Paradigmi
ovvero, quando il docente è il network

di Michele Daniele

Prologo

"Non penso mai al futuro, arriva sempre così presto". Così si esprimeva Albert Einstein in un'intervista del 1930. L'aforisma mi è venuto in mente a proposito del dibattito in corso sul tentativo di ridefinire i paradigmi che sottendono il "fare scuola". Comunque annoiato dalla controversia tra coloro che difendono strenuamente il paradigma storico basato sul dialogo verbale docente-studente e coloro che tentano nuove strategie centrate anche sull'uso degli strumenti messi a disposizione dalla attuale tecnologia.

Ovviamente, il dibattito non è nuovo e lo si può far risalire alla notte dei tempi. Ma riaffiora prepotentemente ogni qualvolta la tecnologia propone strumenti di portata epocale: l'invenzione della scrittura prima, quella della stampa poi e ... Internet ora.

E poichè molti dei difensori del vecchio paradigma invocano la tradizione platonica, la maieutica e facezie simili, andiamoci alla notte dei tempi, per rileggere un celebre passo del Fedro di Platone, a proposito del mito dell'invenzione della scrittura. Si narra del dio Teti, inventore della scrittura, che va a presentare la sua invenzione a Thamus, re degli Egizi.

"Questa invenzione, o Re", disse Teti, "renderà gli Egiziani più saggi e migliorerà la loro memoria; per essa è un elisir di speranza che io ho scoperto". Ma Thamus replicò: "Molto ingegnoso Teti, un uomo ha la capacità di produrre arti, ma per giudicare della loro utilità o dannosità ci vuole qualcun altro; e tu che sei il padre delle lettere, puoi essere indotto ad attribuire loro un potere opposto a quello che realmente posseggono. Questa invenzione produrrà smemoratezza nelle menti di coloro che impareranno ad usarla, poichè essi non faranno pratica con la loro memoria. La loro fede nella scrittura, prodotta da caratteri esterni, che non sono parte di loro stessi, scoraggerà l'uso della memoria entro di essi. Tu hai inventato un elisir non della memoria ma del ricordare; e tu offri ai tuoi allievi l'apparenza della speranza e non la vera speranza, poichè essi leggeranno molte cose senza istruzione e sembrerà quindi che sappiano molte cose, mentre sono per lo più ignoranti e, difficile da accettare, non saranno saggi ma lo sembreranno solo."

E' sconvolgente notare come molte delle giaculatorie contro l'uso della tecnologia nell'insegnamento si fondino essenzialmente sulle stesse remore manifestate da Thamus nei confronti dell'invenzione della scrittura. E ciò è molto più radicato di quanto non si creda. Stentate a crederlo? Pensate ai docenti che impediscono l'uso di qualsiasi strumento "esterno" durante lo svolgimento dei "compiti in classe". Niente libri, niente manuali e, per carità, niente calcolatrici. Come altro interpretare questa fobia verso strumenti che "non sono parte di loro stessi"? Coloro che li usano "sono per lo più ignoranti" e "non saranno saggi ma lo sembreranno solo".

Tutti siamo convinti della bontà del modello pedagogico fondato sulla maieutica e sul rapporto esoterico tra Maestro e discepolo. Ma siamo tutti altrettanto convinti della attuabilità di questo modello nelle nostre Scuole, nei nostri Istituti di Formazione, nelle nostre Università, nelle nostre Aziende?

L'implementazione storica di tale modello risulta, in verità, piuttosto involgarita: un'attività di docenza in aula da parte del "maestro" affiancata da un'attività di auto-istruzione da parte dei "discepoli" (lo studio sui libri).

Questi compromessi storici sono ormai così connaturati al nostro modo di pensare che molti non riescono ad immaginare un mondo senza aule e libri. Tantissima gente passa la propria vita ad apprendere in laboratori di ricerca o direttamente sul lavoro. E' sorprendente come questa stessa gente ritenga che l'unico modo per apprendere sia quello di recarsi in aula a sentire qualcuno che parla, con il corollario implicito dello studio sui sacri testi.

Ciò di cui vogliamo occuparci in questa serie di articoli (di cui il presente rappresenta il prologo) non è quello di condannare il vecchio e di esaltare il nuovo, o viceversa. Bensì vorremmo discutere di come unire il meglio delle caratteristiche del paradigma storico alle enormi potenzialità insite nelle nuove tecnologie.

Perchè una cosa è certa. E' la tecnologia a provocare i cambiamenti, non certo gli uomini. Da parte mia, credo che abbia contribuito molto di più alla emancipazione femminile la lavatrice di tutte le crociate ideologiche. Ciò non significa affatto che la tecnologia abbia risolto più problemi di quanti ne abbia creati. Ma questa è un'altra storia.

La scrittura, la stampa, il treno, il telegrafo, la radio, la televisione, Internet, al loro apparire vengono sempre salutati come degli "elisir di speranza". Dopodichè vengono metabolizzati ed il ruolo di "elisir di speranza" passa a qualche altra diavoleria. Ciò non rende più felice l'umanità (ma neanche più infelice). I problemi restano o magari aumentano. Ma per un breve attimo, la nuova tecnologia ha fatto sognare, ha suscitato desideri, ha creato speranza. Perchè il compito della tecnologia non è quello di risolvere problemi o soddisfare bisogni ma di far sognare.

