La città e i poeti
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Le possibilità di ricerca, di confronti incrociati e
di elaborazione dati, che gli strumenti informatici offrono allo studioso ed al
ricercatore, per la velocità delle operazioni e per lo snellimento delle
procedure che mettono a disposizione risultano essere impagabili ausili per
ogni tipo di elaborazione, se ovviamente sorrette da doviziosa, intelligente ed
esauriente banca-dati di riferimento da parte del supporto informatico e di un
bagaglio di indispensabili conoscenze pre-acquisite da parte dell'operatore.
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Il
seguente saggio vuole essere un esempio probante di quanto sopra premesso,
l'autore essendosi avvalso per la sua composizione (realizzata in tempi
incomparabilmente più brevi rispetto a quelli che avrebbe richiesto una normale
ricerca condotta esclusivamente in biblioteca) di una delle raccolte di testi
della letteratura italiana su CD rom recentemente messe in commercio.
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Partiamo da una considerazione non certo originale, ma sicuramente
ineludibile e fondamentale, e dando per scontato tutto quanto c'è e c'è stato
di elaborazione teorica e di dibattito
dietro la definizione feticistica della merce e, con essa, della città.
A partire dall'esposizione di Londra
del 1851, la feticizzazione dell'oggetto operata dalla merce diventa evidente
soprattutto nelle Esposizioni Universali, che acutamente W. Benjamin (come
ricordato Giorgio Agamben in un memorabile saggio del 1972 inteso come "Contributo allo studio delle origini della
poesia moderna") definisce "luoghi di pellegrinaggio al
feticcio-merce".
Nell'Esposizione Universale si celebra per
la prima volta l'epifania dell'inafferrabile, la trasfigurazione della merce in
"oggetto d'incantesimo". Ora, se ciò, grazie soprattutto a
Baudelaire, saggista d'eccezione dell'Esposizione parigina del 1855, si poté
trasformare anche in una revisione della concezione stessa dell'opera d'arte
(argomento interessantissimo ed ovviamente anche contestabile, ma che non
attiene a questa sede), mette conto qui invece rilevare -con Agamben- come già
la costruzione della tour Eiffel, in occasione dell'Esposizione Universale del
1889, abbia contribuito a
"trasformare la città intera in
una merce consumabile con un semplice colpo d'occhio. La merce più preziosa in
mostra nell'Esposizione del 1889 era la città stessa". Cominciava il
processo della trasformazione della città in merce!
Ed
i poeti?
Potremmo dire
parafrasando Neuro Bonifazi (su cui torneremo citando Campana) che
quell'ossessione nuova della città europea che, fin dall'inizio della
rivoluzione industriale dell' Ottocento, aveva catturato i poeti e gli
scrittori di tutto il mondo, e che è
possibile rintracciare già nella poesia simbolista europea, da Rimbaud (Ouvriers
… La città, con i suoi fumi ed i suoi
dei mestieri, ecc.; I ponti:
Un bizzarro disegno di ponti ecc.) a Verhaeren (per tanti versi simile a
Campana… specie nelle sue "Città
tentacolari", e in particolare nella poesia "La folla"), difficilmente è rinvenibile con la stessa
intensità e consapevolezza nella poesia italiana contemporanea, almeno fino a
Dino Campana, che ne fa, comunque, "una situazione personale e italiana,
trasportandola nelle sue città del passato e del mistero e ordinandola e
superandola nel suo stile".
I poeti cittadini per eccellenza sono, in
Italia, nel secondo Ottocento, gli Scapigliati. Ed infatti in essi si coglie un
primo, interessante rapporto con la città. Ma di quale tipo? Cominciamo
con Emilio Praga.
Con Il corso all'alba, il
poeta si pone di fronte alla città come di fronte alla mappa di una specie di
"monopoli" disegnato sui luoghi tipici della nuova realtà urbana
caratteristica della seconda metà dell'Ottocento. L'approccio che ne risulta è
fortemente denotativo, ma al tempo stesso astratto e, in conclusione,
moralistico (anche se non manca una impressionante denuncia ecologista avant la lettre!).
