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Dell’educare. 103
“Se la scuola diventa un mondo a parte”.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Ritorna alla luce, dalla pila disordinata dei ritagli amorevolmente custoditi, una seconda “perla” di quella che fu “Lotta di classe” di Luigi Galella. La “perla” in questione è in un ritaglio del quotidiano l’Unità del 14 di ottobre dell’anno 2002; un’altra era, un’epoca che fu. Titolo della “perla” : “Se la scuola diventa un mondo a parte”, che di seguito trascrivo in parte. Che la scuola sia stata sospinta a non essere “propedeutica alla vita e al lavoro”, come scrive sapientemente l’Autore, è una constatazione incontrovertibile e facilmente verificabile. Bisogna però pur dire una cosa semplice semplice: la scuola è sempre stata “altro”, ma un “altro” nel quale la società, che è fuori, si è sempre rispecchiata vedendo e credendo in esso. Sino ad un certo punto. Poi, da un certo punto in poi, la scuola non è stata più l’ “altro”, il mondo della sospensione del tempo e dell’incantamento delle sensibilità giovanili, non ha svolto più il ruolo assegnatole di specchio entro cui osservarsi per un riordino sociale coerente ad uno sviluppo democratico del Paese, ma è divenuta l’insignificanza dell’ “altro rispetto ad altre agenzie ed ai mass-media ad essa esterni, che ne hanno svilito la funzione e quant’altro ad essa era stato da sempre assegnato. Di questo snaturamento della funzione della scuola ne è stato attento osservatore e denunciatore deciso uno straordinario collega e scrittore, prematuramente scomparso, Sandro Onofri. Ne ha scritto magistralmente nel Suo “Registro di classe” ove si coglie “lo sconforto di chi nel quotidiano vede come sciogliersi al sole il personale iniziale entusiasmo di educatore, al confronto di una società mediatica che ha ben plasmato le giovani generazioni all’abbrutimento culturale più spietato, alla indifferenza, ed alla minimizzazione o alla rimozione dei fatti storici, anche i più tragici, come ne scrivevo, di quel Suo stupendo lavoro, al capitolo terzo - “Ovvero il supremo trionfo dell’apatia” - del mio “I professori” – AndreaOppureEditore (2006) pagg. 194 € 8,00 –, nel quale mio lavoro riportavo un breve brano dell’indimenticato collega che ora ripropongo: “Entro, e porto in classe sempre più la mia maschera, non me stesso. Insegno non il mio sapere, coi suoi limiti ma anche con le sue urgenze, bensì un sapere impersonale, agnostico, ragionevole. Sono non un pedagogo né uno scrittore che insegna ma un professionista dell'educazione, che fa onestamente ma non in maniera brillante - perché non può, non gli interessa - il suo mestiere. Mi guadagno il favore degli studenti non con la simpatia ne con la generosità dei giudizi (a questo punto non ci sono ancora arrivato) ma con una scandalosa volgarizzazione dei contenuti. Intollerabile ormai, per me più che per chiunque altro. E se tento di aprire un piccolo spazio per infilare di straforo la mia passione in quello che faccio, nelle mie lezioni, è fallimento. Risatine, occhi che se ne vanno, richieste di andare in bagno. Per reagire a questo stato di impotenza che mi prende di tanto in tanto, e in definitiva per tornare ad amare i miei alunni, ripenso a come eravamo noi, alla loro età” . È il “supremo trionfo dell’apatia”, dell’insignificanza della scuola e del suo ruolo, della sua marginalizzazione tenacemente pensata, progettata e realizzata con l’impoverimento di essa nei mezzi, nelle risorse, nelle idee ma, soprattutto, nello svilimento suo cercato presso la società civile.
“(…). Talvolta ho la sensazione che la scuola stia diventando un mondo parallelo. Nonostante gli sforzi di adeguarla alla realtà c’è qualcosa che di questa ci sfugge, anzi che fugge via, imprendibile. E’inutile rincorrerla. Semplicemente, dobbiamo rassegnarci all’evidenza: la scuola, lungi dall’essere propedeutica alla vita e al lavoro, ne rappresenta l’alterità. Quando varchiamo la soglia dell’aula e ci chiudiamo la porta alle spalle, con questo semplice atto, costruiamo il presupposto di una nuova comunità. Costruiamo un altrove. In questo altrove i ragazzi non possono parlare con i compagni, e se parlano con l’insegnante devono farlo in perfetta lingua italiana (sono banditi i dialetti, le loro vere lingue madri). Non possono alzarsi, spostare una sedia, ondeggiare, curvarsi troppo a destra o a sinistra, appoggiare le guance o la fronte sui palmi delle mani:ognuno di questi gesti potrebbe essere considerato segno di disattenzione o provocazione. L’insegnante, il buon insegnante, è sempre attento al che gli alunni siano rispettosi delle regole. La classe è un reticolato con molti semafori e lui è un vigile che osserva, interviene, sanziona. Non possono mangiarsi le unghie, tossire insistentemente, rosicchiare i tappi delle biro, masticare chewing-gum, abbandonarsi con la schiena sulla sedia, voltarsi, sorridere … La sensazione di abitare in un mondo parallelo nasce già nel momento in cui vedo i ragazzi in procinto di entrare in classe. Stanno per indossare quella maschera che si chiama studente, sulla quale pesano molte proibizioni. Spesso vorrebbero comunicarci i loro bisogni, ma appena provano a parlare qualcuno ricorda di farlo in lingua italiana, o peggio, in lingua inglese. Dipende dall’ora di lezione. (…). Stamattina, mentre li osservo prendere posto ai banchi li vedo ondeggiare. Come un flusso di energia, spontanea, che fatica a prendere posto. Che non ha un posto. (…). Dirò loro di sedersi perché devo fare l’appello. Il vocìo si trasformerà in un brusio più sommesso; li guarderò in cagnesco fino a che, lentamente, si andrà spegnendo. Poi prenderò il registro e scorrerò i nomi, l’energia della classe a quel punto raggiungerà il grado zero, e il silenzio sarà di tomba. E io, professore ‘vigile’, sarò soddisfatto, e a disagio, di avere in mano tutta la loro energia. E di doverla toccare, contenere, comprimere. Negare.”
luglio 2012
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