IL GIOCO NELLO SPAZIO DEGLI INCONTRI

di Andrea Peggion

Il gioco esiste come insiemi in relazione

Partiamo innanzi tutto da due considerazioni generali:

 

Un esempio semplice, per capire il concetto, è pensare al colore verde che esiste in quanto relazione fra il blu e il giallo. Senza l'uno o l'atro non si fa il verde. Un elemento del verde (blu o giallo) da solo, ovviamente, non è il verde.

Il gioco è formato di molte parti ma, più complessamente del verde, ha degli elementi che lo permettono e lo fanno nascere e altri che ne attivano i processi interni.

Per iniziare a giocare c'è bisogno di costruire una realtà diversa da quella consueta, entro la quale permettere la relazione fra i giocatori (o più precisamente fra le loro le persone), gli oggetti del gioco e gli eventi.

Questa particolare dimensione, che viene detta anche spazio potenziale , è una barriera che da un lato, difende i giocatori dall'essere presi per "matti" (perché adoperano gli oggetti o parlano tra di loro in modo "inconsueto"), e, dall'altro comunica ai giocatori che tutto ciò che stanno facendo non è reale ma è gioco.

Il gioco non può esistere senza questa barriera proprio perché, in quanto relazione fra realtà e immaginario, se non fosse ben separato e protetto, correrebbe sempre il rischio di essere scambiato ora per l'una, ora per l'altro.

Nel gioco si deve aver ben chiaro che le azioni che si fanno quando si sta giocando non sono ne completamente sogno della persona che le fa, ne propriamente hanno il significato che di solito queste portano nella vita reale.

L'intromissione imprevista, troppo forte, di reale o fantastico può allagare completamente lo spazio ludico uccidendo il gioco, il quale viceversa deve stare sempre in bilico fra questi due elementi, in quanto trae la sua ragione d'essere proprio da questo suo funambolismo.

Questo continuo riequilibrarsi fa parte di ogni gioco e, continuamente chi gioca, costruisce, mantiene visibile e solido, il muro che separa il gioco dal non gioco: continuamente afferma che si trova nello spazio dell'illusione.

Se ciò non fosse, come dovrebbero interpretarsi, per esempio, gli improperi, gli insulti, le offese che si mandano i giocatori di backgammon fra di loro? Cosa dovrebbero presagire i terribili sguardi che si lanciano i giocatori di scacchi? Quale significato dare alle sequenze di parole senza senso dei giocatori di carte (busso, schiaccio, striscio, voglio un carico, ecc.).

Si pensi al gioco situato sempre come su di un palcoscenico che ha come spettatori gli stessi giocatori e un pubblico di ignari passanti. Per queste due classi di osservatori continuamente viene riaffermato il principio che il gioco è finzione affinché nessuno possa avere il sospetto di assistere ad una scena "vera", e i giocatori possono essere certi che tutti stanno giocando.

Le parti in gioco

Il gioco si attiva ed esiste, abbiamo cercato di spiegare, attraverso una separazione con il mondo "reale". Nel momento stesso in cui nasce per "funzionare" deve però mettere in moto i suoi elementi senza i quali non potrebbe essere.

Sono elementi inscindibili del gioco la regola, il piacere, la libertà, il tempo e lo spazio, l'improduttività e l'imprevedibilità; tutti questi agiscono all'interno di una relazione complessa e debbono essere considerati insieme.

Noi, pur dovendo, per una maggiore chiarezza dell'esposizione, descriverli uno per volta non ci stancheremo di dire che comunque ognuno di loro da solo non è gioco come non c'è gioco se anche manca uno di questi elementi.

Ci sono innumerevoli relazioni che funzionano, ad esempio, attraverso regole, ma solo quella che viene svolta con il piacere, la libertà, il tempo ecc., è gioco.

La regola

La regola nel gioco ha la funzione pari a quella della grammatica per lo scrivere: non definisce il linguaggio del gioco ma lo ordina. Per intendersi: la lingua con cui parlare è il tipo di gioco (dama, soldatini, calcio ecc.) all'interno di questa lingua si stabiliscono dei sistemi di relazione con i quali entrare in rapporto con gli oggetti del gioco e i giocatori.

Si avrà così per esempio che la grammatica del gioco della dama impone che le pedine si muovano in un certo modo e si rapportino fra di loro in un certo altro.

