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Le umane metafore dell'infinito
Mario Amato
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L'ingegnere, l'ultimo degli scribi
È l'ultimo di un elenco di nomi mai pronunciati e rimasti ignoti attraverso i secoli. Esistono congetture attorno alla lista: alcuni eminenti studiosi, al cui novero noi non apparteniamo, ritengono che il catalogo non sia stato mai compilato e che sia una mostruosa assurdità soltanto pensare a nomi mai articolati e che quindi sia un accorarsi sterile cercare un inventario probabilmente inesistente; tuttavia è su questa probabilità che i primi si scontrano con altri autorevoli pensatori, i quali sostengono, appellandosi alla moderna scienza della matematica, che non vi sono limiti alle possibilità e pertanto deve essere considerata l'eventualità che da qualche parte sia nascosta la prova concreta dell'enumerazione dei nomi anonimi. I primi replicano che è una contraddizione in termini, un postulato ove il primo elemento neghi il secondo e chiedono chi mai possa avere inciso quest'inutile sommario attraverso i secoli.
Trascurando per ora l'annosa e forse noiosa diatriba scientifica ed entrando nel racconto, affermeremo che l'uomo del quale narriamo era l'ultimo della stirpe degli scribi.
Ogni essere vivente è la somma di molti elementi; sia per ciò che riguarda la sua mente, sia per ciò che possiede, egli è il risultato delle sue azioni e dei suoi desideri, qualsiasi effetto abbiano avuto, dell'ambiente in cui vive e, ciò che più interessa in questo racconto, dei geni ereditati dalle generazioni che lo hanno preceduto.
Dal suo più diretto e vicino antenato l'ingegnere Maurizio Rossi aveva ereditato un'abitazione sita in un luogo arido e disperso e dalla sua intera progenie un sogno colpevole.
Il modo in cui il cronista sia venuto a conoscenza di quest'ultimo nome sarà chiarito durante l'esposizione stessa degli eventi. Lo scriba degli scribi, la prima voce del sommario, ritto al leggio, le braccia inerti, lo stilo privo di vita poggiato sopra la tavoletta incisa con segni chiari ed ordinati, aveva guardato il sole levarsi lentamente all'orizzonte e colorare il mondo d'infinite tinte e fra quei balenii aveva creduto di intravedere la lettera già una volta percepita durante le ore del sonno, il segno primigenio che generò in un tempo remoto tutti gli altri, il geroglifico che racchiude il segreto della creazione, l'impronta graffiata per la prima volta da un uomo su una roccia o su un albero o sulla nuda terra.
Aveva ripreso lo stilo nell'esperta mano ora tremante, ma come i colori dell'aurora erano scomparsi fra la bianca ed accecante bianca luce del giorno, similmente la traccia era svanita dalla sua memoria ed essa era una terribile pagina bianca ed egli, che conosceva molteplici scritture e sapeva copiare ogni lettera con precisione, non era stato in grado di riprodurre quella appena intravista.
Egli sapeva, come tutti coloro che praticano il mestiere della grafia, che il senso delle parole oltrepassa quello apparente e che è nascosto fra vocabolo e vocabolo, fra lettera e lettera, ma che deve esistere un segno, una traccia, un'incisione capace di spiegare il senso d'ogni scrittura.
Da allora il suo sonno divenne sempre più inquieto e i risvegli furono agitati dalla aspettazione vana di discernere nella memoria l'impronta già una volta scorta.
Allorché veniva chiamato per registrare le storie di qualche aedo o qualche narratore o per iscrivere un editto o una sentenza, egli prestava attenzione alle parole che gli venivano dette e tentava di riprodurle con zelo sulla tavola incerata, ma su essa apparivano soltanto cenni indecifrabili, lacerti di lettere privi di significato, inizi di linee e curve ed egli, rimproverato, adduceva a sua discolpa la storia di una luminosa alba e di un segno prezioso, ma anche le sue parole erano soltanto confusi balbettii, frantumi di parole, relitti di pronunce.
Su di lui scese il silenzio della scrittura.
Ad ogni alba egli conficcava lo sguardo verso il sole, finché gli fu chiaro che doveva incamminarsi, poiché soltanto la ricerca avrebbe appagato la sua brama.
Esistono argomentazioni differenti anche intorno allo scriba: alcuni presumono che quest'individuo non sia mai vissuto, poiché essendo molte le scritture, appare impossibile che vi sia stato un solo primo scriba e questi esperti deducono dal loro presupposto iniziale che in più luoghi contemporaneamente si siano palesati vari scribi, ma i loro oppositori ribattono che non c'è invenzione, e la scrittura non fa eccezione, apparsa nel medesimo momento in tutti i luoghi e che quindi o si deve necessariamente limitare la prima teoria a poche terre e pochi popoli oppure si deve tenere valida l'ipotesi secondo cui vi fu un popolo o un uomo che inventò i segni grafici che chiamiamo lettere.
Da parte sua il narratore non propende per nessuna delle due ipotesi e tiene a precisare che egli non racconta la storia del primo scriba assoluto, bensì di colui il cui nome sta iscritto alla sommità della lista innominabile; ed accenna qui all'idea che forse la scrittura non è un artificio umano, come lascia pensare l'epigrafe iniziale, poiché i poeti spesso giungono alla verità per via intuitiva più chiaramente di qualsiasi ragionamento che procede a passi ben misurati con criterio logico.
Lo scriba partì alla ricerca del suo sogno, esplorò ogni angolo, agio, ambiente, città, contrada, landa, guardò innumerevoli sassi, esaminò alberi, analizzò altre grafie, ispezionò iscrizioni, ed il suo sogno si consunse nel freddo delle notti e nelle infinite solitudini dei deserti e delle steppe, si consumò nel suo stesso silenzio. Prima di lasciare la terra gli fu concesso tuttavia di poter vedere ancora una volta il grafema distinto in quell'alba lontana ed egli lasciò alla sua discendenza quel sogno logorato dal desiderio.
Egli aveva sfogliato mille e mille volumi, si era fermato a lungo nelle biblioteche, aveva interrogato sapienti, aveva invocato gli dei e le forze oscure delle tenebre nella speranza di penetrare il mistero recondito, di poter comprendere il senso dell'ordito inesplicabile di tutte le scritture.
Lasciò questo mondo senza immaginare che dopo di lui altri uomini avrebbero escogitato altri segni che vengono combinati insieme in modo diverso in luoghi diversi ed altri sistemi per scrivere, altre forme per lasciare memoria di sé, poiché chi è dedito a questo esercizio è cosciente di avversare il più crudele dei nemici, l'oblio.
Ci fu un tempo indefinito, come è sempre il tempo vero dei miti, in cui fra ogni popolo viveva onorato e riverito un narratore; era il tempo in cui i popoli migravano di terra in terra ed onoravano le forze della natura. Durante quei lunghi e faticosi viaggi, a sera essi accendevano un grande fuoco e sedevano attorno alle fiamme chiuse da un cerchio di pietre; un uomo iniziava a parlare e tutto si faceva silenzio, mentre egli narrava eventi di dei e di eroi e di come il mondo fosse nato e di come il suo popolo avesse appreso l'arte della caccia e della pesca e del costruire dimore e della danza e del canto; non c'erano scribi in quel tempo, poiché il narratore ripeteva sempre le stesse storie, ma le parole si rinnovavano di volta in volta e rimanevano nella mente degli uditori ed ancor più nel loro cuore.