Troviamo il Corso, coi filari dei
"platani" e la teoria dei "tetti" in fuga, dove, al
tramonto, "fra splendidi / cocchi e noti destrieri", risuonano i
"cembali" e "s'esercita / la boria cittadina", fatta di
"dame e cavalieri" … E dove, in un mondo rovesciato, all'alba, quando
i "palazzi" signorili si sono fatti muti e deserti i "balconi",
da cui, di giorno "sorridono / le matrone galanti", la città diviene
altra cosa. Innanzi tutto teatro delle scorribande dei poeti: lo scintillante
corso del tramonto si tramuta nello "sporco lastrico", e, "al
soffio / dell'aura mattutina", quando ormai "in bando / è l'alta
società", si fa "il campo" di prova dei poeti in canto. Ma non
solo, l'ora è magica, e la città disvela la sua mappa, i suoi topoi da gioco
del monopoli: il "dazio", la "dogana", le chiese con le "campane vigili",
che "già suonano a distesa", le "officine stridule" persino
nei sobborghi, e, al posto degli splendidi cocchi, lo scalpitìo delle
"cavalle / che trottano in città". E' una fervente umanità minore
che, come i segnalini del monopoli, si dispone e si muove sulle precostituite
caselle, un'umanità fatta di "lattai", di "bifolchi", di
"serve" e "servitori", di "villici". La città,
nell'alternanza diuturna del tempo, si rivela spaccata in due, specchio di una
radicale e manichea opposizione e polarizzazione sociale. All'alba, è una città
ancora, in qualche maniera, confusa con la campagna, se i villici lungo il
corso si mischiano alle belanti "capre" ed ai mandriani queruli. Ma
comunque dal poeta già avvertita e vissuta, nella sua diversità dalla
campagna, come un rischio e un male,
una minaccia, se l'aria è perniciosa e l' "afa cittadina" opposta alla "molle auretta" dei
colli. La città già (o ancora)
s'identifica con i rifiuti e la sporcizia: con il "nostro limo / cresciuto
in libertà".
La città torna a farsi viva nella
composizione "Notte di Carnevale" e questa volta è immensa,
"l'immensa città". Ma in realtà, si tratta di un immenso
palcoscenico, di una città- palcoscenico, con le sue quinte e i suoi fondali
("E' notte: azzurro il ciel, tonda la luna / che disegna sul lastrico i
ritratti / dei comignoli", mentre le "note gronde" sono
attraversate dai gatti che "sospirano d'amor come i poeti /
dell'Arcadia"); una città-teatro con le sue orchestre (non solo quelle che
"nei teatri / fremono melodie", ma anche quelle che rompono la quiete
di piazze sonnecchianti con il
"rombo di qualche carretto / che si perde nei vicoli lontani",
o con il canto che s'innalza improvviso da un uomo che arriva " al muro
brancicando").
In "Armonie
della sera", la città è la
"negra città", ma è proprio all'aggettivo "negra" che il
poeta affida il compito di un impercettibile quanto inesorabile slittamento di
senso: dalla condizione di oscurità che la pervade, la città, come un
palcoscenico s'accende di colpo di
mille "fiammelle", e si definisce come una successione di scene
rappresentate da luoghi deputati (gli archi delle porte, l'ospedale, le chiese,
le caserme, i "vicoli oscuri", l' "ermo manier", i
"turpi ridotti"), che si riempiono progressivamente successivamente
drammaticamente di comparse (le serve che ridono allegre, la Morte che ascende
"furtiva", i baciapile, i giovani imberbi, igiocatori), mentre il timbro sonoro è sostenuto dal rullare dei
tamburi.
In definitiva, e confermando la vena
profonda che attraversa l'intera poetica del Praga, la città altro non è che
"madre di inganni e toschi" (citiamo dall'ode "A Enrico Junk), a
cui è necessario sottrarsi, e, al tempo stesso, occasione di "vita
frivola", finzione appunto e menzogna da obliare ed a cui opporre l'
"alma nudità del vero", che si identifica ancora e sempre con la natura naturans.
Addirittura
fantasmatica è la città nelle poesie del Camerana. E' una geografia urbana
segnata dall'assenza, dalla rarefazione. Se non si tratta di personalissime
"strane città, fantasticate", di misteriose "azzurre oasi"
della fantasia, come in "Rovine", le città sono semplici
qualificativi peggiorativi: la "pomposa città" di "Natura e
pensiero", la "città peccatrice" di "A Emilio Praga",
la "città prava" di "Eli! lamma sabacthani!…". O se il
riferimento ad una città fisicamente riconoscibile è dichiarato, come per la
Verona di "Dante in Verona", la denotazione interviene prontamente ad
identificarla attraverso la non-identificazione, la deficienza, la mancanza:
l'athalassia è il connotato che definisce Verona, città "che non ha il
mare", città athalattica, che è , come a dire, città priva di azzurro, al
contrario delle città fantasticate!
Su Carducci e sulla sua visione della Città
potremmo quasi sorvolare, troppo ancorato il poeta-artiere alla visione del
passato, vuoi classica vuoi medioevale. Eppure qualche notazione interessante
può venire fuori da un'analisi comparata dei luoghi della sua poesia in cui la
Città proietti la sua ombra. Sarà allora possibile rilevare una opposizione
bipolare che non sarà senza retaggi né discendenze nella vicenda della poesia
italiana moderna e contemporanea: da una parte una rappresentazione cupa,
statica, quadrata; dall'altra una visione brumosa, o aerea, sempre mobile, a
volte addirittura equorea e liquida.
