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di Guido Piangatello | |||
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Avvertenza
Il cervello descritto nel seguito è visto alla luce del
modello proposto da me. Nell'attesa che tale modello venga esaminato
dalla comunità scientifica, le conseguenze che io ne traggo
in questo articolo sono presentate a titolo di opinioni personali.
L'apprendimento e la valutazione secondo il cervello. (Rif. 1) L'apprendimento è l'acquisizione stabile di un'informazione. Apprendere un'informazione significa memorizzarla nel cervello, e la memorizzazione avviene modificando qualche cosa dentro al cervello. Le modifiche possono essere di tanti tipi e avvenire in molte zone del cervello, ma possiamo dire che ogni modifica sia (o equivalga a) una variazione dei collegamenti tra i neuroni della corteccia. Apprendere, pertanto, è modificare il collegamento tra i neuroni della corteccia (1). (Rif. 2) La corteccia è organizzata gerarchicamente, su tre livelli principali. Ignorando il primo livello (o livello delle cortecce primarie), che comprende le regioni dove arrivano i segnali dai sensi e dove partono i segnali diretti ai muscoli, restano solo due livelli, che indicherò come livello basso (o livello delle cortecce secondarie) e livello alto (o livello delle cortecce associative). Questa informazione, unita a quella di cui al Rif. 1, ci permette di affermare che esistono solo due tipi fisicamente diversi di apprendimenti: quelli che modificano i collegamenti sulle cortecce di basso livello (apprendimenti impliciti o inconsci) e quelli che modificano i collegamenti sulle cortecce di alto livello (apprendimenti espliciti o verbali) (2) . (Rif. 3) Non si sa cosa facciano le cortecce associative e come lo facciano. Io ho ipotizzato che i neuroni delle cortecce associative siano attivabili volontariamente con il pensiero, usando come chiavi di attivazioni le parole (3). Se questo e' vero, potremmo dire che le cortecce associative sono quelle comandabili a parole. (Rif. 4) Si può arrivare ad attivare un neurone associativo come indicato al Rif. 2, ovvero passando dalle cortecce secondarie (in pratica facendo esperienze concrete) o come indicato al Rif. 3, ovvero attraverso il sistema verbale (in pratica ascoltando dei discorsi, fatti da altre persone o dal soggetto stesso). Ci sono pertanto due tipi diversi di scuole: quelle che danno la priorità alle esperienze concrete (scuole professionali) e quelle che danno la priorità alle spiegazioni verbali (licei). (Rif. 5) Alla nascita le cortecce associative sono immature (questa è una notizia ufficiale, non è una mia ipotesi). I neuroni ci sono già tutti, ma essi non sono collegati tra loro e non sono utilizzati. Lo sviluppo di un individuo coincide con l'accrescimento delle cortecce associative. Tale sviluppo non è genetico, ma ha bisogno d'informazioni per avvenire. Queste informazioni possono essere scoperte dal soggetto o trasmesse dalle altre persone. La scoperta personale ha certi tempi, evidenti nel fatto che l'umanità ha impiegato molte migliaia di anni per arrivare al livello attuale, pur adoperando un sistema misto, in cui alle scoperte nuove si affiancavano le conoscenze apprese dal passato. Poiché il tempo di sviluppo individuale (25 anni) è pochissima cosa rispetto al tempo di sviluppo dell'uomo, si può affermare che le scoperte personali pure, in altre parole non indotte da conoscenze trasmesse da altre persone, sono del tutto trascurabili. Lo sviluppo delle cortecce associative è, in pratica, interamente dovuto alla trasmissione delle conoscenze in possesso dell'umanità (quelle che, in analogia col patrimonio genetico, potremmo chiamare il patrimonio culturale). La funzione della scuola comincia a delinearsi chiaramente. (Rif. 6) Quest'enorme lavoro di riapprendimento dell'intero patrimonio culturale, a carico d'ogni nuova generazione, ha un grosso costo (dal punto di vista economico si potrebbe dire che costruire una persona costa un paio di miliardi!). Tale lavoro, però, ha anche un grosso pregio per l'adattamento: si possono scegliere le conoscenze ancora utili e si può iadattarle al presente. E' inutile litigare per stabilire se la scuola deve trasmettere le conoscenze tradizionali o se deve aggiornarle. Entrambe le cose vanno fatte, prima o poi. Si tratta solo di stabilire quando fare l'una e quando fare l'altra. (Rif. 7) Le cortecce associative, presumibilmente, sono organizzate in regioni, ognuna delle quali gestisce un tipo di situazione. E' solo una mia ipotesi, ma ho voluto citarla perché spiega come mai l'insegnamento è organizzato in materie. Se la mia ipotesi è vera, tale organizzazione sarebbe una precisa esisgenza fisica. Visto che qualcuno pare voglia considerare superata la divisione in materie, mi è sembrato giusto mettere tutti sull'avviso (perché quando si cerca di andare contro il funzionamento del cervello si combinano molto facilmente dei disastri) (4). Si nasce 'senza' cortecce associative, in altre parole senza la parte direttiva del cervello (Rif. 6). Il compito della prima parte della vita e quello della scuola primaria è quello di 'costruire' tali cortecce. Poiche' chi non ha sviluppato del tutto tali aree del cervello è una persona a metà, apparentemente come le altre ma in realtà incapace di comportamenti adeguati alle situazioni, allora la scuola primaria dovrebbe coincidere con quella dell'obbligo. Il compito della scuola secondaria, invece, è preparare la persona, ora dotata di un cervello, al lavoro (prepararla alla vita privata sarebbe altrettanto importante, ma non si può