Un altro popolo - le storie dicono d'Oriente - venne e recò un artifizio che ancora stupisce. Era il popolo degli scribi: uomini e donne e bambini si riunivano intorno al bagliore della legna ardente ed ascoltavano un narratore, ma vicino a lui v'era sempre un altro uomo ritto o assiso che ascoltava con attenzione ogni parola e incideva una lastra di pietra ed avveniva che gli altri uditori lasciassero quel consesso o si distraessero o parlassero fra loro incuranti di disturbare colui che parola dopo parola ripeteva per loro la storia; l'incisore era onorato da tutti, a lui venivano recati doni ed era tenuto in grande considerazione.
Il popolo degli scribi insegnò ad altri la propria sapienza, ma dimenticò di rivelare la fonte di essa ed ammonì che nessuno mai la cercasse, poiché ogni segno è sacro ed è empio colui che cerca di spiegarlo.
Di uomo in uomo, di gente in gente, di terra in terra, la scrittura si tramandò.
Io sono uno di quei peccatori.
Dopo il viaggio dello scriba, altri scribi ed amanuensi vagarono per il mondo per pianure, mari e monti e nessuno trovò la traccia antica.
Intorno a questi uomini molto si narra, ma noi accenneremo soltanto a qualcuna delle infinite storie.
Interessante ci pare quella di un monastero di amanuensi, ove il primo giorno dell'anno i monaci si riunivano all'alba- poiché ogni alba è la nascita del mondo- in numero di ventitré ed ognuno pronunciava in modo solenne le parole: «Io sono una lettera, io sono un geroglifico, un piccolo segno nella trama senza termine dei segni», e successivamente uno fra loro partiva alla ricerca della prima lettera, ma le storie di questi viaggi omettono di dire se mai vi fu qualcuno che fece ritorno.
Non è da escludere che qualcuno fra quegli asceti abbia trovato la lettera delle lettere e che essa sia ora custodita nel convento in qualche estremità del globo in modo da non permettere più a nessun uomo di dannare la propria anima, ma per quanto essa possa essere ben celata e preservata, non si possono eliminare i sogni dall'anima degli uomini e soprattutto quello di poter penetrare l'arcano della conoscenza finita.
Io ho dannato l'anima nella ricerca.
Molte sono le scritture, cuneiformi, orizzontali, da destra a sinistra, che scorrono come fiumi eterni, a cerchio quasi volessero contenere il mondo intero, verticali che si elevano verso il cielo a toccare gli astri, perpendicolari verso il basso in direzione del centro del mondo.
Fra esse, fra i milioni di caratteri delle grafie si nasconde l'enigma del mondo.
Come il primo scriba, i suoi discendenti non trovarono il marchio antico ed ognuno lasciò al proprio lignaggio il sogno.
Il narratore, che a questo punto non sa se appartiene alla moltitudine di quelli antichi o agli scribi, deve ora avvertire un cambiamento di tono nella esposizione di questi fatti, poiché finora essa ha riguardato eventi antichi, dei quali sarebbe inutile cercare testimonianze, se non quella che può essere concessa alla fantasia; gli accadimenti dei quali si parlerà in seguito concernono una storia di tempi moderni e tuttavia colorati di antichità.
La modernità risiede nella circostanza che il Signor Maurizio Rossi era esperto, i libri affermano il massimo conoscitore, delle macchine attuali delle memorie antiche, poiché ogni memoria non può che registrare ciò che è passato; il colore antico del racconto è posto nel sogno che giunse fino a lui.
Una pagina nera stava dinanzi all'ingegnere, la finestra del suo studio era aperta sulla notte, scendeva una candida neve, s'udiva il sibilo sommesso del vento, lontano pulsavano gli astri. Egli non aveva uno stilo, non una penna, non un calamaio, bensì lo stesso strumento su cui il suo racconto viene scritto, vale a dire il modernissimo elaboratore che egli stesso aveva pazientemente costruito mettendo insieme i più sofisticati ritrovati della scienza.
Mentre l'anonimo respiro del congegno elettronico annunziava che stava per prendere vita, il Signor Rossi volse lo sguardo oltre la finestra fino alle stelle e gli parve di ravvisare un carattere fra di esse, un conio mai visto su nessun libro, su nessuna fessura di quelle atte agli strumenti sui macchinari che usava e progettava e che pure nella sua mente era presente, ma solo ora si manifestava in modo chiaro.
Egli era tuttavia fiducioso nella sua disciplina ed era persuaso che il segno appena comparso dovesse esistere nella realtà, poiché nulla di ciò che si vede è irreale.
Noi non riteniamo valido questo assunto che pretende di porre in un confine angusto i sogni e l'immaginazione e crediamo al contrario che tutto ciò che è creato dalla fantasia, solo per lo stesso fatto che è stato pensato, esiste.
Maurizio guardava lo schermo che lentamente si colorava e si riempiva di immagini e fra esse apparve, per una insensibile frazione di secondo, un'icona non contemplata dalla memoria dell'apparecchio, ma non era una lettera, era un volto, ad un tempo familiare e sconosciuto.
L'ingegnere, in verità, era uso a scoprire all'interno del suo elaboratore rappresentazioni e funzioni che aveva dimenticato, così come accade a volte ai possessori di biblioteche molto fornite di posare gli occhi su un volume comprato molto tempo addietro e posto in un luogo insolito. Costoro si sentono felici per la scoperta e si affrettano ad aprire il testo appena capitato fra le mani e a leggerlo con gioia per non dimenticarlo ancora una volta.
Capita anche di riporre un libro e dimenticare il luogo ove lo si è messo e allora, sebbene la biblioteca offra altre piacevoli letture, si viene presi dalla smania di leggere proprio quel testo e si comincia ad esaminare uno ad uno tutti i volumi degli scaffali. Spesso la ricerca dura secoli.
Questa circostanza aveva luogo nello studio dell'ingegnere in quella notte: egli cominciò dapprima a cercare con ordine fra le immagini, ma esse non avevano niente di nuovo, poi ricordò di avere visto nelle altezze del firmamento la lettera delle lettere ed associò le due visioni aprendo lo sguardo sulla mappa dei caratteri, ma le sue speranze andarono deluse.
Anch'egli come lo scriba degli scribi e come tutti i suoi diretti avi stava compiendo l'antico viaggio, tuttavia possiamo immaginare che il primo e molti altri dopo di lui non ebbero né mappe né cartine topografiche che li guidassero nei loro itinerari e che indicassero i percorsi più agevoli e fontane ove appagare la sete o locande ove ristorarsi e riscaldarsi. Sono forse mai piani i sentieri che conducono alla conoscenza? Al contrario, essi sono erti e pietrosi e sovente la fatica può cangiarsi in accidia; ma simili sono le strade dell'immaginazione, poiché anch'essa è una forma di sapienza, di una saggezza molto spesso misconosciuta, ma negarla equivale a disconoscere la storia stessa della semenza umana.
