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Prefazione a DETECTIVE STORIES di Ignazio Apolloni
Out of ordinary somewhere somersault
Carmen De Stasio
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Non c’è cosa peggiore che rimanere inoperosi.
Con questa stanca affermazione si apre “La Palestra”, una delle stravaganti Detective Stories di Ignazio Apolloni, serie inanellata di avventure, il cui protagonista é Jeffrey, romanzesco e intraprendente investigatore, il cui stile rammenta uno psicanalista dell’azione, un arti-linguista vicino a Topolino e all’ispettore Clouseau, del quale riprende tentennamenti e cadute per poi ricomporre la scena reale con geniale teatralità e l’esotismo di digressioni che vagano in un non luogo riportato alla circostanza attuale.
Quanto nella cinematografia muta d’eccellenza soggiogava lo spettatore con un linguaggio mimico, suscitando ilarità per la forte propensione a rendere duttile una configurazione che altrimenti si sarebbe appiattita, si riscontra nelle storie narrate da Apolloni, scrittore animato da indiscutibile vena creativa, qui presente più nei panni del regista e direttore alla fotografia di un detective dall’intonazione gentile, dietro la scelleratezza edulcorata dalle piccole manie di protagonismo derivanti da una chiara fama internazionale.
Una sorta di nuova religione dell’uomo vivacizza la tenuta della narrazione scissa in tanti piccoli luoghi che nell’insieme danno la veridicità del continuo uscire-entrare-uscire-unire-scavare-perorare-fantasticare sostenendo l’ipotesi di precarietà degli assoluti.
Jeff (o Jeffrey, se si vuol mantenere la distanza) sente il bisogno di spiegare scientificamente per esaudire un bisogno conclamato di verità, anche quando questa viene addirittura in alcuni casi contraddetta come misfit o misunderstanding, in un’accelerazione che in apparenza devia verso altro, ma che subito dopo riprende il filo interrotto:
Se me ne sono pentito di aver fatto tutto
quello? questo no, è solo che un minimo di
suspense ci vuole nelle narrazioni dette detective
stories. Ecco allora che divago per poi a un certo
punto andare al sodo
(“La più grande delle peripezie”)
La verità è nelle piccole cose, ma Jeff scava fino a perdere la bussola e piroettare al di là, abbandonando, seppur con ragione logica tutta personale, le acque che egli stesso intorpidisce interponendo cadenze che lo avvicinano al mondo lieve e contraddittorio della fantasia.
Ignazio Apolloni compatta la narrazione per piani psicologici naturali in una maniera che lo assimila a George Bernard Shaw, con un’evidente propensione per il rientro funzionale dell’uomo nei ranghi comprensivi che richiedono auto-coscienza e consapevolezza tali per cui non sempre chi appare come il disonesto o failing man sia tale se non attraverso lo sguardo altrui. Si scioglie così il nodo che tiene lontano le maglie del vissuto dal vissuto essenziale, favorendo una continuità interna che si concede irrefrenabilmente agli scossoni e alle influenze che la propria storia, le proprie conoscenze ammorbidiscono senza sentenziosità.
Si tratta di un modo scientifico che accoglie incrinature e omissioni, divagazioni e congiunzioni come qualità atte a dar la giusta misura dell’originalità di percepire l’argomento investigativo. E l’autore lo dimostra quando distoglie lo sguardo dal fatto per recuperare azioni e reazioni che lo catapultano insieme al lettore verso orizzonti inattesi, nelle sembianze di una realtà che abbraccia tutti gli emisferi dello scibile e dell’immaginario in un linguaggio sospeso tra atmosfere motown, slang e flusso inarrestabile di pensieri.
Nelle rocambolesche avventure Jeff tritura disinvolte mescolanze tra immaginazione e fenomeni concreti fino all’inverosimile, scoprendosi ingenuamente guascone, talora burbero e scaltro, altre volte fantasista istrionico dotato di sottile ironia nell’invertire la rotta verso prospettive di chiaro stampo rivoluzionario, almeno rispetto alle caratteristiche della scrittura in giallo. E’ sicuramente un’azione provocatoria che assembla artatamente l’indagine jamesiana con la prorompente vitalità di un teatro ribelle alla maniera di Wilde; la mimica guizzante e surreale di Charlot e l’esilarante ipnotismo di Monsieur Hulot nelle memorabili visionarie traslazioni dell’ordinario con interferenze del magico e le scattanti immagini optical della teatrale Thais di Bragaglia.