fare molto a scuola in tal senso, perché le regole da seguire in privato variano da persona a persona). Una scuola secondaria a basso livello (una scuola media superiore finalizzata ad un lavoro) sviluppa soprattutto le cortecce secondarie, fornisce dei contenuti pronti all'uso ma sostanzialmente rigidi, adatti a contesti lavorativi ben definiti. Una scuola secondaria ad alto livello (un corso universitario) sviluppa una regione della corteccia associativa, fornendo la lingua usata da chi svolge quella professione più che i contenuti. La parte migliore della scuola, come si vede, ha il fine di sviluppare cortecce associative, sia nel ciclo primario sia in quello secondario. La scuola-scuola punta a fornire saperi di alto livello (Rif. 2). La scuola della vita punta invece a sviluppare le cortecce secondarie, fornendo soluzioni concrete a situazioni concrete. Queste due scuole sono ben distinte tra loro, perché quando si mettono in uso le conoscenze che si hanno si blocca lo sviluppo delle cortecce associative (vedere, più avanti, Rif. 8 e Rif. 9). La scuola orientata al lavoro concreto dovrebbe partire quando la scuola è finita. Solo le conoscenze professionali di alto livello (o astratte) rientrano nella scuola vera e propria, essendo costruzione di corteccia associativa (5). Se è vero, come io credo (Rif. 3), che ogni neurone delle cortecce associative sia legato ad una parola, allora il compito principale della scuola, ossia far nascere cortecce associative, sarebbe descrivibile dicendo che essa deve fornire delle parole allo studente (qualche volta viene fornita proprio una nuova parola, ma assai più spesso viene fornito un nuovo significato ad una parola usata in un dato contesto). Una scuola orientata alle parole sarebbe incredibilmente facile da gestire e da far funzionare con soddisfazione di tutti. Ogni insegnante avrebbe un compito ben definito, quello di far capire allo studente un certo numero di parole (concetti). La selezione di tali parole potrebbe essere fatta da un'apposita commissione, e chiunque credesse che esse lasciano fuori concetti importanti potrebbe proporre integrazioni o sostituzioni. Quando un insegnante si mette al lavoro saprebbe, con assoluta certezza, che le parole che proporrà sono importanti da conoscere e nessuno studente, nessun genitore e nessun preside potrebbe più accusarlo di proporre contenuti non interessanti (che bello!). L'insegnante avrebbe il difficile compito di trovare la strada adatta per presentare e per far capire queste parole. In ogni momento, però, potrebbe controllare come procede l'apprendimento, con verifiche veloci e molto oggettive, controllando la capacità dell'allievo di definire correttamente le parole che ha studiato (ovviamente usando parole conosciute, quindi a livelli diversi ai vari livelli d'istruzione). Alla fine dell'anno si saprebbe esattamente quanto ha appreso uno studente, semplicemente contando quante parole, tra quelle proposte, sono state comprese a sufficienza. Lo studente e l'insegnante avrebbero modo di riconoscere i comportamenti che portano allo scopo, distinguendoli da quelli che non ci portano, e facendo i loro bravi aggiustamenti potrebbero essere un buon studente e un buon insegnante (6). Il discorso fatto qui sopra è simile ad uno che verrà fatto più avanti, volto a separare la funzione docente dalla funzione giudicante, ma non va confuso con esso. Un conto, infatti, è dire che gli apprendimenti impliciti non sono misurabili, un conto e' dire che gli apprendimenti espliciti vengono fatti misurare ad un insegnante diverso da quello che tiene il corso per rimarcare il fatto che l'obbiettivo dello studente non deve essere quello di avere l'approvazione del suo insegnante ma deve essere quello di acquisire delle conoscenze. Con questo piccolo trucco l'insegnante non e' più l'ostacolo, bensì colui che aiuta a superare l'ostacolo. La differenza tra le due cose è abissale. Anche l'insegnante che insegna giudica (vedere Rif. 11 e la discussione che segue), ma il suo giudizio serve a guidare l'allievo, non a punirlo o premiarlo. Abbiamo visto (Rif. 5) che non si è persone dotate di cervello alla nascita, ma solo dopo lo sviluppo delle cortecce associative ad un livello minimo necessario. Sarei allora per abolire l'obbligatorietà' della scuola primaria, sostituendola con questo principio: ha diritto alla cittadinanza italiana solo chi ha frequentato con successo la scuola primaria italiana o una scuola riconosciuta equivalente o superiore più un esame volto ad appurare la conoscenza minima della cultura italiana. Italiani non si nasce ma si diventa. Ma non si diventa tali mangiando le bistecche, e neanche ottenendo un posto di lavoro in Italia e un alloggio, bensì apprendendo la cultura italiana (o anche la cultura italiana, se vengono da un'altra cultura). Inoltre manterrei l'obbligatorietà della frequenza, estendendola all'ultimo anno d'asilo come ha proposto Berlinguer, in questo senso: chi rifiutasse la scuola offerta a tutti e gratutita, perderebbe il diritto a pretendere l'aiuto dello Stato per arrivare a superare l'esame finale e ad avere la cittadinanza italiana. Se tale obbiettivo interessasse, ed io credo che interesserebbe a tutti, ci si comporterebbe di conseguenza. L'abbandono scolastico calerebbe, e non di poco. E, tanto per fare un esempio, si smetterebbe di dire, come si diceva all'estero una volta e temo si continui a dire "italiano uguale mafioso". Penso, infatti, che ben pochi mafiosi sarebbero italiani, se ci fosse un serio esame d'ammissione alla comunità italiana in Italia. Ovviamente non penso che questa