La vita è un sogno, ma sconosciuto è il possessore del sogno.
In questo nostro tempo possiamo peregrinare per il mondo e contemporaneamente non affrontare i pericoli che un viaggio sempre presenta. È pur vero che coloro che ascoltavano i racconti dei narratori o dei viaggiatori stessi -come non pensare ad Odisseo?- si figuravano nella mente i luoghi e le creature di cui sentivano parlare, ma noi fratelli della modernità possiamo vedere realmente le immagini.
È da chiedersi se questa possibilità non sia un limite alla stessa facoltà di rappresentazione.
Il volto comparve nuovamente sulla nera pagina, il viso decrepito di un uomo indurito dalla stanchezza e da mille solitudini, attraversato da solchi, contornato da folta candida peluria. L'uomo parlò, sebbene il Signor Rossi non sapeva distinguere se la voce provenisse dal vecchio o dalla macchina; molte raccontò avventure meravigliose e soavità decorava le sue parole; nel viaggio aveva dimenticato tutte le lettere che un tempo con maestria effigiava, ma non l'unica che cercava; confessò la sua ambizione:
Un sogno ti lasciai dall'alba di tutti i mondi
Cerco il segno primigenio
Sono fredde le notti nelle steppe
Bruciano i venti dei deserti
Nel cammino bruciai il bastone
Per scaldare le membra invecchiate
Sui nodi era segnata la lettera
Ma qui sta il mistero
Dalla cenere nasce la terra fertile
Il libro perduto
Non ritrovai mai più quel libro.
Ogni lettore ha il suo autore e il suo libro preferito, sebbene abbia altresì l’idea che esista un altro scrittore e un altro libro che possa affascinarlo in misura maggiore. È la ricchezza ed allo stesso tempo la maledizione di ogni lettore.
Mi accadde, quando ero ancora un adolescente, di scovare nella fornita biblioteca di famiglia un vecchio volume, dalle pagine ingiallite, con una copertina dal colore sbiadito, che recava sul dorso, quasi illeggibile, un prezzo ridicolo per quei tempi, ma forse dispendioso per quelli in cui era stato acquistato. Non so ancora adesso se l’avesse comprato mio padre, mia madre, o qualche lontano avo; non certo mio fratello, era di poco maggiore di me.
Già allora ero un lettore eternamente insoddisfatto, come deve essere un buon lettore, e sempre alla ricerca di qualche nuova storia.
Il volume, nascosto dietro altri libri, mi parve abbandonato: da quanti anni nessuno lo apriva? Chi era stato l’ultimo a leggerlo? Qualcuno lo aveva letto? Un tempo doveva essere stato un libro edito in edizione elegante e raffinata come dimostravano i lacci ben annodati, che occorrevano per chiuderlo.
Quel volume suscitò nel mio cuore pietà, poiché l’attaccamento ai libri è davvero una sorta di amore bizzarro. Povero libro! Dimenticato in un angolo dello scaffale, ricettacolo di polvere e di chissà quali strani elementi!
Lo tirai fuori dal suo annoso spigolo e mi sedetti sulla poltrona a dondolo posta vicino alla finestra, attraverso i cui vetri iniziavano a filtrare i raggi del tramonto. Guardai il volume sulle mie ginocchia, ma perfino il titolo, che doveva essere in caratteri dorati, era indecifrabile, così come il nome dell’autore. Sperai che almeno le pagine fossero leggibili. Con cura snodai i lacci ed aprii il libro: i caratteri erano antichi ma chiari. Mi sentii felice. Il sole era tramontato, sicché accesi il lume.
Non sono esperto di filologia, ragione per la quale non saprei dire l’anno di edizione del testo, ma la frase al centro della prima pagina mi sorprese: il libro che spiega tutti gli altri libri(1). Avevo letto queste parole su qualche altro libro, ma in quel momento non ci pensai.
Alla luce della lampada e della luna piena che era apparsa in cielo, iniziai la lettura, proponendomi di continuare per qualche ora, dimenticando però che questi progetti per un lettore sono illusori, poiché, una volta che si apre un libro, non è colui che legge a decidere il tempo della lettura, bensì è il libro stesso a stabilirne la durata. Non so dire neppure se il libro fosse stato stampato da una casa editrice o fosse opera di un paziente amanuense, ma non sono un collezionista e ciò che conta per me è il testo, il suo significato ed il suo senso. Sono propenso a credere che fosse stato uno di quei monaci curvi su preziosi fogli ad incidere ogni lettera del volume: al freddo, con l’unica luce di un cero, essi respiravano l’odore dei libri e cessavano la loro vita solo quando la nobile missione era compiuta.
Quale meraviglia deve essere stata per quel frate trascrivere quella prima frase! Quale ottusità nel non vedere ciò che avevo davanti agli occhi! Da quella stupidità è scaturito il mio destino! Non credevo che potesse esistere un libro che spieghi che tutti gli altri, che introduca al meraviglioso e irrisolto mistero della scrittura. Non lo credo neanche ora. Con riverenza e curiosità, sebbene i due termini siano in contrasto, voltai la prima pagina, convinto che quelle prime parole fossero veritiere.
La prima parola del testo o forse la prima lettera, che non oso rivelare, mi affascinò. Può una semplice parola o una lettera affatturare? E se fosse la prima lettera scritta da un uomo su una roccia che il tempo ha eroso, sulla corteccia di un albero che un boscaiolo ha tagliato per farne legna da ardere, sulla sabbia del deserto che il vento ha confuso? Questo pensiero, che in verità saliva dal libro insieme al suo odore acre di vecchiume, occupò alcune ore, prima che potessi iniziare la lettura.
Leggevo insieme al silenzio della notte, delle stelle e della luna, ma era come se udissi una voce provenire dalle pagine consunte; a volte la voce era sofferente, a volte era gioiosa, altre ancora era serena come quando si narrano storie. La voce, che cominciavo a credere reale, invadeva tutta la stanza, recitava talvolta preghiere, talvolta intonava canti, talvolta si concedeva pause brevi o prolungate. Ed anche la notte si prolungava: l’alba inviava i suoi raggi. La lettura era terminata. Chiusi il libro, riannodando i lacci, e lo lasciai sulla scrivania.
Trascorsi un giorno colmo di tormento: pensavo in ogni attimo al libro che spiega ogni altro libro, ma non riuscivo a comprendere quelle parole, a risolvere l’enigma.
A sera tornai nella biblioteca, ma il libro era svanito. Dubitai di averlo abbandonato sulla scrivania e cominciai a cercarlo tra gli altri volumi. Invano! Per giorni e giorni lo cercai in ogni stanza della casa, in cantina, in soffitta. Forse non esisteva, forse era stata la mia fertile immaginazione a crearlo, forse la speranza che potesse veramente esserci da qualche parte un libro simile.