Così, se in "Mattutino e
notturno", la città è marmorea e tacente ("Quando ammirò da i poggi
ermi la luna /A la città marmorea tacente / Dir le malinconie de
l'infinito."); poco prima (sempre in "Rime Nuove"), era
spettrale nella nebbia ("spettral ne la nebbia alza i giganti / Templi la
tua città, Dante Alighieri."). E se ancora è nera di tetti in
"Classicismo e Romanticismo", dove un mesto autunno "de la città
fra i neri tetti / Un sua raggio disvia"; nel pulviscolo luminoso del
"fulgente meriggio" appare invece dissolta nell' ode a Vittore Hugo.
Ancora quadrata è la città di "Dinanzi alle terme di
Caracalla", in "Odi barbare", e turrite sono le città di
"Miramar"; ma nella medesima raccolta, da "Fuori alla Certosa di
Bologna", ecco emergere dal "mare superbo di fremiti e d'onde: /
ville, città, castelli … com'isole".
E per Carducci
siano sufficienti questi brevi sprazzi.
Passando a Giovanni Pascoli, e limitando la
nostra indagine alle raccolte di "Myricae" e "Primi
Poemetti", rileviamo che l'impatto con la città è solo un'occasione in più
per dare corpo alla vocazione ed all'esercizio delle "parole che velano, e
perciò incupiscono il loro significato…", un'occasione in più per mettere
alla prova la sfida di inventare - come
è stato detto- "una lingua capace di precisione massima nella descrizione
delle "cose" su uno sfondo indeterminato della massima
imprecisione": di quello sfondo le città pascoliane sono chiamate a fare
parte. Così non meraviglierà se esse si risolvono e si sciolgono in un incanto
di suoni ovvero in una magia di colori. Sono città-suono (come "la città
sonora", appunto, o la "città dai mille campanili" di
"Dialogo"), città tremebonde sotto il martello assordante delle
campane nel poemetto "Le armi"; oppure città-tavolozza, dove i colori
sono il bianco ("la città fumida e bianca" che integra la "città
sonora" di "Dialogo", o la città dalle "chiare brecce"
di "L'asino"), il nero (la "città nera" di "Povero
dono"), il verde ed il ceruleo ("la verde muraglia della mia
città" di "La siepe", o le sciamanti città avvolte in un velo di
"aria cerula" di "Solitudine", dove, addirittura, in una
vertigine di geometrica esaustività, il poeta definisce il paradigma del
proprio rapporto con la città attraverso la lucida e sfuggente figura del
richiamo chiasmatico: "Sono città che parlano tra loro, città nell'aria
cerula lontane", in un verso, "città nell'aria cerula lontane;
tumultuanti d'un vocìo sonoro", nel successivo).
All'alba del nuovo
secolo, Gozzano, uno dei nostri poeti più cittadini, dimostra un rapporto
ironico e sfuggente con la città. Se non è celebrata, ancora e secondo un
cliché abusato, per le sue attrattive peccaminose, da città tentacolare e
tentatrice ("la città risplende / in Novembre di faci lusinghiere: / e
molli chiome ecc." leggiamo in "Domani"; e "Torino" è
celebrata ed invocata come "città favorevole ai piaceri!"), la città
è distanziata, collocata in una dimensione di lontananza spregiata o
dimensionata sulla dis-misura del sogno o della rappresentazione artistica: in
"L'analfabeta" leggiamo sia "non amava le città lontane",
che "una città fittizia / quali si vedon nelle vecchie stampe",
oppure leggiamo di "città vedute nei miei primi sogni". In
"L'esperimento", infine, l'immagine della città è risolta in pura
effigie e decorazione: "Oh! La collana di città!", "…e al collo
una collana di musaici / effigianti le città d'Italia", quasi un'elegante
teoria di immagini da catologo o sa depliaqnt di agenzia turistica:
"Viaggio / lungo la filza grave di musaici"!
Per rimanere nell'ambito del Crepuscolarismo,
mi piace ricordare che con "L'ultimo sogno" di Corazzini questa
tendenza all'estraneazione della città nella sfera del sogno sembra raggiungere
uno dei massimi vertici: tutto è deserto, tutto è silenzio, non ci sono
risposte, non ci sono domande, solo il canto "senza ritornelli" delle
fontane.
