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Storiedallitalia.
La “fatica” dell’educare.
Aldo Ettore Quagliozzi
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“La fatica dell’educare emerge con forza (…). E’ lo scoramento profondo allorché si avverte un rovinare improvviso di una costruzione ideale, ancorché organizzativa, quale è per l’appunto la scuola pubblica italiana.
E’ lo scoprire l’impari lotta tra il mondo chiuso, a volte autoreferenziale della scuola, e il travolgente e periglioso andare del mondo ad essa esterno, con le inevitabili ricadute sulle giovani generazioni, con il loro smarrirsi al pari degli adulti genitori o educatori di fronte ai rivolgimenti storici, politici, economici e di costume che al giorno d’oggi, fagocitati in un processo di globalizzazione irrefrenabile, non concedono tempo alcuno per una loro meditata acquisizione e metabolizzazione.
E si impone il problema della lingua, e perché no, il problema dirompente e totalizzante dei moderni mezzi di comunicazione di massa. Nei miei ricordi di insegnante non potranno in alcun modo essere cancellate le amenità dei miei preadolescenti che a ben precise domande – fatemi l’esempio di un pesce -, molto ingenuamente e candidamente mi solevano rispondere Bastoncini Findus - o allorquando si richiedeva una parolina con la lettera d come iniziale rispondevano, quasi all’unisono, con uno squillante Super dash.”
Così riflettevo e scrivevo, appena lasciata anzi tempo la mia attività didattica, in quel mio volume “I professori” – ISBN 88-89149-79-5; pagg.190; (2006); € 8,00 - pubblicato per i tipi di AndreaOppureEditore al capitolo XXIV - “Ove il salto generazionale ed il gap culturale generano l’incomunicabilità” -. Era, quel libro, il bisogno di chi, avendo dedicato la propria esistenza all’attività didattica e di formazione nella scuola pubblica del bel paese, avvertiva giunto il momento di riflettere ed annotare, in un corpo unico, quel volume per l’appunto, le proprie esperienze e riflessioni arricchendole dovutamente e confortandole con le riflessioni ed i pensieri dei cosiddetti “Maestri”. E sin da allora, confortato da quella ricchissima letteratura esistente in merito, veniva fuori il quadro veramente desolante ed impressionante del degrado e dello svuotamento della indispensabile funzione formativa, per le giovanissime generazioni, della scuola pubblica italiana, degrado che chiamava in causa i governi tutti del bel paese, l’intera classe politica senza eccezione alcuna, gli intellettuali, la stessa istituzione scolastica, la diffusione incontrollata e l’uso debordante ed invasivo dei moderni mezzi della comunicazione di massa, in poche ultime parole, chiamava in causa la società civile italiana tutta.
Oggigiorno mi capita di poter arricchire quelle “memorie di insegnanti della scuola pubblica italiana amorevolmente raccolte” – così come espressamente recita il sottotitolo del volume – con una interessante riflessione dello scrittore Pietro Citati che ha per titolo “Perché ormai i nostri ragazzi pensano che studiare sia inutile”. L’interessantissima riflessione è stata pubblicata di recente sul quotidiano “la Repubblica”; di seguito la trascrivo in parte.
“Quando, l'estate, vado al mare, prendo volentieri l'ombra vicino ai capanni dove giocano i bambini. Ci sono bambini di due, tre, quattro, cinque, sei, sette anni: qualcuno viene da Torino, altri da Firenze, da Prato, da Padova, da Trieste; e le voci mescolano e confondono i loro accenti. Mi piace ascoltare quel fitto o fittissimo chiacchiericcio infantile, interrotto da esclamazioni, grida, urla, pause, racconti. Fino a sette anni, i bambini parlano una lingua corposa, ricca, divertente: migliore di quella degli adulti che, lì vicino, fanno pettegolezzi o dicono barzellette. Poi vanno a scuola, ascoltano i discorsi dei professori e dei presidi, e la loro lingua si degrada. (…) Ogni mattina, alle sette e trenta, le ragazze si preparano per la scuola; jeans attillati, scarpine con un po' di tacco, cinturina di lamé, orologino Armani, brillante minutissimo alla narice destra, piccolo tatuaggio alla caviglia. Mezz'ora dopo, una massa scura occupa parlottando e fumacchiando la nebbia fitta che avvolge le scuole di Torino. I ragazzi e le ragazze hanno gli occhi cerchiati e tristi, il naso pieno di sonno, le spalle curve, le braccia penzolanti, lo sguardo perduto nel nulla, la bocca semiaperta, i capelli stanchi. Sembrano posseduti dalla noia. Nessuno, o quasi nessuno tra quei ragazzi perduti nella nebbia, ha voglia di andare a scuola. Nessuno si vergogna di questo rifiuto. Tutti detestano leggere o scrivere o ascoltare le lezioni. Qualche volta, basta ascoltarli per cinque minuti. Il lessico umano è immenso, ma i ragazzi ne conoscono pochissime parole: usano termini impropri, pasticciano, confondono ortografia e punteggiatura. Non sanno pensare. Non riescono a distribuire le idee e le sensazioni secondo una architettura. Elaborare i concetti e disporli nel tempo sembra, a ciascuno di loro, un'impresa disperatissima. Discorrono in modo vuoto e spento, con parole senza vita, senza agilità e movimento. (…). …i professori non posseggono il dono di insegnare. Nel mondo e nei libri, non esiste quasi nulla di noioso: tutto è misterioso, concentrato, enigmatico, affascinante. Basta saper capire e interpretare: ma i professori lasciano spento ciò che era spento, morto ciò che era morto. Sopra il loro capo, ci sono i volti dei presidi: sopra quello dei presidi, i sottosegretari; sopra quello dei sottosegretari, l'intelligenza sovrana dei Ministri-Riformatori. I Ministri hanno pretese grandiose, che si possono riassumere in pochissime parole: smantellare, mattone dopo mattone, la scuola: distruggere in pochi anni, o pochi mesi, gli studi, la lingua, il lessico, i significati, i vocabolari. Bisogna ammettere che ci sono riusciti. Oggi, all'inizio del febbraio 2011, rimane soltanto una vaga sembianza di quella che fu la scuola italiana.(…)”
febbraio 2011
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