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Tailleur Rosso
Michela Marziano
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Solitudine. Il significato di questa parola viene troppo spesso sottovalutato. Secondo il vocabolario significa stato di chi è o di chi vive da solo. Si sbaglia. A mio parere: “sol” sta per solo e “itudine” corrisponde a “moltitudine”. Quindi stare solo nella moltitudine. Sentirsi soli anche quando attorno a noi ci sono amici e parenti. Credere di vivere in una casa vuota anche se ospiti e invitati non mancano. Io mi sento così.
Nella mia casa ogni giorno ci sono ricevimenti, feste e intrattenimenti vari.
Mi sento solo perché le persone che vi partecipano non sono certo interessate ai miei stati d’animo, al mio carattere, ma solo a frequentare la mia ricca e nobile famiglia. Sembrano omologati, si comportano allo stesso modo. Sorridono. Si complimentano con te. Ti elogiano. Ti chiedono favori.
Ma un giorno è arrivata lei. Sembrava Audrey Hepburn.Un tailleur rosso classico, un rossetto molto scuro dello stesso colore e un lungo bocchino delle sigarette. Questi elementi bastarono per farmi decidere che dovevo conoscerla.
La festa era per il fidanzamento di mia sorella. Non ero molto interessato alla cosa. Avevamo sempre avuto un rapporto burrascoso, dovuto alla sua avidità, che, volendo, l’avrebbe spinta anche ad uccidermi, per appropriarsi dell’intera eredità.
Mi avvicinai verso di lei. Certo non mancavano cavalieri che le accendessero il bocchino,o che la intrattenessero in lunghi e affascinanti discorsi filosofici, o che la invitassero a ballare.
Io non ho accendini, non sono un gran chiacchierone, non mi è mai piaciuta la filosofia e non ho mai imparato a ballare. Che speranze avevo?
Mi avvicinai ancora. Passo dopo passo mi sembrò di essere un atleta che raggiunge il traguardo. Un cacciatore che si avvicina alla preda. Ma questo è stato un brutto pensiero. Troppo carnale e superficiale per un uomo come me.
Lei non faceva altro che sorridere a chi le accendeva il bocchino, annuire alle parole dei cavalieri filosofi e accettare, a parer mio a malincuore, di ballare.
Percepivo noia e disinteresse nei suoi fulminei sguardi, non tanto verso di me, ma verso l’immensa sala in cui si trovava.
Decisi che la dovevo incontrare anche solo per il piacere di farla sorridere, annuire e ballare con una spontaneità che lei non conosceva.
Ecco. Ero accanto a lei. Ovviamente non fui notato da nessuno. C’era un tale via vai di cavalieri che suscitava l’invidia, e in qualche caso anche la gelosia, di tutte le donne presenti.
In questa confusione vidi che le cadde un guanto. Anzi, più precisamente lo lanciò verso la direzione voluta. Lo interpretai come un gesto disperato. Un gesto, speravo, rivolto verso di me, a sua insaputa.
Nessuno si accorse di niente. Mi precipitai verso quel guanto con una velocità e precisione che non mi avevano mai caratterizzato. Lo afferrai delicatamente con le mie mani, che non erano mai state così morbide e soavi al tatto.
Glielo porsi con un uno sguardo di pietà verso la sua disperazione e con un sorriso ironico che solo lei poteva notare.
Lo notò. Mi sorrise. Le si arrossarono le guance. Un rosso abbinato perfettamente al tailleur.
Le chiesi se voleva prendere un attimo aria e uscire in giardino. Non ci pensò. Afferrò con decisione il mio braccio e andammo fuori.
Ero al settimo cielo. Sorridevo spavaldo e soddisfatto alle facce deluse e amareggiate degli altri pretendenti.
Il giardino era stranamente luminoso quella sera, stranamente romantico, e i profumi dei fiori, che detestavo, quella sera erano profumatissimi e gradevoli.
Ci sedemmo su una panchina. Ci scambiammo uno sguardo e per questo ridemmo intensamente. Ero felice perché sapevo che stava ridendo per sua volontà e non per essere cordiale e beneducata. Non si stava nascondendo dietro quella maschera che proprio quella sera, poco prima,avevo scoperto silenziosamente.