Col tempo dimenticai completamente il libro e la notte in cui lo avevo letto, finché mi accadde, in una notte di luna piena del tutto simile a quella così lontana, di ricordare il testo parola per parola, lettera per lettera.
Ebbi un’idea malsana! Riscrissi tutto il libro!
Mentre scrivevo, mentre incidevo le lettere con la pazienza dell’antico amanuense, tutto mi appariva chiaro, scorrevole, mi pareva di penetrare i segreti del mondo, della scrittura, della creazione. Un terribile peccato di superbia! Ero io stesso l’amanuense: non mi trovavo più nella mia biblioteca, bensì nello scriptorium del convento, alla luce di un cero e, sebbene le finestre fossero chiuse, sentivo alle mie spalle il vento gelido.
All’alba avevo portato a tempo il mio faticoso compito. Ed ancora una volta non vedevo ciò che avevo dinanzi agli occhi! Il peccato più amato dal maligno è la vanità! Chi conosceva il libro? Soltanto io! E se pure esso non spiegava tutti gli altri libri, era un testo di notevole importanza. Il mio nome si sarebbe aggiunto a quello di uomini celeberrimi!
Mi recai di persona presso una casa editrice e consegnai il manoscritto, attribuendo a me stesso la sua creazione. Nel giro di un mese esso fu edito, ma non avevo visto ciò che avevo avuto dinanzi agli occhi sia quando avevo letto il libro, sia quando l’avevo riscritto: se l’amanuense l’aveva copiato, esisteva una prima originale copia. Perché mai non l’avevo capito?
L’ho compreso solo quando i due poliziotti mi hanno accompagnato in quest’angusta cella, dove continuo a scrivere sempre lo stesso inutile libro, che non spiega tutti gli altri libri …
NOTA
1) Vedi Borges, Jorge, Luis, La biblioteca di Babele
Amori di carta
Esistono molti modi di sconfiggere l’insonnia: ricorrere a farmaci, i quali tuttavia sono senza eccezione dannosi, cambiare talamo, stancarsi fino alla spossatezza durante il giorno e sicuramente altri, dei quali tuttavia non sono a conoscenza, poiché io stesso mi sono arreso all’insonnia, considerandola ora una cara compagna.
Giacomo Casanova(1), che era solo un omonimo del grande amatore, aveva nella sua vecchiaia un metodo del tutto personale: ricordava le sue amanti in ordine alfabetico. Il fatto che avesse un nome tanto noto lo aveva condizionato per tutta la vita: fin dall’adolescenza, fin da quei primi tempi in cui si cominciano a sentire le prime pulsioni d’amore, ad incrociare gli sguardi delle rappresentanti dell’altro sesso, Giacomo aveva creduto che la sua vita dovesse essere dedita completamente all’amore e a questa missione si era dedicato.
Quando poi la vecchiaia aveva spento definitivamente ogni ardore nel corpo e nell’anima, si era ritirato in perfetta solitudine nella sua abitazione, ma ben presto era arrivata l’insonnia a tormentarlo.
L’insonnia è una malattia diffusa nei vecchi, ma Giacomo si era convinto, chissà per quale strana ragione, che la sua fosse frutto di qualche peccato o di tutti i peccati commessi nella sua vita: una fanciulla illusa e abbandonata, un adulterio che aveva distrutto una famiglia, un tradimento consumato a danno di un amico, una promessa d’amore non mantenuta.
Nella ricerca di questa colpa Giacomo trascorreva le notti. Iniziava ovviamente dalla lettera “A”, ma ogni lettera era associata ad un luogo diverso e quando rivedeva con la memoria la donna amata, viaggiava nuovamente per quelle terre che lo avevano ospitato.
La prima lettera “A”: “Anna”(2), conosciuta in Russia, a San Pietroburgo, durante un ballo in un palazzo nobiliare, le era apparsa in un vestito di velluto rosso, con un’ampia scollatura che metteva in risalto il seno candido e contrastava con i capelli corvini dai riflessi blu, raccolti dietro alla nuca, di modo che spiccasse la bellezza del viso e degli occhi, che non comunicavano modestia ma neanche alterigia, bensì ardimento. Giacomo ricordava con esattezza ogni particolare della donna e del luogo: le tende rosse alle finestre, le luci abbaglianti, gli uomini in divisa e quelli in eleganti abiti borghesi, ma al centro dei ricordi e della sala c’era lui che danzava con Anna in un vertiginoso valzer. Ricordava ancora tutti gli appuntamenti con la donna sposata, gli alberghi di periferia, teatri squallidi del loro amore, dove Anna entrava senza vergogna, mentre egli, Giacomo Casanova, prima di varcare la soglia, si guardava intorno timoroso che il marito, ufficiale di polizia, avesse fatto pedinare la moglie. Nelle narici di Giacomo entrava l’odore del tè dal samovar, nel palato il sapore della vodka, nelle orecchie il suono della lingua ignota, nelle membra il freddo insopportabile nelle strade della città. Il ricordo diventava però doloroso allorché scorreva sugli infiniti sotterfugi ai quali i due amanti erano stati costretti a ricorrere, fino a quando diveniva insopportabile. Anna gli aveva comunicato di essere decisa ad abbandonare il marito per vivere per sempre con lui. Giacomo non aveva avuto il coraggio di rifiutare ed aveva lasciato che la sua amata tornasse a casa e preparasse i bagagli, anzi le aveva descritto con parole fascinose la loro futura vita, ma appena rimasto solo, aveva egli stesso apprestato le valigie ed era corso alla stazione, salendo sul primo treno con la destinazione più lontana. Non una lettera ad Anna!
Il sonno non giungeva. Giacomo spalancava gli occhi e si trovava nella sua camera. Bisognava richiamare altri ricordi, procedere fino alla lettera “B”: “Beate”(3)! Era una donna esile, quasi evanescente, vedova, con un figlio adolescente, conosciuta durante una villeggiatura in una località alpina. Ella sembrava curarsi soltanto del figlio: sedevano ambedue al tavolo della sala da pranzo dell’albergo, senza guardarsi mai attorno; la donna aveva lo sguardo basso; perfino il suo modo di camminare sembrava esprimere modestia. Non era forse una bellezza, ma c’era qualcosa di misterioso in lei, un segreto da carpire. E Giacomo lo carpì! Usò pazienza e gentilezza. Le lunghe passeggiate tra i boschi, con tutto quello che seguì, fecero rivivere a Giacomo i primi amori adolescenziali, i primi baci tra le pinete durante le vacanze al mare. Anche questa volta egli lasciò che la donna fosse invasa dalla passione, che trascurasse il figlio, malato di tubercolosi. Promise ancora di non abbandonarla e di trasferirsi nella sua città, promise ancora e fuggì. Nel ricordo gli sembrava di aver visto Beate e suo figlio con le valigie in mano, in attesa della carrozza per il viaggio di ritorno, ma forse era una visione dovuta soltanto al suo senso di colpa.