idea possa passare. Vorrei però che facesse riflettere su questo punto: occorre passare da metodi basati sull'imposizione (dovere di andare a scuola) a metodi basati sulla convenienza (conviene andare a scuola). Il motivo di fondo per fare questo passo è che solo il piacere scrive nel cervello, e quindi può indurre dei cambiamenti, mentre la sofferenza cancella (se cancella cose fatte male va bene anch'essa, ma poi alle cancellature bisogna pur sostituire qualcosa, o no?) (vedere, più avanti, Rif. 11) Il problema fondamentale della scuola attuale (Rif. 8) Nel cervello non ci sono soltanto conoscenze, ma anche strutture che le gestiscono. Intanto c'è un cervello (che io chiamo cervello dietro perché interessa la mezza corteccia che sta dietro), che memorizza, e un cervello davanti, che può usare o non quello che c'è in quello dietro. Una conoscenza arrivata al soggetto e memorizzata dietro, nelle cortecce di basso livello, è una conoscenza potenziale, più o meno com'e' una ricchezza potenziale l'aver fatto un lavoro ed essere in attesa del relativo compenso. Quando la conoscenza arriva ad interessare la corteccia associativa dietro, allora quel lavoro è ormai diventato moneta, solo è ancora in mano ad altri. Una conoscenza memorizzata dietro non è ancora a disposizione del cervello davanti, quello che amministra il da farsi. Poco male, direte voi, basta che ci sia. Se vi pagassero lo stupendio non ogni mese ma ogni dici anni, però, comincereste a fare una certa differenza tra l'avere i soldi in mano o l'averli ancora da riscuotere (specie quando andate a comprare qualcosa e dovete fare con quello che avete). Purtroppo il passaggio dal cervello dietro a quello davanti avviene a stadi, e negli adulti possono passare anche vent'anni prima di mettere in uso conoscenze che pure sono presenti in memoria. A scuola si cerca di 'spremere' subito tutto quello che c'è dietro, pre renderlo disponibile al cervello davanti. Comunque conviene sempre tenere ben distinto il fatto di avere una conoscenza dal fatto di poterla usare, perché di mezzo c'e' un fosso profondo: la separazione tra la corteccia associativa dietro e quella davanti (non a caso l'una è agli antipodi dell'altra). Pensate che il cervello dietro ha tutta l'aria d'essere ciò che la psicologia chiama Inconscio, e che il materiale inconscio non è accessibile volontariamente. (Rif. 9) Il trasferimento di conoscenze dal cervello dietro a quello davanti non avviene con continuità. Solo le nuove conoscenze che s'integrano con quelle già in uso, sono recepite. Le altre restano dietro, inutilizzate. Se premono per entrare in uso, sono indirizzate verso una regione attualmente non usata della corteccia associativa frontale (regione in sviluppo o, come dico io, in incubazione). Solo quando la regione in incubazione è diventata migliore di quella oggi in uso, si attua un cambiamento repentino e straordinario, con sostituzione del vecchio modo di far fronte alle cose con uno nuovo. La crescita della corteccia associativa (o, se preferite, la crescita verso l'alto di una persona) non avviene con continuità ma a scatti (stadi). Non c'è sviluppo se il vecchio sistema si dimostra valido, la qual cosa impedisce al nuovo sistema in incubazione di entrare in uso. Ciò spiega come mai una persona apprende molto da giovane e poco da vecchia. La capacita d'apprendimento è la stessa, ma il possesso di un sistema di vita abbastanza soddisfacente impedisce alle nuove conoscenze di approdare al cervello davanti e cambiare i comportamenti. (Rif. 10) Mettiamoci ora nel cervello davanti, precisamente nella corteccia associativa davanti. In essa dobbiamo distinguere due cose: le conoscenze ed il sistema per accedere ad esse e usarle. Ho già detto che i neuroni associativi vengono attivati attraverso le parole, e che il sistema d'accesso alle conoscenze è il sistema verbale. La sua conformazione determina il carattere, ma questo ora ci interessa fino ad un certo punto. Il punto da aver chiaro è questo: l'uso delle conoscenze non è automatico, ma è determinato da un sistema di gestione. Le conoscenze sono i beni del cervello (beni liquidi, quelli delle cortecce superiori e beni in proprietà, quelli delle cortecce inferiori). E' chiaro che non sarebbe bello se qualcuno vi volesse dire come dovete spendere i vostri beni. Il loro utilizzo è diverso da persona a persona, ed è giusto che sia così, perché ogni situazione ha le sue soluzioni. Queste tre affermazioni sono giustificate da molti fatti, ma non sono ufficialmente riconosciute come vere. Nonostante questo mi è sembrato utile tirarle in ballo, ritenendole determinanti per capire la scuola attuale e per valutare la proposta di Berlinguer. Nel Rif. 9 c'è scritto il motivo per cui la scuola è organizzata a cicli (e lo sarà sempre, anche se Berlinguer e chi lo consiglia sembrano orientati a supporre che l'apprendimento sia un processo che avviene con continuità).L'istruzione è organizzata in cicli perché deve far sviluppare le cortecce associative e tale sviluppo avviene a scatti (stadi). La messa in funzione di un sistema di vita a livello più alto, con massiccio arrivo nella corteccia davanti d'informazioni accumulate nella corteccia dietro e mai usate, può avvenire naturalmente o essere indotto artificialmente. Per indurlo bisogna creare un disadattamento, perché solo alla presenza di forte e ineliminabile sofferenza una persona si decide ad abbandonare il vecchio sistema di vita per uno nuovo (la vecchia regione della corteccia associativa per una nuova regione, più evoluta). Tale sofferenza è inflitta al bimbo mettendolo in una