Incominciammo a scambiarci qualche parere sulla casa, la festa, le persone invitate e i loro comportamenti. Ridemmo ancora.
Restammo lì a parlare non so per quante ore, ma la nostra chiacchierata, per me, fu tanto intensa quanto breve. Volevo, dovevo incontrarla ancora.
E fu così che ci frequentammo per un anno.
Inizialmente i nostri incontri si limitavano a una chiacchierata su un libro che avevamo letto o un film che avevamo visto.
Poi l’amore ci travolse. All’interno del nostro rapporto non esisteva la banalità, evitavamo i luoghi comuni, le solite frasi, le stesse parole che usavano le coppie di tutto il mondo. Noi eravamo un mondo a parte autonomo e indipendente dal resto dell’universo. Un pianeta invisibile agli occhi degli altri. Un pianeta che nessun telescopio avrebbe notato.
Ci incontravamo sempre, a qualsiasi ora del giorno e della notte.
In tutti i luoghi. In biblioteca, vicino al lago, al museo, alla conferenza politica, alla presentazione di un libro, ai concerti, al ristorante, al mare,in un negozio di vestiti,alla Borsa per controllare i miei affari, in gioielleria.
Le regalai un anello d’oro con un diamante. Un pezzo unico e raro, prezioso proprio come lei.
Decidemmo di sposarci. I nostri genitori volevano una chiesa importante e grande di una città e famosa. Noi no.
Io desideravo una chiesetta di un piccolo borgo molto pittoresco dove trascorrere i primi giorni dopo le nozze. Abitata da gente semplice e modesta. Accogliente ma non invadente.
Lei era perfettamente d’accordo con me. Eravamo sempre in sintonia. In simbiosi. I nostri cuori formavano una sola anima. Le liti erano rare, ma intense. Duravano poco. Si concludevano sempre allo stesso modo. Dopo aver litigato incominciavo a parlare dell’ultimo film, dell’ultimo libro, dell’ultima visita al museo. E tutto si riappacificava.
Ci sposammo in un paesino sconosciuto da tutte le mappe esistenti, un posto il cui nome ora mi sembra tanto lontano e superficiale.
Eppure, non so perché, ho sempre avuto l’impressione che questo nostro rapporto, l’anima che formavamo, fossero in bilico, come su un burrone, e una piccola spinta, un soffio di vento l’avrebbe rovinato.
Fu lì che soffiò il vento, che qualcuno diede una spinta a me a lei. Soprattutto a lei.
Mi sembra incredibile che la vita di una persona tanto giovane e bella si possa concludere tanto precocemente quanto violentemente. Ricordo tutto degli istanti in cui il sorriso comparve per l’ultima volta tra le sue labbra. Era felice. L’avevo resa felice.
E passò velocemente una macchina. Una spider rossa splendente. La macchina che avevo desiderato da sempre, ma che non avevo comprato mai, non perché mi mancassero i soldi, ma perché avevo paura di non esserne all’altezza, di possedere uno status-symbol che mi avrebbe reso diverso. Chissà se quel folle autista abbia mai pensato a questo. Date le conseguenze direi di no.
L’unica cosa per cui sono felice è la certezza che lei non abbia sofferto, è morta sul colpo. Non si è accorta di niente.
Per questo da quel giorno mi sento solo, solo anche se, come ho detto, la compagnia non mi manca.
La mia vita ormai non ha scopo, non ha una finalità, su cui prima la mia mente e la mia anima erano completamente incentrate.
Ho appena ricevuto l’invito per la festa di divorzio di mia sorella … Che strano! Ho sempre pensato, forse ingenuamente, che il divorzio fosse una fase difficile e complicata della vita, che porta solo al dolore. Un dolore che io e lei non avremmo mai conosciuto.
Certo il mio umore non era adatto per questo ricevimento, ma decisi di andarci comunque.
Mia sorella mi ha accolto molto velocemente, con i soliti salamelecchi che si usano per i conoscenti. Conoscenti. Questo siamo.
Mi siedo. Nella sala c’e un frastuono enorme, radio, stereo, grida, saluti, chiacchiere….i rumori a cui sono abituato e che ho sempre odiato.
Ma improvvisamente era come se l’unico rumore della sala fossero i passi angelici di una donna.
Una donna bellissima con un tailleur rosso.
dicembre 2010
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