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di Gianni Salza | |||
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Scuola e 'senso comune' Tornare a scuola in veste di 'allievo maestro' è un pò 'tornare sui banchi', rivivendo le emozioni di allora. Soprattutto mi è impossibile rimanere estraneo alle emozioni dei bambini. Ovviamente questo condiziona anche il modo in cui osservo il rapporto tra i bambini ed i maestri. Quindi le considerazioni che seguono sono di parte: in esse vi è il punto di vista del bambino o meglio - onestamente - l'emotività associata ai ricordi del bambino che sono stato io. Questa esperienza mi ha aiutato a rendermi conto che coltivavo il mito di una scuola 'ideale', immune dai pregiudizi del suo tempo. Avevo sviluppato questa visione forse proprio per difendermi dal ricordo di una esperienza scolastica travagliata, di un rapporto con gli insegnanti eternamente difficile. La scuola ovviamente è interna al suo tempo, ed è l'istituzione che più di ogni altra trasmette la visione del mondo di una generazione alla successiva. Ma la scuola non trasmette solo una visione del mondo esplicita; trasmette anche e soprattutto attraverso l'atteggiamento consapevole o meno degli operatori il 'senso comune'. Questo non è necessariamente coerente con i modelli pedagogici dichiarati; opera invece su di essi deformandoli. Questa mia limitatissima esperienza di vita scolastica mi fornisce lo stimolo ad indagare sul senso comune, che tutti apprendiamo e riproduciamo nel corso della nostra vita. L'intento di queste note è quindi quello di riflettere su alcuni pregiudizi particolarmente forti nel 'senso comune', che secondo me possono maggiormente influenzare gli operatori della scuola, determinandone in parte l'atteggiamento. Parlerò dunque degli adulti, sapendo che quanto dico vale per la generalità degli adulti; quello che può variare è il diverso grado di consapevolezza che si raggiunge. Si tratta dunque di un tentativo di ragionare sul ruolo sociale dell'insegnante in modo non idealistico, un tentativo che va nella direzione di costruire una nuova consapevolezza, di cui mi pare ci sia un estremo bisogno. | |||
![]() Nella nostra società vi sono una serie di soggetti deboli: bambini e fanciulli, anziani, donne etc... La loro debolezza deriva dalla loro collocazione marginale rispetto al ciclo produttivo. Nei confronti di questi soggetti si esercita una violenza continua, essenzialmente per due motivi. Il primo consiste nella tendenza, con lontane radici storiche, alla 'direzione' dei soggetti deboli: per il loro bene, vanno guidati, corretti, educati. Sono soggetti che, da soli, non sono capaci di comprendere le cose, sono meno intelligenti degli uomini. Ricordiamo che sulla base di questa cultura direttiva si è retta l'Inquisizione, che ha usato la tortura come metodo per la redenzione delle anime, e si è giustificato il colonialismo come opera di civilizzazione dei selvaggi. L'atteggiamento nei confronti dei bambini in ogni epoca si può far derivare, mutatis mutandis, da queste buone intenzioni. Il secondo consiste in questo: il pensiero moderno è stato capace di demolire i miti del passato, su cui pure si basava il senso di identità dei singoli e quindi ogni forma di convivenza sociale, ma non è stato certo ancora capace di fornire una equivalente senso dell'identità individuale su basi più solide. Ciò porta ad una fragilità dell'Io che spinge "brandelli" di individui a definirsi per differenza dall'Altro oppure in rapporto a degli oggetti (tipicamente secondo la categoria del possesso; cfr. tra gli altri J.O'Connor che in Teorie della crisi arriva addirittura ad affermare che la nostra società non produce più personalità adulte, oppure C.Preve con la sua trattazione del nichilismo nelle opere recenti). Ecco l'esplodere dei regionalismi, dei razzismi. Ed ecco crescere la violenza nei confronti dei diversi di sempre: donne e bambini. Le cifre (negli U.S.A. centomila donne violentate ogni anno, maltrattamento dei bambini in forte aumento, anche e soprattutto nella middle-class) non danno l'idea della sconvolgente quantità di sofferenza che celano. Questa violenza è dunque, in entrambe le sue accezioni, una violenza di derivazione culturale. La prima delle due ne costituisce la giustificazione, la seconda ne è la causa scatenante. A parte il maltrattamento