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Dell’educare. 102
“Le mille rotte di una zattera chiamata classe”.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Ha scritto il professor Raniero Regni in un Suo saggio che ha per titolo “Essere insegnanti, divenire maestri”, tantissime volte citato in questa sezione, saggio pubblicato anni addietro sulla rivista “School in Europe”:
“(…). Saper ascoltare: si parla molto della pedagogia come scienza, ma la pedagogia è un’arte. E al centro di quest’arte c’è l’arte dell’ascolto e l’arte connessa al dialogo. Quell’arte che quando c’è fa dell’insegnante un autentico maestro, l’insegnante come maieuta. Quelle persone che, (…), sono riconoscibili come maestri, perché quando li lasci sei migliore di quando li hai incontrati. (…).”
Ho capito da subito che Luigi Galella insegnante, oggigiorno opinionista de “il Fatto Quotidiano”, possedesse quell’ “arte”. Ho seguito Galella, leggendolo con entusiasmo e grandissimo interesse e godimento, per anni ed anni quando teneva una Sua fortunatissima rubrica sul quotidiano l’Unità, rubrica che portava per titolo “Lotta di classe”. Il senso di quelle parole mi era estremamente chiaro; non la “lotta” di classi sociologicamente contrapposte, l’una contro l’altra armata, ma la “lotta” quotidiana, all’interno di una scuola burocratizzata ed immobile, condotta da docenti volenterosi ed aperti affinché tutte le “zattere”, nelle quali il nostro “poeticamente” intravvede suddivise le scolaresche, abbiano il tempo ed il modo di raggiungere la riva, una salvezza che sia.
Scrive infatti nel passo più illuminante di una Sua riflessione: “Noi come insegnanti non dovremmo fare altro che attendere che tornino sulla riva, ognuna con i suoi tempi: chi prima, chi dopo, chi mai”.
È l’arte dell’educare alla ennesima potenza che a Luigi Galella va riconosciuta. Ho sottratto all’oblio, che il trascorrere inesorabile del tempo distribuisce e deposita copioso e pesante sulle anime e sulle “cose” degli umani, un ritaglio molto datato del quotidiano l’Unità risalente al 23 di febbraio dell’anno 2004 che contiene la riflessione di quell’Autore che ha per titolo “Le mille rotte di una zattera chiamata classe”. Di seguito la trascrivo in parte.
“Sono in classe e ho di fronte le teste di ventisei ragazzi, allineate. Spesso sono costretto a interrompermi, perché qualcuno disturba o è poco attento, o perché qualcun altro mi chiede di andare al bagno. La lezione ha un andamento tormentato. Segue, assecondandole o contrastandole, le singole pulsioni degli alunni, che la accolgono o la respingono. Un incontro di intenzioni e di necessità, le mie e le loro, in certi momenti risolto e felice, in altri faticoso. Se mi volto verso alcune di quelle teste, le più interessate e attente, ho la sensazione che sia tutto chiaro; se invece mi fermo a osservare lo sguardo di altri lo trovo freddo, come se le mie parole non riuscissero ad accendere nessun fuoco interno, e fossero respinte come ostili o straniere. Chiedo: avete capito? Qualcuno dice di sì, ma la maggior parte tace. Provo a sentire se si è in grado di ripetere quanto ho appena spiegato. Il risultato è disuguale… Vengo gratificato dalla prontezza, dall’osservazione sorprendente, o rattristato dal balbettio, dalla confusione mentale. Uno sembra non capire e mi ferisce, l’altro mi entusiasma e qualche volta mi esalta. L’allineamento di quelle teste, in realtà, è fittizio. E la mia classe, anagrafica, è tale per un insieme di motivi che non hanno niente a che fare né con il livello culturale né con le capacità di apprendimento di ognuno. La classe è sempre un insieme di classi. Nella mia (…), ad esempio, c’è una profonda differenza fra il numero uno e il 26esimo. Sembrano appartenere a mondi distinti. E gli stessi ragazzi spesso hanno l’aria di chiedersi: che ci faccio io qui? Si guardano l’un l’altro come naufraghi sconosciuti che si ritrovino casualmente a convivere sulla stessa zattera. E su quella zattera si confrontano, si fronteggiano, si azzuffano. Sarebbe naturale, (…), che i numeri uno stessero con i numeri uno e gli ultimi di una classe con gli ultimi delle altre classi? Formare le classi non in relazione all’età, ma in relazione alle attitudini. Ognuno con chi gli somiglia, dentro recinti che li qualifichino per le loro supposte qualità. Zattere diverse. Prudenti, temerarie, inconsapevoli e avventate, sagge e determinate. Che galleggino o affondino, a seconda della capacità individuale di sfidare il mare aperto o della virtù di guidarle verso la terraferma. Noi come insegnanti non dovremmo fare altro che attendere che tornino sulla riva, ognuna con i suoi tempi: chi prima, chi dopo, chi mai. E che cosa importa se le zattere stracolme degli studenti ultimi faranno fatica a salvarsi, di fronte alla soddisfazione che i primi hanno appreso l’arte di arrivare a destinazione con tempestività? (…).”
maggio 2012
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