta dentro se stesso alla ricerca dell'orrore di sé. L'uomo che rischia di mutarsi in pietra. Colui che si immerge nel mondo per compiere un gesto di liberazione dal mondo, acquista la dolorosa consapevolezza di quanto quel gesto sia illusorio. E nonostante tutto lo compie, perché solo da un'illusione può nascere un'Utopia. È il terribile segreto che si cela nel volto dell'attore che si irrigidisce in una maschera.
Gorgòneion e pròsopon si incrociano ancora in un amplesso ossimorico custodito dal viso dell'attore. Al tempo stesso egli diviene il soggetto che guarda, l'orrore che vede e il monstrum, figlio di tale visione. Il suo volto, eludendo ogni realismo, si erige a teatro di una lotta ancestrale, incessante. La lotta che si cela in ogni mascheramento del teatro.
Un'immagine per finire: "con sincere lacrime si affligge delle dipinte sofferenze di Troia" (15).
Sono i versi di Shakespeare nel poema Lucrezia, quando Lucrezia cerca Ecuba nel grande arazzo raffigurante la guerra di Troia e fissa lo sguardo nel volto dipinto per rinnovare il proprio dolore. Lo stupro subito da Tarquinio l'ha resa muta, incapace di dar forma alle proprie angosce, ridotta ad un automa privo di lacrime. La verosimiglianza del volto di Ecuba le permette un'identificazione: essa si riflette in quel volto come in uno specchio. Non per consolarsi. Lucrezia cerca di rendere universale il proprio dolore, lo affianca ad un altro più profondo, legato alla propria esistenza di mortale, condannata alle violenze del mondo. Non è la tragica bellezza di Ecuba, la sua regalità, a ergersi immortale, ma il dolore che essa incarna. Accanto al viso disperato della mitica Regina di Troia si erge il volto senza tempo, mostruoso della guerra. La commozione per Ecuba, si trasforma in angosciosa consapevolezza. Altre forme per il pròsopon e il gorgòneion, ma lo stesso arcaico conflitto. E Lucrezia può piangere ancora.

NOTE
1) Il vocabolo gorgòneion è testimoniato fin dal V secolo a.C. da Isocrate: rimanda al terrore che la maschera teatrale può provocare, associandola alla testa decapitata della Gorgone. Aristotele usa gorgòneion nel senso di m