vero e proprio, occorre notare il fatto che i bambini spesso non vengono trattati con la stessa qualità di rispetto che normalmente si tributa - per intendersi - ai maschi adulti, specie se fisicamente vigorosi. Questa mancanza di rispetto verso i bambini gli adulti non la percepiscono come tale; ritengono logico, naturale, normale alzare la voce col bambino per farsi ascoltare, parlare di lui davanti a lui o, peggio, davanti ai suoi coetanei, porlo in imbarazzo con domande alle quali si sa che non potrà rispondere. Gli adulti sono parzialmente inconsapevoli del significato delle loro azioni. Da bambini si introietta il ruolo dei genitori per superare il senso di colpa per l'odio che si prova nei loro confronti, che viene così rimosso. Io credo che da adulti si riesca a rispettare veramente i bambini solo se si è riusciti ad ammettere quell'odio per arrivare a comprenderlo e 'perdonare' in modo consapevole i propri genitori e sé stessi. | |||
![]() Nel senso comune, a conferma di tutta la retorica che apparentemente la idealizza, (giacchè spesso si idealizza ciò che non si comprende), l'infanzia è considerata una malattia. "Quand'è che cresci?" "Non fare il bambino!". Gli adulti sono chiamati al capezzale di questi sfortunati, a prestare la loro opera pietosa. Il passaggio dall'infanzia alla fanciullezza, come ogni altro passaggio, ha conservato sino ad oggi lo stesso senso che già era proprio dei riti iniziatici dell'età tribale: una morte ed una rinascita. Vengono, cioè, sottolineati i caratteri di discontinuità di questi passaggi, e non la continuità dell'individuo che passa attraverso queste fasi. Questo permette di dar ragione del cambiamento, in quanto lo rende imputabile a rassicuranti ragioni biologiche, e solleva gli adulti da un cumulo notevole di responsabilità. Ristabilire le basi culturali, relazionali del cambiamento sarebbe un buon inizio. È certo un fardello più pesante da sopportare per chi di tale cambiamento dovrebbe farsi agente. | |||
![]() Un altro mito del senso comune è quello per cui il sapere è una somma di conoscenze (cfr. T.S.Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Questo è un mito particolarmente radicato nella scuola, poiché ne legittima l'ordinamento e l'autorità, in quanto - se la conoscenza è progressiva e cumulativa - l'allievo non potrà mai raggiungere il maestro. Questo modello viene introiettato ancora oggi dagli studenti, al punto di far affermare ad una ragazza di IV magistrale "...apprendiamo quello che ci insegnano...". Questo mito sta invece scomparendo nella società: qui il suo substrato materiale, la famiglia patriarcale (con il rispetto dovuto degli anziani), è stato stracciato dallo sviluppo capitalistico per far posto alla ben più funzionale famiglia nucleare (e questo potrebbe portare ad una interessante domanda: chi prende il ruolo dell'anziano ed assume verso il bambino il ruolo di trasmissione del sapere comune? la TV?). | |||
![]() La nostra è una cultura rassegnata. Il senso comune vuole i bambini nettamente differenziati per 'dotazione' di intelligenza alla nascita. Non sembra ci sia posto per il cambiamento. Certi modi di esprimersi riguardo ai bambini (quella non ci può arrivare, questo fa quello che può...) sono qualcosa di più profondo che non espressioni comuni; denunciano invece la mancanza di una dimensione di speranza, di ottimismo, di fiducia nella possibilità di cambiare, di superare ostacoli. Come ho già detto, questo modo di vedere ha una valenza 'liberatoria' per gli adulti, che possono così sentirsi deresponsabilizzati. Questa cultura traspare anche dal modo in cui l'istituzione scolastica talora si comporta per quanto riguarda i bambini 'problema': si lasciano degenerare situazioni largamente recuperabili, ricorrendo poi all'appoggio quando il bambino è diventato un problema di gestione per la scuola. Quando non se ne può fare a meno si ricorre ad un responsabile (è colpa della famiglia...). La mancanza di speranza viene fatta introiettare ai bambini molto presto, con la scarsa capacità di sopportare i loro errori. L'errore infatti, nel senso comune, ha una connotazione negativa. "Sbagli perché non stai attento!" o "Te l'ho ripetuto un mucchio di volte!" sono espressioni che comunemente gli adulti utilizzano. Noi sappiamo che questo è un pregiudizio e la cultura scientifica ci conferma che, al