Il sonno non giungeva. Era necessario passare alla lettera “C”: Caterina! Un ricordo meraviglioso e terribile allo stesso tempo: Caterina(4), l’unica donna che lo avesse fatto penare. L’aveva notata durante il giorno di Carnevale a Venezia, gli sguardi si erano incrociati, i sorrisi scambiati, poi Caterina era svanita tra la folla, con il suo vestito da strega; Giacomo l’aveva vista imboccare un vicolo, mentre lei si voltava e lo salutava, sorridendogli nuovamente. L’aveva inseguita tra le strette calli della città lagunare, ma quando credeva di stare per raggiungerla, si avvedeva che era un’altra donna con un costume simile. A sera infine la scorse di nuovo, dall’altra parte del Ponte Rialto. Ella sorrise, lo salutò e gli inviò un bacio, poi scomparve nuovamente. Fu per Giacomo la prima notte d’insonnia della sua vita: vedeva la strega correre via, faceva per abbracciarla, ma ella si trasformava in aria. Il giorno seguente lo trascorse nella disperata ricerca della donna: a sera un altro bacio da lontano. E ancora un incubo: si aggirava in un labirinto di anguste viuzze, alla fine delle quali c’era il volto della fanciulla. Questo tormentoso gioco durò per giorni, finché la speranza lo abbandonò, ma proprio nel momento in cui aveva rinunciato all’impresa, sentì una mano sul suo braccio: Caterina! Il gioco tuttavia non terminò con l’amore, ma divenne ancora più tormentoso: Caterina prometteva appuntamenti ai quali non si presentava, proponeva una scampagnata in un luogo e durante il tragitto fingeva di sentirsi male o cambiava idea sulla loro destinazione. C’erano anche giorni durante i quali Caterina sembrava calma e usava una dolcezza che Giacomo non aveva mai provato, ma la sera mutava completamente umore. Anche questa volta Giacomo fuggì, senza attendere che i capricci della giovinezza di Caterina si placassero.
Il sonno non giungeva: lettere, lettere fino alla “M”, il suo più grande amore: Mizzi!(5) Perché aveva amato con tanta passione la prostituta viennese Mizzi? Era forse stata la nostalgia che abita in ogni strada, in ogni angolo, in ogni Café di Vienna? Era stato forse il sentimento d’amore verso uno degli esseri sfortunati di questa terra? Mizzi lo aveva amato di un amore puro, come solo una prostituta sa amare; ella si era avvinta a lui senza chiedere, senza pretendere, solo donando. Per la prima volta in vita sua Giacomo aveva pensato di condividere la vita con qualcuno, di poter avere dei figli, una famiglia. Mizzi non aveva mai parlato di matrimonio, lo amava e questo le bastava. Lo seguiva in silenzio, non discuteva, gli era fedele, come solo una prostituta sa essere fedele. Giacomo avrebbe potuto condurla via dal sordido bordello, avrebbe potuto darle una vita dignitosa, avrebbe dovuto salvarla. Ancora una volta era fuggito!
Il sonno non giungeva; era l’alba. Giacomo Casanova si alzò dal letto dopo la notte insonne, si recò nella biblioteca e cominciò a sfogliare un libro. Giacomo Casanova non aveva mai conosciuto l’amore, non aveva mai baciato alcuna donna, amava quelle donne di carta dei libri che di notte gli facevano compagnia.
Libri itineranti
A “Dismisura” e alla ”stirpe di Caino"
Sono un bibliotecario con una vasta conoscenza dei cari luoghi ove sono conservati i libri. Ho trascorso la mia vita ad ordinare volumi in molte città, delle quali conosco soltanto le biblioteche. Non chiedetemi i nomi delle strade o delle piazze di quelle città, ma soltanto quelli delle biblioteche.
Posso consigliarvi il luogo dove si trovano i più accurati volumi di geografia, corredati di mappe geografiche antiche o aggiornate, i migliori testi di storia, i più affascinanti libri di narrativa, le più attente grammatiche di lingue ormai scomparse.
Ho cambiato molti luoghi di lavoro, non perché sia stato mandato via, bensì perché, oltre ad essere un bibliotecario, divenni, per una specie di malattia contratta sul lavoro, un indefesso lettore.
Mi riuscì talvolta di farmi approntare una stanza dove dormire e mangiare, cosicché anche la notte potei dedicarmi alla lettura e dimenticai il mutare delle stagioni, il trascorrere dei giorni, dei mesi, degli anni. Dimenticai la pioggia, il vento, il sole, le stelle, gli alberi e anche l’esistenza degli esseri umani. Sì, di certo durante il giorno avevo a che fare con gli esseri umani, quando venivano a richiedere i libri, ma non ero interessato alle loro esistenze; le loro voci si mescolavano al fruscio delle pagine dei volumi fino a divenire parte di essi.
Un libro, qualsiasi libro per me non era un oggetto, ma un essere vivente, dotato di anima e di propria volontà. A volte mi pareva che qualche libro mi chiamasse e mi rimproverasse di non averlo ancora letto e attendevo con ansia che i visitatori lasciassero la biblioteca e le luci si spegnessero, in modo da poter restare solo e consacrarmi alla lettura, che ritenevo l’unica attività degna per un essere umano.
Fu in una di queste notti che si compì il mio destino di bibliotecario itinerante. Questi due termini sembrano un ossimoro, poiché un bibliotecario è per definizione un sedentario, eppure io sono stato il primo a trasformare tale lavoro in un’attività di viaggio.
Più che il libro fu una frase contenuta in esso: era un libro di poesie, ma lascio al lettore il piacere della ricerca; per questo non scrivo il titolo del volume, né indico il nome del poeta. Era uno di quei rari momenti in cui ci si sente in pace con se stessi e con il mondo. Quale mondo? Il mio era un mondo di carta, eppure mi sentivo parte dell’universo, dell’infinito. Le parole in bell’ordine che leggevo e rileggevo infondevano in me una felicità mai provata prima di quella notte; vagavo per ogni luogo della terra, vedevo montagne, boschi, mari, deserti, fiumi, udivo musiche, canti, voci, vedevo città e paesi e i loro abitanti. La poesia del vivere entrava dentro di me. Mi sentivo grato al poeta per quel dono, ma all’alba, quando stavo per chiudere il libro, fui assalito da un dubbio. Il libro era antico, un volume raro: se non nascessero più poeti? Quante volte è stata decretata la fine della poesia o del romanzo? La vita è prosa e rare volte si sente la sua poesia. Fu l’ultima frase del libro ad allontanare la mia paura: “La terra continuerà a generarli”(1). La terra non genera soltanto frutti, grano, fiori, ma anche poeti. Nel mondo, pensai, esistono ancora poeti, narratori, esistono ancora coloro che sanno sognare e far germogliare sogni. Mi recai nel bagno per radermi e, guardandomi allo specchio, mi avvidi di avere una lunga barba canuta. Non mi guardavo da tempo incalcolabile e non pensavo di essere già alle soglie della vecchiaia. Forse l’ultima volta che avevo visto il mio riflesso era accaduto nella mia casa, quando ero ancora un ragazzo.