Insomma, un inconsapevole vincente che si completa attraverso esplosioni di giocoso sarcasmo, passando per la porta semiaperta che annuncia l’incedere simbolico in una materia che valorizza la natura vagabonda dell’autore, la sua affezione alla cultura della storia, trattata con la nonchalance tipica di chi mastica conoscenze come sostegno all’esistere e alle intuizioni che planano spontanee quando l’intelligenza raggiunge l’acme di maturazione in seguito all’esperienza attiva. Un procedimento kantiano, dunque, quale ideale bagaglio per affrontare il nuovo qualunque esso sia, senza avanzare riserve su nulla. Ed è su questa traiettoria che Jeff si confronta allo specchio, scoprendosi
travestito da detective (con i limiti che ciò
comporta) che uno scienziato della scomposizione
e ricomposizione dei puzzle.
(“Il Flop”)
Ogni avventura é una svolta che inciampa, si inerpica, si schiera ora con un tempo di memoria ora con un presente che ingloba quei momenti nella consacrazione dell’uno, nel quale si attua la riconciliazione tra l’ossessione di conferire unicità alle verità scandagliate attraverso specchi metaforici e la duplice, innata dimensione di bene-male, la tracciabilità descrittiva e la narrabilità delle esperienze. Nell’investigazione – la cui scaturigine è in un tempo ben preciso dell’adolescenza
Tutto ebbe inizio allorché – avevo
allora quattordici anni – scoprii la tresca della
mia professoressa di chimica con il professore
di fisica.
(“Finalmente il primo successo”)
– è insito il bisogno di controllo totale, il che comporta il pieno coinvolgimento di tutti i punti di vista in contemporanea al fine di motivare la geniale illuminazione che dovrebbe scortare verso la verità. A volte risultando vincente, altre volte mestamente sconfitto, ma non vinto: nella perdonabile supponenza del self-made man, Jeff non suscita mai antipatia. Al contrario, l’ammissione degli errori lo rende gradevole e a misura dell’uomo qualunque, nonostante il malcelato maschilismo forse più di facciata che di sostanza. Più per scimmiottare il classico investigatore solitario e malinconico, che per convinzione dell’ eroe che solca il mare della vita come se fosse sempre tempesta. In questo si concepisce la velata, originale critica al costume imperante assunto da una certa parte del mondo femminile, felice di “lasciarsi” relegare al ruolo di comparsa. Solo a Lara, moglie di Jeff, è concesso un po’ più di spazio, forse per illustrarne il bieco provincialismo, l’assenza di prospettiva se non quella delle griffe e del comfort. Occasione amara per riflettere sul femminino che non ambisce ad una stanza tutta per sé, ma richiede semplicemente la garanzia di presenza.
Tutto, dunque, ha valore e tutto è funzionale alla sistematizzazione che accoglie fattori etici, caratteriali, psico-sociologici, soggettivi in un artistico ready-made che risana frantumazioni avvolte come stratificazioni investigative più della prospettiva intima che incuneate verso la banale razionalizzazione nell’ovvio.
Nella decentralizzazione continua dal protagonista all’azione si ritrova l’estetica apolloniana: irrefrenabile impulso a spostare continuamente lo zoom dal fenomeno alla lucida creazione di immagini che nutrono l’affollato palcoscenico di implicazioni che si compenetrano talora sovrastandosi senza mai screditarne alcuna. Lo sconvolgimento provocato dalle vorticose riflessioni (sovente assimilabili ai dubbi maniacali che tolgono il sonno al Signor G di gaberiana memoria) si dirada in uno sprazzo e Jeff si ricompone velocemente per riassestare la forma contenutistica di un viaggiatore epico, indaffarato a non permettere che lo stato di grazia favoleggiante si dissipi dal suo orizzonte. Si assiste o si vive meglio proiettati sull’illusione che il reale sostenga il fantastico, mentre è/potrebbe essere vero il contrario. Chi può attestarlo?
Evito di raccontare le altre mie gesta
dello stesso tipo per non annoiare il lettore ma
le si può immaginare con un pizzico di fantasia
in più rispetto alla solita monotonia – contraria
appunto alla fantasia
(“Le Navi da Crociera”)
E’ la fantasia paradossale che assiste le circostanze reali e ciò gravita fino al punto da omoformare le scansioni di tutti i componenti l’avventura che dà una veste incantata alla classica investigazione. In questi termini Detective Stories è tutto quanto non ci si aspetta da un ordinario sviluppo di una storia per indagini. Lontani dalla linearità che si avvalora nella consueta attesa del riscontro finale, i trentadue episodi si nutrono della mescolanza di contesti, di ambiguità, di immagini e paradossi intrecciati senza pausa, senza spazi vuoti, nell’ipercromatica tensione metaculturale. Un eterno jour denso di microstrutture che si motivano spontaneamente e che corroborano la scena rendendola uno spettacolo pirotecnico di pulsioni intelligenti.