scuola nuova, con nuovi insegnanti che pretendono da lui assai di più di quelli precedenti. I genitori non possono creare questa situazione, possono chiedere di più al figlio più grande ma non possono pretenderlo, perché non possono dirgli che sarà espulso da casa se non si adeguerà alle nuove richieste (possono far finta, ma si riconosce da lontano che non fanno sul serio). Il discorso dell'espulsione non funziona neanche a scuola, perché è preciso dovere della scuola portare tutti ad uno sviluppo adeguato. Che cosa resta, per mettere il ragazzo in situazione di forte inadeguatezza? Resta il rapporto con dei nuovi insegnanti, che non concedono la loro approvazione, e anche la loro amicizia, se non a chi si rassegna a fare le cose ad un livello superiore. Per fare una proposta alternativa a quella di Berlinguer, vediamo qual'è il male oscuro della scuola attuale. Ci sono alcuni professori convinti che la scuola italiana attuale vada male perché non insegna abbastanza le cose che servono (gli apprendimenti di basso livello), e altri professori convinti che essa vada male perché non insegna abbastanza la teoria (gli apprendimenti d'alto livello). Il guaio è che questa scuola non insegna né l'una cosa né l'altra, che insomma non insegna niente. Supponendo che le cose stiano davvero così, bisogna chiedersi perché la scuola d'oggi non insegna. I professori dicono che sono gli studenti a non aver voglia, gli studenti ribattono che sono i professori a non averla e a farla passare pure a loro. Le persone fuori dalla scuola pensano che siano entrambi a non fare il loro dovere (salvo poi professare la massima considerazione sia per gli studenti sia per i professori nei loro discorsi ufficiali). Se nessuno fa bene la sua parte, forse c'è un motivo che va oltre il singolo insegnante e il singolo studente, un motivo strutturale. Qual è? Berlinguer ha proposto la sua cura, ma non ha fatto altra diagnosi oltre a quelle due sopra dette: ci sarebbe poco insegnamento di conoscenze professionali e anche di conoscenze ad alto livello. Grazie, questo lo sapevo da me, ma come mai? Le conoscenze sul cervello esposte all'inizio di questo paragrafo ci forniscono due buoni motivi per tale mancato apprendimento. Il primo motivo è già stato trattato parlando di cicli: il cervello davanti non accetta le nuove conoscenze se quelle già in suo possesso lo soddisfano abbastanza (Rif. 9). Allora la scarsa motivazione ad apprendere degli studenti non è colpa né degli studenti né dei professori, è invece colpa del benessere. Quando si suppone che uno studente abbia voglia di apprendere, perché imparare cose nuove è naturale e obbligatorio, si sottintende che egli sia insoddisfatto della sua vita attuale. Questa supposizione è sicuramente vera nella scuola primaria (che e' poco interessata da questo problema e molto interessata da quello che vedremo più avanti). Non lo è per niente, invece, quando lo studente arriva alla secondaria ed ha già quasi tutto quello che potrebbe desiderare. Gli manca il lavoro, certo, ma siccome la scuola attuale è poco orientata a fornire conoscenze professionali, egli perde interesse alla scuola. Passa il tempo ad apprendere lo stesso, sia chiaro, perché il cervello non sa fare altro che apprendere e passa 24 ore su 24 impegnato in questo compito. Si dedica ai settori dove si sente carente, a cercare relazioni con l'altro sesso e a cercare il suo posto nella società, la propria funzione. Tutto ciò si chiama mancanza di motivazione allo studio. Dipende dalla scuola? Non direi proprio. Se la scuola garantisse un lavoro o un partner, essa interesserebbe, ma non sarebbe più la scuola che sviluppa le cortecce associative. Dipende dalla società, e qui s'impone una considerazione. Ci sono fasi storiche in cui una società costruisce soluzioni nuove. In queste fasi le conoscenze sono apprezzate, e la scuola è tenuta in gran considerazione. Quando però si raggiunge una buona soluzione, quando una società sta bene, essa 'si siede' e non solo non fa nulla per crescere ma si oppone decisamente ad ogni cambiamento (7). Questo fatto è normale. Però tale situazione, buona per la società quanto cattiva per la scuola, non dura all'infinito. Gli altri paesi, quelli che ieri stavano male e che si sono dati da fare per migliorare, prima ci affiancano e poi ci superano. Poiché rimanere indietro non è molto piacevole, torna l'interesse allo studio e alla scuola. Forse siamo a questo punto, oggi in Italia. E invece di guardare indietro, cercando chi incolpare del poco apprendimento nella scuola di ieri, conviene guardare avanti. C'è poi un secondo problema nella scuola attuale: il fatto che l'apprendimento sia definito in termini comportamentali. Vediamo la definizione corrente d'apprendimento: "Sebbene l'apprendimento sia l'oggetto più studiato della psicologia, non si ha ancora una sua definizione unitaria. I vari tentativi di definizione si possono riassumere, con accettabile approssimazione, nella seguente formulazione: l'apprendimento designa le modificazioni relativamente durevoli delle possibilità del comportamento giacché si basano sull'esperienza" (dal Dizionario di Psicologia di Arnold W.-Eysenck H. J.