Visto che il linguaggio del gioco è globale ovviamente anche la sua grammatica non riguarderà solo il parlare ma anche il muoversi il comportarsi, il toccarsi, lo stare in silenzio ecc.

Più è definito il sistema di regole di un gioco più ovviamente è universale, più è socializzante, e viceversa.

Nei giochi simbolici che fanno un po' tutti i bambini non esistono dei regolamenti e "le parti" vengono definite via via che si gioca; ciò ovviamente aumenta la possibilità di invenzione e di comunicazione fra i giocatori ma, parimenti, diminuisce la probabilità di esportare il gioco in altri contesti. Nel gioco degli scacchi per opposto il regolamento è molto preciso; bambini di tutto il mondo possono incontrarsi e "parlare" di fronte ad una scacchiera. Purtroppo però l'invenzione e la creatività dei giocatori può esprimersi solo all'interno del quadrato di otto per otto caselle e non può uscire da li.

Il concetto che qui esprimiamo vuole dire che, come in ogni tipo di linguaggio (pittorico, musicale, teatrale ecc.), più sono precise è ferree le regole, più questo può divenire esportabile e diffondibile, ma sarà anche molto meno carico di possibilità creative generali; più sono indefinite, poche, e di volta in volta costruite, le regole, meno ci sarà la possibilità di coinvolgere persone diverse, anche se ciò va a vantaggio dei livelli espressivi individuali.

Per terminare il discorso sulle regole vogliamo affermare, seguendo il ragionamento fin qui espresso, che riteniamo non possa esistere il gioco senza regole, come forse non esiste il linguaggio senza convenzioni. Quelli che vengono descritti come giochi senza regola sono in realtà, paradossalmente, "regolati" dalla affermazione precisa e categorica che non esiste regola, o meglio non esiste una regola già definita, già scritta, mentre i rapporti fra i giocatori e le cose si organizzano via via. Alcune volte, in queste situazioni, c'è un capo/gioco il quale stabilisce cosa debbono fare i giocatori, altre sono gli stessi componenti della situazione ludica che insieme decidono come comportarsi.

Il piacere

Il gioco è un attività automotivata, si dice, cioè, che si fa "disinteressatamente", per il piacere di farla.

Infatti ogni persona che gioca sa che il suo scopo principale è quello di provare godimento, di divertirsi.

Per quanto ci si sia sforzati di trovare significati, scopi, vantaggi, contenuti, finalità, obiettivi ecc., il gioco ha sempre riportato tutti verso quell'unica effimera meta: il divertimento.

Sembra ovvio ma, se si rimuove il piacere dal gioco, questo diventa lavoro, perché non conta cosa si fa, ma se lo si fa per piacere o per dovere

Capire che si gioca per il piacere o la gioia di farlo non esclude che dal gioco si ottengano dei "benefici" intellettuali e fisici, che si aumentino facoltà culturali, logiche, corporee, ecc.; ciò però non può che avvenire per motivazione intrinseca cioè non cosciente.

Parlando del mondo infantile e rimanendo sempre su esempi banali, è chiaro che giocando a scacchi si sviluppano facoltà logiche e giocando a calcio quelle legate alla cooperazione e alla spazialità, però, non si potrà mai obbligare un bambino ad imparare la logica facendolo "giocare" a scacchi mentre gli si può far apprendere la logica facendolo "studiare" con gli scacchi

Riteniamo che si debba distinguere (è bene che ogni educatore o genitore lo faccia) fra fare le cose per piacere, o per obbligo, e pensare ai giochi come attività automotivanti le quali hanno intrinseci, molti e diversi, valori educativi, mentre ci sono tantissime attività, simili al gioco dette ludiformi, che si fanno per cosciente, estrinseca, motivazione educativa le quali sfruttano moltissimi elementi del gioco (come l'imprevedibilità, la regola, il fantastico, la simulazione ecc.) e dunque sono più piacevoli di altre occupazioni, ma non sono gioco.

La libertà

Direttamente connessa con il piacere e con l'ultimo discorso che abbiamo fatto è la libertà, in questo caso intesa come libertà di entrare e uscire dal gioco, oltre che di muoversi al suo interno per quanto le regole lo permettono.

Se è vero che si gioca per piacere è vero anche che si inizia a giocare quando lo si vuol fare e si smette quando il gioco non ci piace più.

