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Dell’educare. 99
Della “pedanteria pedagogica”.
Aldo Ettore Quagliozzi
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“(…) L’insegnante che sa risvegliare l’interesse anche per una sola cosa, per una sola cosa buona, per una sola poesia, ottiene risultati migliori di quello che ci trasmette intere serie di nozioni formalmente e nominalmente meno importanti, perché ciò che ne esce è comunque il fatto che quella cosa risveglia quel tanto di immagine del divino che è nell’uomo (…)”
Lo scriveva un bel po’ di tempo addietro nei Suoi “Pensieri e sentenze“ un grande a nome Wolfgang Goethe. È la misura giusta del bravo insegnante, il profilo di quella “mitica” figura di maestro che ciascuno di noi avrà avuto modo di apprezzare ed amare nelle disadorne aule scolastiche, figura a volte eroica e solitaria nell’arte dura dell’educare che nulla ha da spartire, ed anzi vi si contrappone con grande energia, con un’altra diffusissima figura scolastica che è il pedante, figura quest’ultima, ahimè, molto più diffusa della prima nelle aule scolastiche del bel paese. Ho ritrovato il ritaglio della breve goethiana citazione “spillato” ad una riflessione molto più lunga che di seguito trascrivo.
Di quest’ultima, che indugia magistralmente sulla figura negativa, pedagogicamente parlando, del “pedante”, mi è impossibile attribuire la fonte; il “buco nero”, comunque, non mi distoglie di proporla ugualmente in considerazioni delle interessantissime intuizioni che essa contiene e suggerisce.
Per chiudere queste mie divagazioni che anticipano il tema del “pedante” pedagogico e della sua nefasta azione sulla educazione e formazione delle giovani generazioni offro un’altra dotta riflessione tratta dall’editoriale “Essere insegnanti, divenire maestri“ del professore Raniero Regni, editoriale pubblicato sulla rivista “School in Europe“:
“(…). … per essere dei buoni insegnanti bisogna essere maestri del divenire, dell’arte di aiutare qualcuno a divenire migliore di quello che è. (…).”
Sento così di aver colmato il mio debito venutosi a creare con il “buco nero” di poc’anzi.
“(...) Poco importa, in ultima analisi, ciò che si insegna, purché si risveglino la curiosità e il gusto di apprendere. Come inculcare nelle lobbies delle discipline una tale logica? Come far capire loro che l’obiettivo cui si tende è generico e non specialistico, che ciò che conta non è ciò che si apprende, ma il modo in cui si apprende, e che dunque non serve a nulla provare, in astratto, che questa o quella scienza è formativa, se non si prova anche che la maniera di insegnarla garantisce quello sviluppo intellettuale che dipende sia dalla maniera sia dalla materia? (...). Ecco il segreto: la virtù umanistica e formativa delle materie che si insegnano non si fonda sul loro contenuto intrinseco, fuori dal tempo e dallo spazio, bensì sul modo concreto di insegnarle, qui e adesso. Non è questione di che cosa, ma di come. (…). ... io credo che la causa principale dell’inefficacia dell’insegnamento sia la pedanteria pedagogica. Non si tratta del disturbo psicologico di alcuni, ma della malattia professionale della maggioranza. Dopo tutto, la parola pedante è voce italiana che vuol dire maestro, senz’alcuna connotazione peggiorativa... (...). Cosicché la pedanteria, ahimè, è un vizio che nasce dalla vocazione all’insegnamento, che l’accompagna come una tentazione o un’eco maligna, e che, nei casi più gravi, può giungere a renderla completamente sterile. (...). La pedanteria esalta la conoscenza in se stessa, al di sopra della necessità didattica di comunicarla, preferisce i modi intimidatori della sapienza all’umiltà paziente e graduale che la trasmette, si concentra puntigliosamente sulle formalità accademiche - che nel migliore dei casi sono consuetudini utili a chi già sa - disprezzando la possibilità di stimolare con l’affabilità i tentativi a volte disordinati del neofita. E’ pedanteria confondere, rivelare e ispirare un’obbedienza reverenziale quando si ha il compito di illuminare, informare e perfino invogliare all’apprendimento. (...). Il professore che vuole insegnare una materia deve incominciare con il suscitare il desiderio di impararla: poiché i pedanti considerano obbligatorio tale desiderio, ottengono solo di insegnare a coloro che effettivamente, già da prima, nutrono questo interesse, mai così comune come solitamente credono. (...). Il pedante si rivolge ai suoi alunni come se stesse tenendo una conferenza davanti a un consesso dei suoi colleghi più famosi ed esigenti, tutti dediti da anni alla disciplina delle sue rivelazioni. (...). ... il problema del pedante è che non vuole insegnare a dei neofiti, ma essere ammirato dai sapienti e provare a se stesso che è il più bravo di tutti. L’umiltà del maestro, invece, consiste nella rinuncia a far vedere di essere già in cima e nello sforzo di aiutare gli altri a salire. Il suo dovere è stimolare gli altri affinché siano essi a fare delle scoperte, non pavoneggiarsi di quelle che ha fatto lui. (...). Non c’è educazione, se non c’è verità da trasmettere, se tutto è più o meno verità, se ciascuno di noi considera rispettabile la sua verità e se fra tanta diversità non è possibile decidere razionalmente. Non si può insegnare niente se neppure il maestro crede nella verità di ciò che insegna né in ciò che veramente bisogna sapere. (...). Vivere in una società pluralistica impone di accettare che sono le persone a essere assolutamente rispettabili, non le loro opinioni, e che il diritto alla propria opinione consiste nel fatto che questa venga ascoltata e discussa, non che la si lasci passare senza toccarla, come se si trattasse di una vacca sacra.”
gennaio 2012
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