-Meili R., edizioni Paoline). Si vede bene che gli psicologi cercano di definire l'apprendimento guardando "le modifiche relativamente durevoli del comportamento" e non invece interessandosi alle modifiche relativamente durevoli del cervello. Se ci fosse un legame diretto tra il comportamento visibile e il contenuto del cervello allora, si potrebbe risalire alle modifiche apportate nel cervello a seguito di un apprendimento indagando le modifiche intervenute nel comportamento. Ma abbiamo visto, esaminando come il cervello usa le nuove conoscenze (Rif. 10), che non è così (e non a caso nella definizione citata sopra si parla di possibilità che il comportamento risulti modificato dall'apprendimento e non di modifica che avviene senz'altro). Non solo il cervello può risultare modificato senza che questo influenzi ancora il comportamento esterno (modifica al cervello dietro non ancora recepita nel cervello davanti), ma questa è la regola, questo è il suo funzionamento normale. Esaminando il comportamento è pertanto impossibile valutare oggettivamente l'apprendimento (non è il professore incompetente che non sa farlo, è proprio teoricamente impossibile, così com'è teoricamente impossibile stabilire se una cosa non ricordabile è memorizzata nel cervello dietro, o cervello inconscio, oppure no). Poiché la valutazione è il momento decisivo del processo d'apprendimento, se esso avviene come descritto più avanti (Rif. 11), allora diventa impossibile insegnare ogni volta che la valutazione soggettiva, l'unica possibile se s'ignora il cervello, è contestata. Ogni persona è allenatissima ad intuire cosa c'è nel cervello guardando il comportamento di una persona, e la valutazione soggettiva è di solito ottima, se è serena, se il professore non è oggetto di forti pressioni e al contempo privo di valide difese. Se, però, uno studente dice "professore, mi dimostri che io non so, come afferma lei", a quel punto il professore è in trappola, perché non può assolutamente provare la veridicità della sua valutazione. Poiché questa contestazione è diventata la regola nella scuola secondaria superiore d'oggi (giustamente, perché, come detto all'inizio, il giovane ha il diritto e il dovere di adattare al presente le conoscenze che gli sono trasmesse), e poiché la società non ha difeso i giudizi dei professori quando questi davano giudizi negativi, allora insegnare proficuamente è diventato non solo difficile, ma addirittura impossibile. Per capire questa cosa, vediamo come nasce un voto nella scuola d'oggi. Una parte del giudizio è decisa nelle interrogazioni e nei compiti in classe, dove lo studente è chiamato a dire cosa farebbe davanti ad un problema ben preciso. Se egli risolve il problema come lo avrebbe risolto il professore, il voto è buono, altrimenti è cattivo. Si notano due cose. La prima è che si valuta l'uso delle conoscenze, e non il possesso delle stesse (Rif. 10). Se lo studente sa le cose, ma non le usa per risolvere il problema di matematica assegnatogli, egli prende un brutto voto. Questo voto afferma che egli non sa le cose. Potrebbe saperle, invece, e non averle usate, perché c'è un lungo cammino nel cervello tra il memorizzare una cosa e il metterla in uso (Rif. 8). Un piccolo esempio personale: l'unica materia che ebbi a settembre nella mia carriera scolastica fu... quella che sapevo più di tutte le altre. Non mi curavo di esercitarmi, e per la professoressa contavano gli esercizi svolti, per cui io 'non sapevo' quella materia. Oggi l'insegnante valuta bene lo studente che si comporta come lui davanti ad un problema, e male colui che segue una strada diversa. E' giusto che il professore tenda ad allevare gli studenti a sua immagine e somiglianza? Sarebbe giusto, se egli trasmettesse soltanto conoscenze. Non è giusto per niente quando egli trasmette un modo, il suo, di utilizzare le conoscenze. Questa seconda componente non può essere tanto piccola, giacché le valutazioni sono sull'uso delle conoscenze e non sul loro possesso. Nella classe di mio figlio quasi tutte le femmine hanno giudizi migliori rispetto ai maschi. Può darsi che le donne siano più brave degli uomini, ma si può anche pensare che le valutazioni delle insegnanti, tutte donne, siano favorevoli alle allieve donne perché queste tendono ad usare le loro conoscenze in modo più vicino a come le adoperano loro. La seconda componente del giudizio assegnato allo studente è ancora più preoccupante, perché si ufficializza che l'insegnate abbia il diritto di giudicare i comportamenti (rendendo difficile, se non impossibile, quell'adattamento di cui si è perlato al Rif. 6). Se lo studente in classe si comporta come pare giusto al professore, se egli studia e fa i compiti seguendo il metodo suggerito dall'insegnante, allora è maturo e probabilmente sa anche le cose. Il giudizio dell'allievo sale. Se, invece, si comporta diversamente da come si aspetta il professore, la sua valutazione cala. E' evidente che l'insegnante sta imponendo un comportamento. I genitori applaudono calorosamente (quando il loro modello comportamentale va d'accordo con quello del professore, perché altrimenti criticano e anche aspramente) sostenendo che il professore deve insegnare un metodo di studio e di lavoro. E' normale che un genitore applauda l'insegnante quando questi impone al giovane un comportamento (per esempio quello di fare i compiti per le date stabilite; e se ad uno studente, per motivi suoi, tornasse meglio farli in un altro momento?), perche' il solo ed unico motivo per cui una persona fa dei figli è di trasmettere a loro il suo modello di vita. Ma un insegnante, a differenza di un genitore, non ha il diritto di trasmettere agli allievi il suo stile di vita. Il comportamento imposto, sia quello dei genitori sia quello degli insegnanti, se va bene in un certo contesto, è sicuramente sbagliato in un contesto diverso, dove per conseguire lo stesso risultato bisogna comportarsi diversamente. Ecco il punto critico. Finché i giovani ereditavano l'occupazione e l'ambiente dei genitori e degli