Abbiamo accennato, all'inizio della nostra
conversazione, alla poesia di Dino Campana ed al suo particolare rapporto con
la tematica della città. Non c'è dubbio che molti modi campaniani presentino
significative analogie con tutta una serie di espressioni 'manieristiche' presenti "nella letteratura e nelle
arti dell'Ottocento e del primo Novecento in Italia e in Europa: dalla tematica
del paesaggio urbano inaugurata da Baudelaire e Rimbaud allo spazio contratto
di certa pittura cubista" (Galimberti)
Per la prima tematica, abbiamo già
accennato come quell' "ossessione nuova della città europea - che
dall'inizio della rivoluzione industriale dell'Ottocento aveva preso i poeti e
gli scrittori di tutto il mondo", e che si trova nella poesia simbolista
europea, da Rimbaud a Verhaeren, si ritrovi viva in Campana, che ne fa però
"una situazione personale e italiana, trasportandola nelle sue città del
passato e del mistero e ordinandola e superandola nel suo stile"
(Bonifazi).
Innanzi tutto, l'attacco del poemetto in
prosa "NOTTE": "Ricordo una vecchia città, rossa di mura e
turrita, arsa su la pianura sterminata nell'Agosto torrido, con il lontano
refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo". E' chiaro che la
vicenda poetica si svolge in un tempo e in uno spazio irreali, volutamente
indeterminati, in una dimensione di spazio-tempo dichiaratamente memoriale, che
favorisce l'emersione di un vero e proprio "paesaggio di sogno" (né
rompe con la tradizione pascoliana: le qualificazioni della città sono
principalmente cromatiche…).
Per la seconda tematica, voglio ricordare
come il suggello della modernità di Campana non sia solo in quella sua
rielaborazione degli elementi costitutivi del linguaggio che sembra preludere
alla formazione degli stilemi ermetici,
o in quello "sforzo di investire il linguaggio di una vera funzione
spirituale" (M. Luzi), di cui egli è partecipe con Rebora, Ungaretti e
Montale, ma anche nello sforzo di adeguare le sue ricerche espressive a quelle
analoghe che la pittura contemporanea -cubista e futurista- andava
sperimentando in ordine alla scomposizione delle immagini e degli elementi
spaziali, e basti pensare appunto a quanto ha fatto su Genova, dove i piani si accavallano e le immagini della città
vengono frazionate come per un effetto caleidoscopico.:
"dentro il
vico marino in alto sale
dentro il vico che rosse in alto sale
marino l'ali rosse dei fanali
che nel vico
marino in alto sale"
Ora, sarà anche vero, come vuole il
Parronchi, che questi frazionamenti e accavallamenti di piani siano spie di
un'attenzione di Campana alle ricerche espressive dei futuristi, ma quello che
a noi colpisce (e stupisce) è proprio il frazionamento dell'immagine relativa
alla città in quanto tale.
Venendo ai nostri
giorni, infatti, e per citare il mio amico Beppe Panella, il passaggio si è
consumato ormai dalla Metropoli come mutazione organica della città borghese al
'luogo senza luoghi' della Metropoli esplosa sul e nel territorio, della città
contemporanea senza centro e senza periferia. La "città come
spettacolo", già intuita, incredibilmente, dai poeti del secondo
Ottocento, si è trasformata da epicentro della soggettività dello spettatore,
alla dislocazione oggettiva e fuggente (nomadica, a-centrata) della coscienza
spettatrice che non esiste se non all'interno dell'evento cui partecipa,
travolto e sur-determinato dal suo carattere di feticcio. Lo stesso tempo
esistenziale ne viene infettato. Ed al poeta non resta altro che aprire
smagliature e fratture, negli oggetti che si sfaldano, e disarmato cogliere
vendemmie sterili di eventi.
Per citare, in conclusione e immodestamente
me stesso:
ballata (della città)
(come a dire: il
tempo della città)
ed è dunque del tempo che si tratta
dell'indicibile
arrogante tempo coltello
che scava
sottotraccia e verga indifferente
d'Aronne
che scioglie le
montagne e scambia
le sorgenti e gli
occhi che ci diedero
sgomento
(illusoriamente uguali nel ricordo) di
impercettibili
brividi attraversa incessantemente
differenti
ma il tempo non sappiamo
se sia solo un
fatto
personale noi
provammo
a smontare le città
e a risalire alle
matrici delle
macchine e tra mani
ritrovammo parvenze
ingiustificabili parvenze su
cui la luce gioca i girotondi e la decisione
viene solamente
a mutare i piani
precarie forme suggerendo
d'illusoria
consistenza
eppure inserirsi è sufficiente nelle maglie
del tempo che
scorre ciclopico
prigione
deridente e alle
fratture
che sfaldano gli
oggetti puntare l'occhio disarmato a cogliere
vendemmie sterili
d'eventi