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Crisi Fiat e riforma della scuola, ovvero assenza di soggettività
Antonio Limonciello
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Forse ai più sembrerà una forzatura accostare la crisi della Fiat alla scuola, io non la penso così.
L'Italia ha avuto dal dopoguerra grandi storie industriali riuscendo a primeggiare in Europa in diversi settori. L'elettronica della Olivetti, la grande chimica, la siderurgia, la stessa Fiat che si batteva per il primato europeo con la Volkswagen.
Ora la crisi Fiat ci fa improvvisamente scoprire che l'Italia non ha più una vera e propria strategia industriale.
Dunque fino agli anni 50 eravamo un paese contadino, fino alla fine degli anni 80 un paese industriale, ed ora? E nel futuro?
Come potrebbe oggi definirsi l'Italia dal punto di vista delle caratteristiche produttive?
Non siamo certo il paese che produce la merce a più alto profitto, la merce "idee", né siamo produttori di sistemi complessi, pacchetti chiavi in mano di alta sofisticazione, no, non lo siamo.
E non lo siamo perché:
L'Italia investe l'1% per la ricerca, la Francia il 2,5%, la Germania il 3%, gli USA il 6%, il Giappone il 12%.
Nel 2000 l'Italia ha importato circa 12-13.000 brevetti, mentre ne ha prodotti 8-9.000, pochissimi dei quali esportati.
Dunque l'Italia è come un paese del terzo mondo in quanto esporta materie prime (i cervelli) ed importa brevetti.
D'altra parte le % di PIL impegnate per la scuola rispecchiano più o meno gli stessi rapporti, quindi è tutta la società italiana che non si dota di strumenti idonei a costituire un tessuto sociale ad alto contenuto di sapere e ad alta capacità di interagire in sistemi a reti complesse e coperative.
Non saremo più neanche un paese industriale?
Gli esperti ci fanno sapere che nonostante il processo di dematerializzazione la produzione industriale sarà fondamentale per almeno tutto il XXI secolo. D'altra parte c'è produzione industriale e produzione industriale, come dimostrano paesi quali la Germania, il Giappone e gli stessi Stati Uniti.
Ancora una volta il problema riguarda la ricerca, per esempio la spesa è di 638 euro per un veicolo Fiat e di 1634 euro di media per un veicolo Bmw, Volkswagen o Mercedes. La crisi dei modelli Fiat immessi sul mercato è in gran parte in questo dato.
Si sta investendo o si sta smantellando l'Italia, e se si sta investendo, in che futuro lo si sta facendo?
Mettendo insieme i dati di cui sopra con:
- il modello industriale più recente, ovvero le aziende del Nord-est
- la linea della Confindustria che ha portato D'Amato alla presidenza degli industriali italiani
- i documenti programmatici e le finanziarie di Berlusconi
La conclusione è che il nostro paese si sta attrezzando per competere con i "sistema paese" del terzo mondo.
Basso investimento in ricerca, basso investimento nell'istruzione, portano necessariamente a prodotti a basso know-how, gli stessi prodotti che sono realizzabili dai paesi emergenti del terzo mondo.
Questa strategia ha necessità di sempre più bassi salari come unico modo per abbassare i costi di produzione. L'abbassamento dei salari si realizza con sempre più immigrazione, perché questa è disposta a lavorare in ambienti degradati e con stipendi da fame, ma anche perché essa viene usata per costringere gli italiani ad accettare le stesse condizioni.
Il cerchio si chiude se si tiene conto dell'abbassamento dei budget per tutte le forme di ricerca nel campo delle varie espressioni della cultura del paese (cos'altro sarebbe il concetto di finanziare progetti capaci di incontrare il favore del mercato?).
Se questo è il quadro delle scelte strategiche nel campo della produzione, dell'economia e della cultura, quale scuola per il nostro paese?
Per una riforma della scuola, ci vuole sì la pedagogia, ci vuole pure la psicologia, ma si deve anche avere un'idea di sé, di ciò che si è e di cosa si pensa di essere nel futuro.
E cos'è l'Italia oggi e cosa si pensa debba essere domani?
Pare che i dubbi siano solo se essere una provincia americana o una provincia europea, dopo di che tutti a farci con bombe televisive.
C'è un discorso molto serio da fare, oggi assistiamo a una inadeguatezza di una gravità inaudita: proprio per l'assurdità delle promesse fatte, questo governo non è in grado oggi di cambiare in corsa, non è in grado di mettere in atto quello scatto che stanno producendo la Francia, di destra, e la Germania, di sinistra. Quindi siamo costretti, dalle balle dei miracoli, a non mettere in moto alcun processo virtuoso, anzi dissiperemo l'avvio di risanamento del vecchio governo.
Mentre in questa crisi avremmo bisogno di tutto un popolo consapevole chiamato a partecipare a un processo di accumulazione di risorse, noi siamo all'occultamento e al "fateci lavorare".
Guardate la faccia della Moratti, è tutto in quel viso, lei sa cosa significa la finanziaria, sa cosa significa ristrutturare un'azienda, quindi per analogia sa cosa vuol dire mettere in moto un processo di riforma vera.
Non ci saranno vere riforme perché i tagli alla scuola non servono a mettere in moto un processo di accumulazione di risorse per investimenti scolastici, sono risparmi di cassa e basta, la Moratti sa benissimo che quando c'è una crisi si deve investire, si ricapitalizza (la Fiat, appunto, avrebbe bisogno di 7-8 miliardi di euro da investire).
Come ci si può appassionare a discorsi di riforma destinati a restare tempo da attraversare, e che se anche dovessero diventare fatti andrebbero a cadere in un deserto sociale, in navi senza approdi?
Ora si potrebbe dire che le idee ci sono e precisamente si pensa a una società allungata verticalmente e tutta percorribile, minori protezioni e maggiore mobilità, dall'estremo degrado di tutte le clandestinità agli sfarzi e alle volgari sontuosità di sua emittenza. Una società sospesa che attende di conoscere l'approdo dopo la fine del moderno e del postmoderno, quindi una scuola che non si chiude, né sui contenuti, né sui tempi e i luoghi dello studio, giacché qualsiasi chiusura sarebbe troppo fragile, troppo esposta all'inutilità (dove utilità non è semplicistico riferimento ai processi produttivi).
È la riforma che si sta discutendo utile strumento per questo tipo di società?
Ma è questa la società che vogliamo?
Per esempio io no.
Come si può allora discutere di riforma senza porsi il problema di definire cosa siamo e cosa vogliamo essere?
Con quali strumenti garantiremo alle future generazioni luoghi dove dotarsi dei mezzi per "divenire ed essere", luoghi di costruzione e difesa di soggettività nell'era dell'Impero, della biopolitica che tutto sussume?
6 novembre 2002
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