contrario, l'errore, con il suo riconoscimento, è la base di ogni conoscenza. La nostra conoscenza aumenta solo quando ci rendiamo conto che una nostra teoria è sbagliata, non quando viene semplicemente confermata (cfr. R.Havemann Dialettica senza dogma). Quindi gli errori sono una ricchezza, perché ci consentono di capire dove il nostro modello della realtà fallisce. Una cultura priva di questa consapevolezza inevitabilmente confonde la formazione con l'addestramento. Capita così che i bambini vengano sollecitati ad avere fiducia in se stessi e contemporaneamente si stigmatizzino i loro errori. Questo atteggiamento, che premia chi non sbaglia responsabilizzandolo dei suoi successi, e castiga chi sbaglia responsabilizzandolo degli insuccessi, lascia poche speranze al bambino in difficoltà. Trovandosi nella necessità di dare un senso a quello che gli capita, facilmente risolve il conflitto convincendosi di essere inadeguato al compito. Quello che avrebbe dovuto essere il punto di partenza può così diventare il punto di arresto. | |||
![]() Recentemente, ho assistito ad un seminario di aggiornamento per insegnanti sul tema del razzismo, ispirato al bellissimo libro di S.J.Gould "Intelligenza e pregiudizio". Il libro parla essenzialmente della falsa coscienza che fa da presupposto alla formulazione di teorie anche chiaramente antiscientifiche da parte di scienziati in tutta buona fede. La tesi di Gould, in estrema sintesi, è quella che gli scienziati sfornano teorie che non possono essere immuni dai loro pregiudizi. La cosa curiosa fu che la relatrice, al termine della relazione, enumerando i fattori che rendono difficile nella scuola trattare il problema razzismo da un punto di vista scientifico, non accennò neppure ai pregiudizi razziali degli insegnanti. Intendo con questo dimostrare due cose. La prima è che il mito della scuola 'fuori dal suo tempo', non è solo mio. La seconda cosa è che qualsiasi discorso sulla scuola deve avere al centro non solo una teoria di come il bambino apprende, il che è già molto, ma anche una teoria di cosa l'insegnante involontariamente trasmette. Nessuno può estraniarsi dal suo tempo, ma arrivare alla consapevolezza della determinatezza storica della propria cultura è il presupposto fondamentale per il suo superamento e quindi per ogni forma di progresso sociale. È chiaro che non si può accollare alla scuola - che è solo uno dei momenti della vita sociale del bambino - la responsabilità integrale di che cosa il bambino diventerà. È altrettanto evidente che la scuola deve rivendicare integralmente la parte di responsabilità che le compete, affinché sia vero che "La scuola elementare, nell'ambito dell'istruzione obbligatoria, concorre alla formazione dell'uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali, sociali e culturali. Essa si propone lo sviluppo della personalità del fanciullo promuovendone la prima alfabetizzazione culturale...". | |||
![]() Due anni fa nella relazione finale per il tirocinio (cfr. appendice A) parlavo della tendenza degli adulti ad essere direttivi con i bambini, a trattarli con rispetto minore di quello che si tributa agli adulti, a considerarli 'responsabili' della non corrispondenza alle loro aspettative. Sostenevo che questi atteggiamenti erano dovuti ad un 'senso comune' che vedeva l'infanzia come una malattia. Oggi non rinnego quanto scritto allora ma, in base all'esperienza di questo anno, credo che in parte questi atteggiamenti siano reazioni alle molte situazioni ansiogene nei rapporti tra adulti e bambini. Per essere concreti, penso che gli urli con cui quest'anno ho cercato di ottenere il silenzio esprimano la paura di essere sopraffatto dal rumore dei bambini e non l'intima convinzione della necessità di dirigerli come un branco. Ho potuto verificare su me stesso come il cammino sia disseminato di queste trappole e quanto spesso ci si caschi. Ad esempio ho trovato estremamente difficile non proiettare sugli allievi il senso di frustrazione dovuto ad una attività non portata a compimento nei modi o nei tempi che avevo immaginato. Il paradosso di queste situazioni sta nel fatto che, ripensandoci a posteriori, ci si accorge di aver 'bruciato', a causa della fretta di saltare alle conclusioni, proprio gli spunti di interesse dei bambini che avrebbero consentito di svolgere l'attività nel modo migliore. |