Un'altra delle ragioni per cui il gioco a scuola può essere fatto soltanto nella ricreazione è perché, se viene proposta una determinata situazione ludica, per raggiungere degli scopi didattici, è ovvio che si vorrà la partecipazione di tutti i bambini anche quelli che non desierebbero farlo; se un bambino a metà si stufa di farla, verrà richiamato all'ordine: rimproverandolo o dandogli un brutto voto.

L'improduttività

Se è vero che il gioco è automotivante non ci può essere altra motivazione nel gioco che giocare e, dunque, non si può giocare per vincere o per guadagnare mentre lo si può fare per il piacere di vincere o di guadagnare. Tutto ciò può sembrare una fine, e troppo dialettica, distinzione, perché è luogo comune pensare, soprattutto per la nostra cultura materialista occidentale, che l'obiettivo di vincere dei soldi o battere un avversario, basti per spiegare il gioco.

In realtà, perché siamo in un ambito in cui fantastico e reale si intrecciano, la vincita o il guadagno di soldi sono solo degli ingredienti che ci servono per rendere il nostro gioco più gustoso, per permettere una maggiore simbiosi fra realtà e fantasia. Vogliamo dire che, giocare di soldi a poker, permette, in un gioco così aleatorio, di legarsi ad un elemento fortissimamente terreno; se ciò non fosse, che noia sarebbe aspettare decine di mani per avere un tris o una scala. Nel poker i soldi sono il peperoncino negli spaghetti col pomodoro, ma non si mangiano gli spaghetti solo per il gusto di sentire il peperoncino!

Stesso vale per la lotta con un avversario, per vincere una gara. Il denaro, le coppe, non sono altro che un riconoscimento, un ricordo di un esperimento riuscito, di un'alchimia realizzata, ma per il giocatore non possono diventare uno scopo.

Se ciò è valido per il mondo adulto figuriamoci per quello infantile dove soldi e competizione hanno valori decisamente meno importanti, e sono semplici elementi di possibili giochi a "fare il grande".

Il tempo

Se piacere e libertà sono legati al perché si gioca, alla motivazione, il tempo (e lo spazio) sono gli elementi che aiutano a costruire la separazione ludica, a delimitare una "terra di mezzo", dove poter sperimentarci noi, e con noi il mondo.

Ogni gioco dura un poco. Il gioco ha un inizio e una fine: viene fatto nascere e morire tutte le volte.

Il gioco si incomincia, ci si entra, si finisce e ci si esce.

Se così non fosse sarebbe poco chiara e troppo debole la separazione dal non gioco, dunque ci sarebbe troppo rischio di interferenze, di "reale" o di "fantastico"

Il tempo è elemento contenitore tanto importante, da non poter essere definito in nessun gioco: ci sono momenti della vita in cui si ha bisogno di giocare per giorni interi altri in cui bastano pochi minuti per avere quelle terapeutiche sensazioni di piacere che ci permettano di continuare un cammino.

L'imprevedibilità

Ultimo elemento che vogliamo spiegare in questo nostro piccolo viaggio all'interno del meccanismo ludico è l'imprevedibilità.

Il gioco dobbiamo considerarlo anche come contenitore di eventi che nascono dalle continue sperimentazioni con gli oggetti, con le persone e con i fatti.

Chi gioca non può conoscere quello che succederà nel gioco perché se no perderebbe l'interesse a giocare e il piacere di manipolare realtà e fantasia secondo suoi registri.

Il gioco, se lo si vede come insieme di azioni e di rapporti con le cose e con le persone, proprio per il suo carattere sperimentale, non può essere ripetitivo ha bisogno di percorrere strade sconosciute.

Quello che abbiamo detto può sembrare un'altra volta banale (nel gioco succede spesso che cose complicatissime appaiano banali), ma il concetto è semplice: se un giocatore conosce come si svolgeranno gli eventi, se sa già la soluzione, se ha scoperto "l'assassino", non può più giocare.

Se si ha bisogno di costruire un gioco, se si vuol giocare noi stessi, bisogna porsi in un terreno da esplorare, uno spazio nuovo dove sia data la possibilità di muoversi e agire, diversamente se ne va gran parte del significato ludico.

 

INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE

R. Caillois "I giochi e gli uomini" Bompiani 1981

D. W. Winnicot "Gioco e realtà" Armando 1974

J. Huizinga "Homo ludens" Einaudi 1949

G. Bateson "Questo è un gioco" Raffaello Cortina 1996 (anche in "Verso un'ecologia della mente" Adephi 1979)