Brillante e sicuro di sé, Jeff rammenta per aspetti relativi alla coltivazione della mente i rassicuranti colleghi presenti nella letteratura di genere tra la fine del XIX secolo e il mattino del XX secolo, prendendo, al contrario, le distanze dal tempo in cui Ignazio Apolloni riporta le avventure, sebbene di questo utilizzi la tecnologia. Ma il punto di incontro vale solo per quest’aspetto: infatti, al disorientamento coniugato con un ideale di variabilità e progresso di un periodo tanto lontano, non corrisponde l’attuale disorientamento in una terra tetra senza sogni. Ed è ancora una volta in un’assenza che si evidenzia il carattere etico della scrittura di Apolloni, il quale, pur trattando argomenti nei quali la crudezza giustificherebbe talora anche il turpiloquio, devia con brillante humour per non mercificare il valore di estensione comunicazionale della parola.
In realtà il tratto umoristico appare strettamente legato al territorio nel quale si muove il protagonista, il quale addirittura sembra prendere le distanze dalle sue stesse vicende come capitate per uno strano garbuglio del destino o, peggio ancora, per infingarde macchinazioni al suo indirizzo. Jeff è uno stratega che completa con le sue sinergie vettoriali le catapulte che lo investono come macigni scagliati a misura stratosferica, sobbalzando alla stregua di un registro linguistico flessibile che sostiene l’unità di divagazione narrativa tra il passato dei ricordi e il rientro al presente della stessa azione, mai schiacciando il pulsante del finale definitivo, della conclusione e dell’inizio. Ed è così che si rappresenta il reale apolloniano: un intreccio disorientante e realizzativo entro il quale si incontra per caso la vicenda nella sua interezza, senza lasciare in sospeso umori, fiati, circostanze. Tutto avviene nel medesimo atto di una scena che si illumina di luce e di ombra, possibilmente la luce di uno spot o l’ombra di una nuvola di umidità, magari pensando di trovarsi nelle atmosfere cupe di un Doctor Jeckyll-Mr Hyde.
Jeff vive la sintesi comunitaria delle sue riflessioni investigative come motore essenziale per accogliere il pericolo intromissivo dell’errore, ma non della mistificazione. Ed infatti Jeff è un puro. Un puro deciso. Forse un po’ simile a Pippo piuttosto che al saggio Topolino. Senza dimenticare che sgranocchiando un paio di arachidi anche il nostro dinoccolato segugio sia in grado di trasformarsi in super-eroe.
A volte sono errati i tempi. Ma chi non si lascia ogni tanto soggiogare dalla tumultuosa cristallizzazione ai tempi guidati dalla mente, che sconvolgono anche la concezione delle esteriorità? È quanto accade lungo l’arco delle vicende diaristiche di Jeff, che svolge l’incantamento delle sue operazioni sotto dettatura del suo casuale autore sebbene, diversamente dai personaggi pirandelliani, egli si divincoli dalla sua stretta per acquisire una libertà che lo porta a impregnarsi delle medesime tensioni favolistiche e immaginative del suo “narratore”. Ma le investigazioni devono attenersi ai fatti. Sbaglia il nostro, ma sovente la sua ansia di scoperta sensazionale lo conforta dell’insuccesso.
L’unico elemento di un qualche
interesse tra tanti invece di carattere
aneddotico, oscuri, indecifrabili, fu che
avrei dovuto prima di tutto trovare il luogo
e soltanto dopo esplorarlo.
(…)Era dunque un rebus che avrei dovuto
risolvere oppure sarebbe bastato un pizzico
di fantasia?
(“Il Ritrovamento della Pietra Filosofale”)
Le combinazioni linguistico-contenutistiche fanno pensare ad una narrazione a sciarada, nella quale tutti gli elementi convergono ad esprimere nitidamente la vena artistica di Jeff, sempre più in familiarità con il lettore al quale si rivolge come al potenziale complice delle sue meta-avventure. Di fatto l’interlocuzione avviene su piani che a velocità variabile permettono l’inclusione tra tutte le componenti essenziali affinché la scena resti impressa nel fondo dell’occhio e della mente del lettore posto nella condizione di interagire, di rispondere e riflettere sul modo migliore per sostenere il protagonista tanto avvezzo a fuggire dalla sua azione quanto compenetrato al punto da esserne forgiato intimamente.
Cosa importa maggiormente al personaggio Jeff se non distillare quelle certezze che regnano dentro di sé e che afferiscono ad una personalità variabile, scricchiolante come tutte le impalcature umane degne di rispetto per quella svagatezza che rende incantevoli gli imperfetti, intorno ai quali aleggia l’alone di mistero come gusto dell’ignoto, per seguire la ragione e l’istinto. È quanto rivela nell’episodio dal titolo “La scacchiera”, una metafora al gioco che la vita è, ovvero una ricchezza di messaggi subliminali, a oltrepassare e scarnificare i quali sovente ci si ritrova a fare il paio con una nube di ulteriori obliquità che non assomigliano alla vera storia, ma forse ne sono la dignitosa sembianza estirpata dal visibile solo per un fenomeno arbitrario, per non rivelare o svelare del tutto perché
Il lettore vuole l’invenzione, il
colpo di scena; il rientrare subito dopo
nell’ombra; prepararsi al prossimo scoop
ammantato però di mistero fino all’ultimo
secondo.