insegnanti, insegnare un comportamento aveva senso e valore. Oggi, con la situazione ambientale che varia rapidamente e con gli spostamenti delle persone, imporre il comportamento giusto per una situazione diversa significa imporre un disadattamento ambientale. I giovani non ci stanno, ed hanno perfettamente ragione (Rif. 6). Un professore è chiamato a trasmettere conoscenze e alcuni comportamenti risultano modificati dopo aver acquisito tali conoscenze. Qui però bisogna mettere il punto, andare oltre e indicare anche come lo studente deve spendere le sue conoscenze è un vero e proprio attentato alla sua capacita d'adattamento. Il comportamento non imposto dalle conoscenze, infatti, è scelto da ogni individuo in modo diverso perche' ognuno deve far fronte ad una diversa situazione ambientale. Chiedergli di comportarsi in un modo invece di un altro solo perche' ai fini di una materia ciò sarebbe vantaggioso significa ignorare che quella modifica comportamentale va ad influire anche sulle altre situazioni. Se il comportamento richiesto è buono per tutte le situazioni, lo studente lo sceglierà spontaneamente. Se non lo accetta, invece, probabilmente è perche' esso produce più danni altrove che vantaggi su quel terreno. A questo punto insistere diventa inutile, perche' non avrà risultati, e scorretto, perché cerca di far passare una cosa che è complessivamente dannosa Mentre il comportamento non va imposto, occorre definire esattamente, per poter insegnare, obbiettivi e metodi di verifica. Il problema fondamentale della scuola attuale, a mio avviso, è quello di mescolare queste due cose, definendo obbiettivi e verifiche in termini comportamentali. Se io definisco come obbiettivo della mia materia il fatto che il ragazzo affronti un certo problema in un certo modo anziché in un altro, e se baso la mia valutazione su come si comporta di fronte a quel problema, io lo metto di fronte al dilemma di scegliere tra l'adattamento ottimale al suo ambiente e l'apprendimento della materia. La cosiddetta 'scuola democratica' emersa dal '68 aveva appurato questo stesso principio che io sto descrivendo qui: i comportamenti non si devono imporre, neanche quelli cosiddetti giusti perché se sono giusti per una persona non è detto che lo siano per un'altra. Peccato che questa regola si sia portata dietro che non si può imporre neanche la materia, che il professore non può pretendere che lo studente apprenda quello che lui insegna ma deve andare a cercarlo, deve blandirlo, deve convincerlo che le conoscenze che gli offre sono buone e utili. La cedevolezza del professore si chiama insegnamento individualizzato, e non ha senso quando si trasmettono conoscenze scientifiche, mentre ha senso quando si trasmette quello che non si dovrebbe trasmettere: come ci si deve comportare. La buona notizia che io porto è questa: se è vero che le cortecce associative sono comandate a parole (Rif. 3), si possono definire perfettamente gli obbiettivi e si possono fare valutazioni prescindendo totalmente dal comportamento. Oggi lo straordinario valore della conoscenza è appannato dallo straordinario valore dell'adattamento ambientale, in conflitto col primo. Eliminando tale conflitto riemerge pienamente il valore di entrambi. La didattica secondo il cervello (Rif. 11) Come avviene il processo di modifica del collegamento tra un neurone e gli altri neuroni? Ci sono motivi per pensare che questo processo avvenga in due fasi. Nella prima fase (incubazione) il neurone sviluppa molti collegamenti e si connette a tutti i neuroni che incontra. Durante l'incubazione, le regioni coinvolte dalle modifiche non sono usate, perché i collegamenti fatti a caso sono inaffidabili e pericolosi (diciamo allora che l'incubazione è invisibile, non producendo modifiche nel comportamento del soggetto). Nella seconda fase (stato nascente) vengono provati i nuovi collegamenti, eliminando quelli che, usati, producono sofferenza e rinforzando quelli che, usati, procurano piacere. Al termine di questa seconda fase la modifica entra in uso, per questo lo stato nascente è visibile, e talvolta spettacolare, producendo grosse modifiche comportamentali in poco tempo (ciò è possibile perché il materiale era già pronto, preparato dall'incubazione di quello stato nascente). Io non credo affatto che gli adulti di oggi, e in particolare le donne (in veste di mamme o in quella di insegnanti) siano disponibili a rinunciare al fatto di imporre il loro modo di comportarsi. Supponiamo, però, che avvenga questo miracolo (cioè supponiamo che gli uomini riescano, una volta tanto, a far passare il loro punto di vista, molto più orientato al cambiamento di quello delle donne). Una volta separato l'insegnamento di conoscenze dall'insegnamento di un modello comportamentale, si pone il problema di definire una nuova didattica (quella d'oggi, infatti, è tutta protesa ad insegnare un modo di comportarsi). Se accettiamo l'idea che s'insegnano informazioni e che queste informazioni vanno a modificare il collegamento tra i neuroni, la nuova didattica dovrebbe tener conto di come vengono variati i collegamenti tra neuroni. Il processo descritto sopra (Rif. 11), un tipico processo per tentativi ed errori, porta a questa regola fondamentale della didattica: si possono indicare le mete, non si puo' indicare la strada per raggiungerle. Ci sono due buoni motivi per rendere impensabile l'idea di poter indicare ad uno studente che comportamenti mettere in atto per arrivare ad una meta prefissata. Il primo motivo è che nessuna persona esterna puo' sapere quali sono esattamente i collegamenti attuali tra i neuroni