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Dell’educare. 100
“Regna un grande silenzio in quei luoghi, le scuole”.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Dell’educare. 100 “Regna un grande silenzio in quei luoghi, le scuole”.
“<Ì>(…). …quel che voglio dire è che il mio tentativo di riportare a umanità le scolaresche e di insegnare loro qualcosa non era provocato da bibliche viscere di misericordia, bensì da necessità.
Non avevo altro sistema per tenere la classe e salvarmi il sistema nervoso. Forse – anzi, senz’altro – esistevano sistemi migliori. Ma nessuno, ricordiamolo, mi aveva insegnato a insegnare. Certo. La letteratura sull’argomento abbondava; come è noto, però, gli Intellettuali di solito fanno più danno della grandine sui germogli. Spesso si trattava di opere di autori che pontificavano su pedagogia e didattica senza aver mai messo piede in un’aula scolastica (…). O, dopo avercelo messo, essendone vilmente fuggiti verso i più sereni e gratificanti lidi dell’Editoria. Qualcuno veleggiava verso il Sindacato. Altri finivano nelle Commissioni Ministeriali. Altri, atterravano nell’oasi degli Irrsae (…), sorta di misteriosa (…) creatura dell’istruzione pubblica italiana. (…).Ì>”
Ho tratto questa breve citazione da “L’ombra sinistra della scuola” – Piemme editore (2002) pagg. 320 € 14,90 - del collega/Autore Rino Cammilleri.
Ricordo bene anche le circostanze che mi portarono a “scoprire” il molto gradevole Suo lavoro editoriale. Mi trovavo nella stazione Termini di Roma in attesa di un treno che mi riportasse nel mio profondo Sud. Gironzolavo nell’attesa e così andai a finire, immancabilmente, come sempre mi accade, nella grandissima libreria in quella stazione allogata. Aggirandomi tra gli scaffali, stordito come sempre mi accade ogni qual volta vado deliberatamente a finire in quei luoghi per me “sacri”, con il mio sguardo smarrito che inseguiva affannosamente il baluginare dei miei pensieri alla vista di tanto ben di dio di carta stampata, tanto da stordirmi in una inedita, per quel luogo, sindrome di Stendhal, aggirandomi dicevo tra gli scaffali di quell’immensa libreria, il mio sguardo fu attratto dal rosso rutilante della copertina di quel volume. Lo acquistai senza tentennamento alcuno. Non ne conoscevo l’Autore ma ne “sospettai” – in verità ne indovinai - subito il contenuto. Il titolo, accattivante ed intrigante al contempo, me lo lasciava intuire. Avrei lasciato a breve anch’io la scuola, così come aveva fatto di già il collega/Autore scrivendone nelle brevi note autobiografiche. Preso posto sul treno mi fu difficile non aprire il volume acquistato; e la lettura fu subito un rapimento, un amore. Lo lessi tutto d’un fiato per il tempo che il convoglio ferroviario impiegasse per raggiungere la stazione mia di destinazione e lì, su di un lungo desolato marciapiede notturno, scaricarmi con la mente occupata in un vorticoso inseguimento di ricordi e di pensieri. Ricordi e pensieri legati immancabilmente alla mia attività di educatore.
Scrive ad un certo punto Rino Cammillerim nel Suo pregevole lavoro: “…nessuno, ricordiamolo, mi aveva insegnato a insegnare. ” Come non dargli ragione. Era accaduto anche a me d’essere proiettato, un giorno oramai lontano, in un’aula scolastica senza che nessuno mai mi avesse “insegnato ad insegnare”.