E ciò ci conduce al primo dei nostri paradigmi:

1. Non bisogni ma desideri, non motivazioni ma stimoli.

Nessuno ha "bisogno" di imparare. Perchè il bisogno di imparare non è un bisogno primario come il mangiare o il dormire. E' un bisogno che appartiene ad una sfera più elevata. O meglio, non è un bisogno: è - o dovrebbe essere - un desiderio. I sogni son desideri... recita una celebre canzoncina tratta da un film-fiaba raggiungendo quella verità profonda che solo le fiabe (e le canzoncine) sanno raggiungere.

Ed il mondo è governato dai desideri non dai bisogni. Anche in senso strettamente fisiologico: tutti noi esistiamo perchè qualcuno, anche per un solo momento, ha desiderato. Nessuno ha bisogno di imparare, dicevamo: che bisogno c'è se il desiderio è quello di emulare Schillaci o Ambra? Così come nessuno ha bisogno di una macchina. Se mai la si desidera. L'hanno capito bene i pubblicitari che non pubblicizzano prodotti ma sogni, cioè desideri. I sogni son desideri...

Che la Scuola, in particolar modo la Secondaria, non sia adeguata alla Società è ormai un luogo comune. Ma lo è in modo ancora più profondo di quanto si possa sospettare. La questione non è se introdurre o meno nella Scuola pezzi di Società o di "mondo del lavoro" nè tanto meno quella di far lavorare i cosidetti "fancazzisti" (qualcuno conosce qualche organizzazione in cui tale esimia categoria non sia degnamente rappresentata?). Tali misure possono, al più, migliorare l'efficienza del modello, non certo l'efficacia. In altri termini, meno "aulici": se un modello di fondo è inadeguato, è meglio che funzioni bene o non è meglio, paradossalmente, che funzioni il peggio possibile?

Le scuole esistenti (non si distingue ora tra pubblico o privato, dell'obbligo o non dell'obbligo, statale o aziendale) sono tutte improntate dalla cultura tradizionale dei bisogni e delle risorse scarse. La cultura emergente delle risorse abbondanti e delle possibilità vi è del tutto estranea.

Se manca il cibo, la vita è molto semplice: basta procurarselo per essere soddisfatti. Ma se ce n'è in abbondanza, la vita inizia a complicarsi terribilmente: non basta ingurgitare un cibo qualsiasi per essere soddisfatti. Occorre che vi sia desiderio di un particolare cibo, non un generico bisogno di mangiare.

Se la risorsa istruzione è scarsa (come lo è stata sino a tutti gli anni '60), è molto semplice fare formazione: per l'allievo, basta accedervi per essere soddisfatti; per il docente, basta un modello qualsiasi per soddisfarlo. Ma se l'offerta di istruzione è sovrabbondante (scuole statali, private, regionali, comunali, aziendali, televisione, videocassette, giornali, corsi multimediali, ...) non basta un modello qualsiasi per soddisfare gli allievi. Anche qui, occorre che vi sia desiderio perchè nessuno ha bisogno di apprendere.

La nostra scuola anche nei casi migliori è attrezzata, tutt'al più, per soddisfare bisogni che nessuno ha più. Meno che mai è attrezzata per suscitare desideri. Anzi, sembra una macchina perfetta per annichilire quelli che qualche (incauto) allievo manifesta. Un retaggio fondato sulla cultura delle risorse scarse fa sì che il focus cruciale non sia un'entità concreta quale la persona singola ma un'entità astratta quale la classe, fissa e fedele nei secoli, come l'Arma.

Dopodichè, all'interno di siffatte strutture i docenti migliori si affannano a cercare di fornire motivazioni: impresa ardua. Non ci riusciamo con i nostri figli perchè dovremmo riuscirci con i nostri allievi?

Da questo punto di vista, anche la attuale cultura aziendale mostra la corda, fondata com'è sull'analisi dei bisogni e sul loro soddisfacimento mentre deve fronteggiare e gestire cambiamenti che nessuno vuole (ricordate? è la tecnologia che provoca i cambiamenti, non le persone) ma che si susseguono a velocità parossistiche. I più attenti si stanno cimentando nella definizione di un modello fondato sulla pura acquisizione di possibilità di apprendimento e di crescita da parte delle persone. Tutto ciò che l'organizzazione può fare è fornirti degli stimoli, solleticare il tuo desiderio di crescita e metterti a disposizione alcuni strumenti: il resto è opera tua.

Non bisogni ma desideri. Non motivazioni ma stimoli. Sarà un caso, ma desiderio e stimolo sono tipici termini della sfera sessuale. Trovo quindi del tutto naturale che se gli allievi hanno Internet a disposizione, si precipitino a visitare i siti porno. Il compito della tecnologia non è quello di soddisfare bisogni ma di suscitare desideri, dicevamo.

E, come nella migliore tradizione del feuilleton, il resto alle prossime puntate. E l'assassino verrà rivelato nell'ultima pagina...