di un altro cervello, perché ogni cervello ha collegamenti diversi. Quest'estrema variabilità individuale è mascherata dal fatto che le persone si mettono d'accordo, per potersi scambiare informazioni, e questo accordo nasconde le differenze. Ma non si nasce uguali, bensì lo si diventa. Mettersi d'accordo è l'obbiettivo finale dell'aprendimento di una disciplina, ed è chiaro che questo accordo non c'è prima, quando la materia stessa deve ancora essere appresa. Il secondo motivo per non insegnare un modo di arrivare alla meta è che i collegamenti tra neuroni non si possono variare su comando. In altre parole anche lo studente che sapesse come sono collegati attualmente i suoi neuroni, e come dovrebbero essere collegati alla fine, non potrebbe in ogni caso comandare il passaggio dal vecchio collegamento al nuovo. Illustrerò questa cosa con un esempio. Immaginiamo che i collegamenti tra i neuroni siano come i collegamenti tra le case sulla terra, che poi sono le strade. Il professore ha il compito di guidare il suo allievo ad una méta alla quale lui è già arrivato, nell'esempio in figura alla scuola. Un modo sbagliato di farlo è quello di suggerire all'allievo la strada che ha percorso lui stesso. Questo percorso, che pure è stato quello effettivamente seguito dal professore, non porta l'allievo alla méta voluta, perché questi proviene da un'altra parte e ha a disposizione strade diverse. Il modo giusto invece è un altro. Il professore comincia con una bella descrizione della méta, così se l'allievo passa da quelle parti può capire di essere arrivato a destinazione. Se poi l'allievo non arriva, allora il professore 'gli va incontro' indicandogli degli obbiettivi parziali convergenti verso l'obbiettivo finale. Così si spiegherebbe ad una persona la strada per arrivare in una località nuova, e così andrebbe impostato l'insegnamento. Il fatto che il collegamento giusto tra i neuroni non si ottenga per comando ma facendo dei collegamenti casuali e poi scegliendo tra di essi quelli riusciti, non è una scelta ma il solo modo disponibile per apportare variazioni al cervello (se è vero quanto detto al Rif. 11). Compito del professore è indicare l'obbiettivo con la massima precisione possibile e poi valutare se l'allievo lo ha conseguito o no. Lo studente annaspa a destra e a sinistra, in modo casuale e quindi in un modo piuttosto penoso, e se non è molto lontano puo' darsi che passi anche per la meta indicata. La valutazione (fatta dal professore, ma più spesso fatta dallo stesso allievo e quindi autovalutazione) deve indicare il momento in cui egli imbrocca la strada giusta. Dopo di che non resta che fissare quella strada (fisicamente quei collegamenti tra i neuroni) attraverso lo sviluppo di piacere (piacere per un buon voto o piacere per un aumento d'autostima). Una volta scoperta l'ipotesi buona, bisogna anche cancellare le altre ipotesi, quelle meno buone o del tutto sbagliate, e non si puo' farlo altrimenti che soffrendoci sopra. Il problema della selettività nasce quando la frequenza delle lezioni è il parametro principale per giudicare se c'è stato apprendimento o no. Abbiamo visto che questo metro di giudizio è valido per la scuola professionale (=>), ma abbiamo anche visto che la scuola-scuola può misurare gli apprendimenti (=>) e che deve farlo senza mettere in conto il modo in cui lo studente li ha conseguiti, se non vuol danneggiare l'adattamento all'ambiente (=>). Come logica conseguenza ho proposto una secondaria senza frequenza obbligatoria. Un tale scuola non ha più il problema della selettività, perché lo studente non può né venire escluso né venire ammesso a frequentare un corso. Semplicemente lo frequenta se gli sembra utile frequentarlo (e i risultati gli diranno ben presto se ha scelto bene o male). Oggi, per consentire ad uno studente di continuare a frequentare anche in presenza di modesti apprendimenti, si deve chiudere un occhio (o entrambi) sull'entità del suo apprendimento. Domani, con lo studente che può frequentare quello che vuole, si può dire pane al pane e vino al vino, dando alla sua preparazione il valore che è risultato dalle misurazioni. Se gli studenti escono dalla scuola con un voto che dice la loro reale preparazione, la società imparerà presto a premiare chi ha lavorato e a punire chi non lo ha fatto. Su questo punto la proposta di Berlinguer è buona, perché lascia ampia libertà di frequenza allo studente. Non definendo in alcun modo cos'è l'apprendimento e come si misura, però, non solo non migliora la situazione ma la peggiora. Non si capisce come si possa dare un voto a uno studente, e nel dubbio (tenendo anche conto che la paga dell'insegnante verrà in qualche modo collegata alle valutazioni) si continuerà a giudicare buone le preparazioni che non lo sono. Per risolvere il problema dell'abbandono scolastico occorre prima mettere a punto un sistema di valutazione attendibile. (Rif. 12) Possono comunicare a parole, comprendendosi pienamente, solo due cervelli che siano identici tra loro, a parte la differenza oggetto della comunicazione. Questa è una mia conclusione, troppo lunga da dimostrare qui. L'esperienza, però, suggerisce che deve essere vera, perché due persone molto simili si intendono e due persone molto diverse no. Un altro aspetto che vorrei evidenziare è questo: secondo Berlinguer (e secondo molti altri) i professori insegnano male perché sono poco preparati. E' chiaro che una maggiore preparazione dell'insegnante su come viene svolta una professione sia importante, in omaggio al ben noto principio che non si può insegnare ciò che non si conosce. Ma questo