Ricordai, durante quel peregrinare nel labirinto, di aver avuto un tempo una casa, da qualche parte, ma non avrei saputo indicare il nome della località.
Mi occorsero ore per trovare la grande porta a vetri d’uscita; è vero che conoscevo ogni angolo della biblioteca, ma i miei punti cardinali erano i libri, come le stelle per i marinai.
Vagai, credo, un’intera giornata e finalmente raggiunsi l’uscita, ma non posso negare che sostai perplesso primo di varcarla; inoltre le mie gambe erano deboli, poiché ero uso a stare seduto. La mia vita era dentro quelle mura, anzi dentro le pagine dei volumi che amavo. Fui investito da un tiepido vento di primavera, mentre scendevo le scale che mi avrebbero condotto in città. Non posso dire “condotto di nuovo”, poiché non ricordavo nemmeno il nome della città. Primavera! Questa parola per me aveva il senso che le avevano assegnato i poeti, ma ora percepivo sulla mia pelle la brezza ed il profumo che emanavano i fiori del giardino antistante alla biblioteca. Avevo dimenticato anche l’esistenza di quel giardino! Alzai gli occhi al cielo: stelle! Non erano solo le fotografie o i disegni sui libri e le mappe, ma erano veramente sulla mia testa e potevo osservarle, potevo guardare le costellazioni, che conoscevo a menadito. Giunsi infine al cancello; già quando ero vicino ad esso udii un insopportabile rumore; pensai ai tuoni di un temporale, ma poi rammentai di aver guardato il cielo stellato. Cos’erano allora quei rombi che mi laceravano le orecchie? Aprii con molta lentezza il cancello, perché ancora una volta avevo avuto l’istinto di tornare indietro. Compresi: erano automobili. Molti anni prima, quando era iniziata la mia volontaria reclusione, questi mezzi di trasporto esistevano, ma se ne vedevano davvero poche e di una forma del tutto differente, anzi vederne una era un avvenimento. Ora esse sfrecciavano e non riuscivo a vedere come fossero fatte, tuttavia nelle mie narici entrava un intollerabile fetore.
Fuggire di nuovo, tornare indietro, chiudermi fino alla fine dei miei giorni tra i miei amati libri; invece guardai le stelle e m’incamminai in direzione, l’una valeva l’altra, della stella polare, ma non posso negare che la mia mente era invasa da dubbi e paure, che non avrei saputo definire. Mi sentivo su un pianeta straniero e inospitale; mi voltai a guardare la biblioteca, il mondo che avevo abbandonato, mi avvidi di aver lasciato la luce accesa nella mia stanza. Chi l’avrebbe abitata? O forse avevo lasciato in quell’angusta camera la mia anima ed essa brillava, seppure fiocamente, e mi chiamava? Perché ero uscito? Mi voltai nuovamente, ma non vidi più la biblioteca, tuttavia decisi di tornare indietro.
Camminai molto, ma non riuscii più a trovare la via. Io riuscivo a trovare un libro, conoscendo soltanto il titolo o perfino se l’interessato dava di esso pochi cenni, ma ora mi ero perso dopo aver fatto pochi passi. Ero capace di scovare un volume perfino al buio. Perché ero uscito? Non riuscivo a ricordarlo. Sfioravo passanti e mi accorgevo, dopo anni, che il mondo era popolato di esseri umani, mentre per me fino ad allora la vita era soltanto quella contenuta nei libri. Udii uno strano mormorio provenire da vicino e mi parve familiare, perché era somigliante al fruscio delle pagine di un libro, ma era invece il lieve rumore generato dallo scorrere di un fiume. Dovevo aver percorso molti chilometri. Ancora la paura mi attanagliò. Perché ero uscito? Era stata una follia. Mi venne in mente “Don Chisciotte”. Che cosa d’altro poteva concepire la mia mente se non riferimenti libreschi? Ero anch’io impazzito come “il cavaliere dalla trista figura”, leggendo libri? O forse ero un coraggioso eroe come Odisseo? O ero uno degli antichi navigatori che hanno scoperto nuove terre? E su quale terra ero ora? Le strade, i palazzi, i ponti me li rappresentavo come le colonne d’Ercole che Ulisse varca. Perché ero uscito? Volsi lo sguardo ancora una volta alla stella polare e vidi le parole che mi avevano sospinto nel mondo sconosciuto: “La terra continuerà a generarli”.
Finalmente ricordai la mia missione. Non ho seguito soltanto la stella polare, ma ho viaggiato in ogni direzione e ho raccolto testi di ogni genere, che ancora non sono stati stampati. Ho la speranza che qualcuno un giorno abbia il coraggio di farli leggere al mondo. Non è speranza vana, perché la terra continuerà a generare poeti …
NOTA
1) La frase è di Joahnn Wolfgang Goethe
La casa parlante
Tornai nella grande casa, dove ero cresciuto e che avevo abbandonato dopo la dipartita di tutti i membri della mia famiglia: il mio amato fratello, mio padre a cui devo il senso dell’onestà e del rispetto per ogni essere umano, soprattutto per i più umili, mia madre, a cui sono in debito per la passione della narrazione. Vendetti la casa e me ne andai per il mondo, ma poiché i miei ricordi, anzi la mia anima era rimasta intrappolata tra quelle stanze – come capirai da quanto scriverò successivamente – non mancai di informarmi su coloro che vi risiedevano.
Venni a sapere, con mio grande stupore, che i signori che l’avevano acquistata, non avevano resistito molto e l’avevano a loro volta venduta. Era accaduta la stessa cosa ai nuovi proprietari e poi a quelli successivi e così di seguito.
Vivevo ormai lontano, in un’altra nazione, e le notizie sulla mia antica amata abitazione mi venivano comunicate epistolarmente o telefonicamente da un amico, che tuttavia tralasciava di informarmi sulle ragioni di tali strani avvenimenti. Per quanto questi avvenimenti mi sembrassero strani, preferii non interessarmene e continuare la mia semplice vita. È vero, la scrittura mi mancava e devo confessare che spesso mi ero messo alla scrivania, deciso a scrivere nuove storie o poesie, ma tracciavo appena qualche segno, scrivevo qualche parola e poi restavo con la penna in mano e lo sguardo perso nel vuoto; qualche volta riuscivo persino a scrivere un’intera pagina, ma, quando la leggevo, ogni parola mi pareva insensata e strappavo il foglio. Rinunciai definitivamente alla scrittura.
Quel tempo in cui inventavo storie o scrivevo poesie mi pareva non essere mai esistito o appartenere ad un altro essere umano. Anche la grande casa era una memoria remota, nascosta in chissà quale angolo della mia anima. Non sono soltanto i muri a formare una casa, ma le persone che la abitano, con le loro voci e il loro odore.