(“La banda dei ladri di orologi”)
Impossibile non percepire Detective Stories come un disegno ad astrattive latitudini per sanare le incolmabili incompletezze del tempo cronologico. Ogni storia è uno spazio che nasce e si nutre dei propri passi, eclettica visione di un mondo che si incastra come un’operazione meccanica e che si distanzia, sebbene sovente ne faccia menzione, dal parlare mediato dal linguaggio dell’economia, sprofondato in tronfi sintagmi statistici e frazioni che limitano il pensiero e l’immedesimazione con le fattezze e i contenuti millesimali della realtà.
L’alterazione nella narrativa apolloniana è il frutto di una prospettiva che mira a sconvolgere con variazioni che penetrano sino al fondo del lessico, delle esclamazioni, delle interiezioni, degli spostamenti, universi autonomi che sembrano opporsi alla serietà del soggetto e che invece di questo offrono un’immagine gravida di complessità e completa di convergenze psico-analitiche e descrittive. La parola, dunque, rinnova il suo aspetto sostanziale, di apertura; mantiene la supremazia in quanto habitat naturale ideale nel quale l’autore oscilla volutamente variando prospettiva all’interno di spazi geograficamente definibili, ma entro i quali è la sua consapevolezza culturale a disporre contesti e a confidare nella loro perfettibile direzionalità. Va da sé che strategica è la conciliazione tra fattori reali, elementi immaginativi e percorrenze culturali, dotati di una flessibilità che concede al tessuto una corposità che si giova anche dell’elemento farsesco, riscontrabile nelle storie in cui il soggetto portante dell’investigazione é un falso problema. Penso al mock-heroic poem “Il rapimento del ricciolo” di Pope; alle avventure di Don Quixote di Cervantes. In entrambe le opere l’eroe si ravvisa negli atteggiamenti stravaganti, nella refrattarietà all’ordinale e nella tendenza a concettualizzare la finzione assunta come logica portante dell’azione stessa. Ignazio Apolloni va oltre e consegue il miglior risultato nell’esemplare mescolanza dei generi (nei quali il giallo tende all’estremismo onirico, fiabesco, comico e commediale dell’ocra). Nulla é omesso; tutto compare ispirato, solenne e trionfale in quella che ha l’odore di una parodia mai avvezza in ogni caso a scadere nello sberleffo e nell’unpolite, tanto per riprendere una delle digressioni in lingua inglese care all’autore.
Il mondo configurato rappresenta uno spaccato di grave valenza culturale, una suggestione per nomi e coincidenze che consentono di progettare una ricerca assimilabile alla più grande delle peripezie (dal titolo di una delle Detective Stories) e sostenere i lettori a farsi un po’ più di cultura. Perché – puntualizza l’autore – È noto però come la gente sia pigra.
Apprezzabili la fluidità e la naturalezza con cui l’autore si avvantaggia delle sue innumerevoli conoscenze, con un’inclinazione palese a lasciare che la fenomenologia e la logica razionale si lascino convertire ad una sapiente, insolita, soggettiva constatazione della mutevolezza costante della condizione dell’uomo, che pone al vaglio e contemporaneamente indaga sulle affastellature di quel visibile che si relativizza per reciproca contaminazione tra i sistemi attivi di un pensiero perennemente sollecitato a superare la dicotomia fantasia e razionalizzato. In tal senso Detective Stories potrebbe configurarsi come un out of ordinary somewhere somersault, spiegabile nel possibile rovesciamento in qualche parte della mente disposta a concedere all’immaginazione di penetrare la realtà nella quale il protagonista si scopre inquieto, tormentato anche se sovente quei tormenti hanno il colore cangiante dell’arte, della letteratura o quelli grigi e funesti della guerra, del terrorismo, della bieca malvivenza.
Freudiano nell’associazione logica di ambienti conosciuti e conoscibili, Ignazio Apolloni assume la posizione di spettatore di un’evoluzione che sembra procedere nonostante lui-autore e che imprime l’ineffabile segno di arte in quanto esaustiva palingenesi per salvare il mondo. Un annuncio subliminale che accantona ogni forma pedagogica a sostegno di un’identificativa compartecipazione della conoscenza alla deviazione verso la commistione pacifica delle discordanze.
maggio 2012
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