problema interessa solo l'ultimo anno, quello che io non considero più scuola in senso stretto (sviluppo di cortecce associative) ma preparazione al lavoro (sviluppo di cortecce secondarie, allargamento in orizzontale delle conoscenze). Per gli anni precedenti, per la scuola insomma, tale diagnosi è del tutto sbagliata. Essa, infatti, presuppone che la trasmissione d'informazione sia tanto maggiore quanto maggiore è il dislivello delle conoscenze tra insegnante ed allievo. Un dislivello ci deve essere, e c'è già oggi. Aumentarlo significa acuire il vero problema dell'insegnamento: quello di far comunicare tra loro due cervelli che non potrebbero comunicare, senza opportuni correttivi, perché troppo diversi tra loro (Rif. 12). In altre parole il problema dell'insegnante non è tanto saperne di più ma trovare una strada per far capire quello che conosce. Aumentando la preparazione dell'insegnante si peggiora la situazione. Diamo pure la laurea alle maestre d'asilo, la loro immagine ci guadagna parecchio e potranno evitare qualche errore, poi però voglio vedere come ci comunicano queste evolute maestre con i bimbi piccoli. In questa proposta, c'è poi un grave errore d'impostazione: si avvalla l'idea che siano gli insegnanti a dover cercare lo studente, e non viceversa. Solo cosi' si puo' spiegare come mai per far apprendere di piu' lo studente non si consiglia maggior studio allo stesso ma... un maggior studio all'insegnante. Il punto peggiore della proposta di Berlinguer, però, è quello relativo alla riforma dei cicli. Se lo sviluppo del cervello avviene a scatti (Rif. 12), è chiaro che il terzo biennio della scuola primaria non è un nuovo ciclo (anche volendo che lo sia, non ci sarebbe il tempo per ripartire da zero, e tale 'ripartenza' da zero è necessaria per costruire un sistema a più alto livello di quello precedente). Il secondo ciclo di istruzione è allora il primo triennio della secondaria (che, non a caso, diventa obbligatorio). Tutto bene, se non fosse che restano solo tre anni per la scuola secondaria. In questi tre anni è prevista una solida preparazione professionale, estesa anche ai licei ("Anche il liceo classico, accanto alla principale finalizzazione della propedeucità agli studi ulteriori, potrebbe assumere una connotazione anche professionalizzante"). L'anno, o l'anno e mezzo, che resta per costruire un più alto livello culturale non è certo sufficiente, ed è facile prevedere che a quest'obbiettivo non si porrà mano per niente. Il risultato, a dire il vero poco entusiasmante, è che ogni studente diventerà quello che oggi si chiama operaio specializzato (qualifica rilasciata oggi dai professionali, dopo tre anni di studi orientati all'acquisizione di una professionalità). Negli altri paesi, ci assicura Berlinguer, la formazione professionale è seguita da oltre il 50%, mentre da noi solo poco più del 23% si rivolge ad essa. Gli italiani, è vero, amano avere una formazione culturale elevata, e non a caso quando vanno a lavorare fuori ci fanno sempre una bella figura, a dispetto (ma io penso per merito) della 'troppa' teoria appresa. Il Ministro vuole allineare l'Italia, peccato che sia un allineamento verso il basso. Consiglio vivamente al Ministro di chiedere ai docenti che insegnano nei professionali (e dico docenti, non presidi) quanto apprendono gli studenti. Io insegno al professionale e non posso usare la valutazione descritta sopra, quella di contare le parole insegnate che gli studenti hanno realmente compreso, perché il risultato viene regolarmente prossimo allo zero per tutti gli alunni, fatti salvi alcuni casi personali. Parlando coi colleghi, mi pare di capire che loro non ottengano di più. La mia opinione è che al professionale si apprende a lavorare, non lo nego, ma non si apprende nulla sul piano delle cortecce associative. Se tali cortecce sono superflue, ma non credo visto che caratterizzano l'uomo e il suo sviluppo, allora va tutto bene. Altrimenti va male, per gli studenti e per la società, molto male (8). L'autonomia dei singoli istituti sul piano didattico è un concetto in aperto e palese contrasto con la scuola. Una disciplina scolastica insegna una lingua (Rif. 3 e Rif. 7), il cui valore è direttamente proporzionale alla sua diffusione. Apprendere bene una lingua locale è molto meno utile che apprendere male la lingua usata da tutti coloro che praticano quella disciplina, in tutto il mondo. Ogni avvicinamento alla realtà locale, purtroppo, è anche un allontanamento dal resto del mondo. A mio avviso con l'autonomia didattica ci si guadagana poco e ci si rimette tanto. L'autonomia didattica, invece, si addice perfettamente ad una scuola di avviamento al lavoro. Se il Ministro vuole andare in questa direzione, però, non dovrebbe poi dire che vuole elevare la preparazione media degli italiani. L'autonomia finanziaria porterebbe un vantaggio, se fosse vero che la scuola odierna va male perché gli istituti, e di conseguenza anche gli insegnanti, non sono adeguatamente motivati. Io penso che i mali stiano altrove, precisamente dove indicato nel capitolo precedente, per cui non vedo vantaggi nel fatto che ogni istituto curi direttamente i propri interessi. Semmai ci vedo il pericolo che si badi più all'immagine che alla sostanza. L'esempio delle cliniche private è eloquente. Solo un esperto può apprezzare che esse sono scarse come sostanza, mentre tutti vedono che sono ottime come arredamento. I direttori, giustamente dal loro punto di vista, si orientano verso le strutture che portano consenso. Chi vuol capire, capisca.
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