La mia casa aveva sempre il profumo del pane appena sfornato. Tutte le donne che l’avevano abitata sconoscevano l’antica arte di impastare il pane. Fu questo profumo che mi condusse nuovamente nella grande casa; esso entrò prepotentemente nelle mie narici, ma ancor più nel mio cuore, una mattina, mentre mi recavo a lavoro.
Non riuscii a liberarmene in ufficio né a sera né durante la notte. L’odore si associava ai volti ed alle voci dei miei cari e lo percepivo anche quando non avevo pane sulla tavola, anche quando nella strada in cui camminavo non c’era un fornaio. Divenne un’ossessione. Sentii il profumo del pane nello studio dello psichiatra, il quale, dopo alcune sedute, mi consigliò di tornare nella mia antica grande casa, affinché potessi constatare di persona che l’odore era soltanto frutto della mia psiche.
Esitai a lungo prima di seguire il consiglio del medico, ma poiché l’odore del pane non abbandonava la mia vita, decisi dopo alcuni mesi di attuare l’insolita terapia. Anche durante il lungo viaggio in treno percepivo l’aroma del pane. Non solo! I cibi che consumai nel vagone ristorante avevano il sapore del pane. Anche la stazione, in cui terminò il mio viaggio, odorava allo stesso modo. Nell’autobus che mi portava verso il mio paese e la mia casa il mio sguardo si posava sempre sui forni delle cittadine che attraversavamo.
Non percepii però quel profumo in casa dell’amico che mi ospitò. Egli fu ben felice di vedermi dopo quei lunghi anni in cui i nostri contatti erano stati soltanto epistolari. Parlammo della sua vita e della mia vita, di persone che conoscevamo e degli strani accadimenti nella casa. Il mio amico mi consegnò le chiavi, ma si rifiutò di accompagnarmi, dichiarando che aveva impegni improrogabili, ma compresi dal tono della voce che erano pretesti. Questo atteggiamento m’incuriosì ancor più e, nonostante fosse già sera, decisi di avviarmi. Cosa mai poteva succedermi?
Non posso negare l’emozione che provai già nel girare il chiavistello del portone e quella ancora più forte allorché salivo lentamente le scale, al buio. Ero munito di lume, ma volli provare se fossi ancora in grado di orientarmi nell’oscurità in quella che era stata la mia dimora. Non inciampai ed accesi il lume solo dopo aver raggiunto l’ultimo gradino. Non percepivo più nessun odore. C’erano ancora alcuni mobili appartenuti alla nostra famiglia in qualche stanza, altre erano completamente vuote. Con titubanza aprii la porta della mia vecchia camera da letto: era tutto come l’avevo lasciato. Mi avvidi che si era fatto tardi e per non disturbare il mio amico in quell’ora notturna decisi di aspettare l’alba. Mi distesi: i ricordi cominciarono ad affollarsi e conciliarono il mio sonno. Non so che ora fosse quando credetti che qualche rumore mi avesse destato. Accesi il lume e mi guardai intorno: era tutto al suo posto; mi distesi di nuovo, ma udii delle voci. A fatica, dovuta credo alla paura, mi alzai. Fui alquanto indeciso se esplorare nuovamente le stanze o piuttosto aspettare l’alba e andarmene, dimenticando ogni cosa, ma d’altra parte ero curioso. Aprii infine e fu l’inizio di un insolito viaggio. Entrai nella stanza che mio padre aveva riservato agli oggetti riportati dai suoi innumerevoli viaggi nel mondo. All’inizio avvertivo soltanto un confuso bisbiglio, poi le parole si fecero più chiare: ognuno di quegli oggetti narrava la propria storia. Abbandonai la camera dei cimeli paterni ed entrai in quella che per me e per mio fratello era stata la stanza dei giochi: c’erano le racchette da tennis, le biciclette, la scacchiera. Anche questi giocattoli parlavano e raccontavano. Nella sala da pranzo udii le voci dei miei familiari e soprattutto quella di mia madre, che raccontava fiabe.
Infine entrai nella stanza a me più cara: la biblioteca. Gli scaffali erano vuoti, perché avevo portato i libri con me, ma c’era la libreria, che non avevo potuto togliere dalla stanza, poiché l’aveva costruita il mio bisnonno, ma l’aveva fatta più alta della porta. Per qualche tempo qui fu silenzio, ma le voci cominciarono a raccontare. Raccontavano tutte le storie che avevo scritto.
Compresi infine! Non avevo inventato le storie che tu, mia cara amica, leggi con infinita pazienza, ma mi erano state dettate dalla casa, dai muri, dagli oggetti e … dall’odore del pane …
I libri sotto il ponte
A voi che vivete in città sarà avvenuto di incontrare talvolta persone che parlano da sole, ad esempio una donna con una carrozzina vuota oppure un uomo che insulta le automobili che sfrecciano veloci.
Quando frequentavo l’università, nel tratto di strada che conduceva dalla mia abitazione - se così si può chiamare quella lurida soffitta in cui vivevo - alla metropolitana, incrociavo ogni mattina un uomo che sussurrava parole in lingue diverse. Indossava un abito blu, liso, ma che un tempo doveva essere stato elegante, una cravatta di colore forse bordeaux su una camicia dalla tinta ormai indefinibile. Quell’uomo mi incuteva paura ed acceleravo il passo, sebbene egli non importunasse mai i passanti. Il mio timore dinanzi a quell’uomo era dovuto, credo, al fatto di essere nato e vissuto in un piccolo paese, dove tutti si conoscevano. Il caos della città, la varietà di essere umani, la molteplicità erano al di fuori della mia comprensione; nel mio piccolo borgo non si vedevano mai esseri umani che vivevano al margine della società ed, anche se i poveri non mancavano, essi non erano dei disperati: possedevano almeno una capra o una mucca da cui mungere latte o qualche gallina che forniva uova fresche; inoltre non c’era molta differenza tra il modo di vestire delle persone agiate e dei poveri, soprattutto durante le festività.
Impiegai molto tempo ad abituarmi alla vista di persone che trapelavano dall’aspetto la loro condizione sociale.
La mia famiglia non era ricca ma neanche povera, tuttavia per pagarmi gli studi lavoravo come cameriere in un’osteria. La città dove studiavo era vicino alla frontiera e questo facilitava il mio apprendimento di lingue straniere. Conoscevo bene il tedesco e l’inglese, capivo abbastanza bene lo spagnolo ed avevo qualche cognizione di lingue dell’Europa orientale, compreso quello strano e melodioso miscuglio di idiomi che è l’yddish. Con il denaro che guadagnavo ero riuscito a comprare una bicicletta usata e giravo la città pedalando. Nella bettola entrava un’umanità variegata e quando qualcuno si attardava, prima di provvedere a sparecchiare, se ne avevo il tempo, mi sedevo e ascoltavo le loro storie, ritrovando in parte la semplicità paesana.
In questo modo appresi l’insolito corso degli eventi che aveva travolto la vita dell’uomo con l’abito blu e la cravatta rossa.