È che la difficile arte dell’educare ha anche le sue sfide, sfide che non rimandano mai ai voluminosi trattati della pedagogia, della didattica, trattati scritti sempre dai soliti soloni che non hanno mai calcato una pedana di cattedra, che non hanno mai girovagato tra i banchi occupati da una scolaresca il più delle volte annoiata, e che non rimanda a quant’altro abbia a che fare con quell’arte nobile e difficile assai. Ad educare ci si avvia sempre da soli, così come avviene allorquando la vita ci pone dinnanzi al difficile mestiere di padri e di madri. Nel corso di tutti i miei anni trascorsi tra i banchi delle scuole ho potuto apprendere, così come apprendevano i miei alunni, che solo l’accettazione del nuovo e del diverso, delle cose giuste o delle cose storte che lì dentro avvengono immancabilmente, cose storte o giuste che il lavorio quotidiano scarica spesso come violente sferzate sullo sforzo enorme che si cerca di mettere in atto per essere all’altezza del compito, solo quell’accettazione, dicevo, mi ha consentito di sopravvivere eroicamente in un ambiente non pensato né costruito per la crescita integrale delle generazioni nuove, in un ambiente non pensato né costruito per coloro che da adulti fatti abbiano la ventura di sceglierlo come ragione di vita.
Proprio in quell’anno – ripeto che si era nel 2002 – della pubblicazione di quell’interessantissimo volumetto, sul quotidiano “la Repubblica” del 12 di ottobre, appariva uno scritto del professor Umberto Galimberti col titolo “Scuola senza cuore” che di seguito trascrivo in parte. È che, in quei luoghi ove “regna un grande silenzio”, la “demotivazione” la fa da padrona sia nei confronti dei ragazzi ad essa affidati sia nei confronti degli operatori che in essa vedono sfumare le loro aspettative, le loro speranze.
Scrivevo alla pagina 188 del mio lavoro editoriale “I Professori” – AndreaOppureeditore (2006) - “
(…). Nel trascorrere dei lustri l’asfissiante gabbia entro la quale l’istituzione imprigiona gli anni migliori tanto dei ragazzi che dei docenti, unici questi ultimi nella specie umana a trascorrere e lasciare, al pari della muta degli ofidi, nelle fetide, inospitali aule, il meglio della propria vita, dall’entrarne come alunni all’uscirne come bacucchi, nel trascorre di quei lustri dicevo la consapevolezza che il mio lavoro fosse, se non inutile, in fondo ininfluente allo svolgimento regolare della vita sociale, mi ha condotto ed indotto alla persuasione di un abbandono anticipato, inglorioso forse ma utile e come toccasana, onde salvare quella parte di me stesso ancora salvabile da un ruinare verso forme sempre più perniciose di perdita del senso della realtà e, la qual cosa è infinitamente più grave, verso una completa disistima personale, innescata dalla inconcludenza della quotidiana fatica. (…).”
È la stessa “sensazione” di smarrimento che si percepisce a iosa leggendo le pagine straordinarie del lavoro di Rino Cammilleri. Avrei lasciato la scuola al settembre dell’anno 2003.
“ (…). …regna un grande silenzio in quei luoghi, le scuole, deputate al parcheggio dei giovani, dove, (…), ciò che quotidianamente si distribuisce sono dosi pesanti di demotivazione o, nei casi estremi, incentivi al suicidio tra lo stupore del collegio dei professori che, a evento avvenuto, dicono, con le loro facce stupefatte, che nulla lasciava presagire. E così alcuni giovani se ne vanno prima di incominciare a vivere, mentre la gran massa prende a vivere a quei bassi livelli in cui li mantiene un’istruzione che non si prende cura del cuore. Quando parlo di cuore parlo di ciò che nell’età evolutiva dischiude alla vita con quella forza disordinata e propulsiva senza la quale difficilmente gli adolescenti troverebbero il coraggio di proseguire l’impresa. Il sapere trasmesso a scuola non deve comprimere questa forza, ma porsi al suo servizio, per consentirne un’espressione più articolata in termini di scenari, progetti, investimenti, interessi. Infine resta la vita, e il sapere è solo lo strumento per meglio esprimerla. ”
febbraio 2012
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