Brevi note anche autobiografiche di un maestro,
ex informatico pentito

di Gianni Salza

Febbraio '94: "...usufruirà del trattamento di cassa integrazione e frequenterà un corso..."

Febbraio '94: "...se lo scordi, un perito che dà la maturità magistrale da privatista. E il latino?"

Marzo '95: "Spett. Azienda, comunico le mie dimissioni..."

Settembre '95: "...La invitiamo a presentarsi per la scelta della sede provvisoria di servizio per l'a.s. 1995/96..."

Una volta, da ragazzo, d'estate, in cantiere, il padrone mi dice 'Alza quel carrello' . 'Sei pazzo' gli faccio. 'Alza!' grida lui. Due operai si ammaccano. Molte altre volte mi è stato chiesto un lavoro che non volevo o non ero in grado di fare. Rifiutarmi non mi giovato per la carriera. Ma ho potuto farlo. A scuola i bambini della prima in palestra li dovevo portare anche se non ero capace e urlavano con tutta la loro voce correndo e arrampicandosi dappertutto. A chi dire no? A scuola non hai un capo che ti dà il lavoro.

Quando sono arrivato in quell'ufficio, 10 anni fa, ognuno aveva le sue competenze: i personal, i sistemi per le banche, lo Unix... Potevi andare a chiedere all'esperto. Ma anche tu dovevi essere un esperto. E poi c'erano gli altri uffici, i progettisti, i commerciali... Per risolvere i problemi tecnici segnalati da filiali e consociate, dovevi imparare tante di quelle sigle, di quei nomi, di quelle funzioni... capire il lavoro di un mucchio di altre persone... A scuola quasi quasi potresti non imparare nulla di tutto quello che avviene fuori dalla tua classe. Come è organizzato il MinPIstruz lo devi giusto studiare per il concorso, poi puoi dimenticarlo. Una delle più imponenti organizzazioni del Paese può funzionare senza che i suoi membri sappiano come.

In ufficio dovevi imparare e dimostrare che imparavi. Ogni volta c'era un compito nuovo, ogni volta impegnativo. In uffici come quello molti si impegnano perché gli piace accettare le sfide. In una organizzazione interdipendente, che funziona solo se ognuno fa' la sua parte, uno misura, dall'apprezzamento dei colleghi, se il suo lavoro è ben fatto. A scuola puoi essere un fannullone o uno stacanovista, ma il giudizio degli altri conta come quello dei vicini di casa: nulla, perché il loro lavoro non dipende dal tuo.

In una organizzazione privata sei abituato a misurarti con obiettivi esterni. La trattativa con la banca, la soddisfazione di un cliente, la riuscita di una installazione. Il risultato è oggettivo. A scuola non c'è nulla di oggettivo, in apparenza. Un inetto potrebbe essere pienamente soddisfatto, un genio della didattica amareggiato dai risultati. Esistono degli obiettivi?

Fin qui la scuola sembrerebbe rimetterci, nel confronto. Allora perché cambiare?

In una organizzazione destinata a produrre profitto, gli obiettivi sono esterni al tuo lavoro. A me piaceva lavorare con i computer, ma cosa mi importava degli obiettivi dell'azienda, dei budget, delle trattative... Facevo funzionare un programma perché un'azienda potesse modificare una procedura amministrativa, perché potesse fare a meno di un'impiegato, perché potesse tenere sotto controllo una lavorazione... Cosa aveva a che fare con me?

A scuola il lavoro coincide con i suoi obiettivi. Per me questa è stata una motivazione sufficiente per sceglierla. Ma lo è per chiunque? Attrae, la scuola, chi ha voglia di scommettere, di cimentarsi in compiti difficili?
Perché la scuola non vinca solo sul piano ideale occorre che veramente inizi a valorizzare le competenze.