Non ricordo se fosse una sera d’inverno o di inizio primavera, ma rammento che nessun tavolo era libero. Eravamo solo in due a servire e correvamo da un tavolo all’altro ed in cucina. L’ora di chiusura si approssimava, ma nessun avventore pareva voler andare via, con nostro grande dispiacere, perché la stanchezza cominciava a farsi sentire, quando entrò l’uomo vestito di blu. Chiunque si fosse presentato a quell’ora tarda, sarebbe stato mandato via dall’oste, invece egli si avvicinò al nuovo avventore e gli disse di essere onorato della sua presenza e mi ordinò di preparare un tavolo al centro della sala. Ubbidii.
All’uomo furono servite le migliore pietanze, cibi ricchi di spezie che non conoscevo e non sapevo neanche che il padrone possedesse. Infine, l’ospite, quando ebbe finito il lauto pasto, si alzò e nella sala si fece silenzio. Come posso narrare l’accaduto? Le parole mi mancano, poiché credevo che uomini simili esistessero soltanto nelle leggende o che fossero vissuti in secoli passati.
Egli iniziò a declamare poesie, poi la poesia divenne una storia e la storia un poema. Eravamo tutti incantati, attoniti; la squallida sala dell’osteria si era trasformata, nella nostra mente, nel salone di un castello medioevale o nella sala di un palazzo della antica Grecia, in cui un aedo narrava le sue storie. Conoscevo le storie che quel moderno miserabile rapsodo raccontava e mi pareva che egli non saltasse nemmeno una parola. Era forse stato un attore o era l’incarnazione di un antico aedo o di un menestrello o di un giullare? Quando lo incontravo la mattina, egli barbugliava parole e frasi incomprensibili, ora invece la sua voce era affascinante, chiara, espressiva; egli sapeva dare intonazione alla gioia, alla sofferenza, all’entusiasmo, alla disperazione; descriveva i personaggi con minuziosità ed a noi pareva di vederli in carne ed ossa. La clientela della taverna non era certo di alto livello sociale e culturale, eppure stavamo tutti ad ascoltare, senza muovere un muscolo, ad occhi aperti.
L’uomo terminò i suoi racconti all’alba, ma nessuno si era accorto che la notte fosse trascorsa. Uscì, lasciando dietro di sé il silenzio. Da allora non lo vidi mai più ed appresi molto più tardi il suo destino, che non racconterò ora. La sua storia invece mi fu narrata dall’oste. In verità volevo tornare nel mio lurido soffitto e sdraiarmi sulla branda, ma il taverniere chiamò me e l’altro cameriere e ci disse di sedere, poiché aveva molto da dirci. Lascio la parola all’oste, il quale, sebbene non avesse la capacità di incantare come l’uomo in blu, aveva dalla sua parte gli effluvi dei cibi, del vino e della birra rimasti attaccati alle pareti e ai tavoli da tempo immemorabile ed aveva anche due ascoltatori curiosi.
Il taverniere non conosceva il nome dell’uomo, perché egli non lo aveva voluto mai rivelare, anzi, quando lo aveva chiesto, quel misterioso individuo aveva mostrato pudore, come se si vergognasse di qualche cosa. L’oste però era un uomo deciso ed aveva indagato: non era riuscito a sapere l’identità, ma aveva saputo molto della vita di quello strano menestrello. Nato da una famiglia più che benestante, aveva dimostrato negli anni della scuola e dell’università un talento per tutto ciò che riguardava le scienze umane. Non bisogna credere che la sua vita fosse, come si dice, un giardino di rose e fiori: egli era affetto da una malattia, che gradualmente lo indeboliva e concorreva a rendere il suo aspetto trasandato: qualsiasi vestito egli indossasse, sembrava goffo, ma quando prendeva la parola, tutti dimenticavano questa grossolanità e stavano ad ascoltarlo attoniti, come era accaduto a noi nell’osteria. Non si vantava mai di questa sua capacità, anzi forse non ne era consapevole, perché era parte della sua persona, era un dono acquisito con sofferenza. Le attitudini degli esseri umani sono però alquanto strane: così come era in grado di affascinare, al pari egli non comprendeva il valore del denaro. Quando i suoi genitori lasciarono, uno dopo l’altra in brevissimo tempo, questo mondo, restò con un patrimonio ragguardevole. Come accade spesso, attorno a lui si formò una folla di persone interessate, non del tutto oneste, che egli scambiò per amici, fidandosi ciecamente. L’oste raccontò per filo e per segno in quali modi questi presunti amici condussero alla rovina finanziaria l’uomo, ma io non lo riferisco, perché so che annoierei i lettori e forse non avrebbero comprensione per lo strano carattere dell’uomo del quale riferiamo, perché egli, nonostante capisse di essere stato truffato ed ingannato, non riusciva a provare né odio né rancore per coloro che, anche vedendolo soffrire, non provavano rimorso, anzi quasi ne erano felici.
Tale è l’animo umano a volte, ma solo a volte. Si è amici a chi gode la fortuna, ma appena essa comincia a scemare, intorno si radunano esseri privi di scrupoli, pronti a dare l’ultima fatale spinta. Non addentriamoci in questi particolari, poiché l’umanità, per buona sorte, è varia.
Eppure, nel vedere quell’uomo che aveva perso la casa ed ogni suo bene, nell’osservarlo mentre si metteva in viaggio nel suo nuovo terribile stato di vagabondo con una bisaccia sulle spalle, non uno, nella sua cittadina, lo salutò. Quelli che una volta lo avevano ossequiato, ora gli voltavano le spalle, anche coloro che erano stati accolti da lui come amici.
Esaminiamo il contenuto della bisaccia sulle spalle del nostro rapsodo: qualche cibo, un taccuino e poco denaro, ricavato dalla vendita, a poco prezzo s’intende, dei libri, che nessuno avrebbe voluto, come aveva detto l’ufficiale che era giunto a sequestrare la sua abitazione. Lasciamo anche noi questa casa, dandole un ultimo triste sguardo, come fece l’uomo dal vestito blu, salutando nel cuor suo i suoi cari defunti, atto che condividiamo, anche se non li conosciamo. Quel saluto, ed il nostro, non era diretto soltanto ai suoi trapassati familiari, ma anche agli anni che aveva trascorso nella sua casa, ai giochi che aveva inventato in ogni stanza nell’infanzia, ai giorni senza numero che aveva passato leggendo tutti i cari amati libri, alle serate con gli amici veri, che non avevano potuto aiutarlo, ma che non avevano il coraggio di andare a dargli l’ultimo saluto e a stringere le sue mani per l’ultima volta. Mentre usciva dalla cittadina, sparivano tutti quei giorni e quegli anni, e, passo dopo passo, s’inerpicava su una collina dando un ultimo sguardo agli edifici, alle vie, al fiume che sempre lo aveva affascinato, rendendosi conto della sua solitudine. Era una tersa giornata di settembre, ai lati del viottolo si estendevano i filari dei vigneti, dai quali nei giorni della vendemmia saliva il canto delle donne.
Strano a dirsi, quel ricordo non risvegliò il lui la nostalgia, il rimpianto, la tristezza, bensì un arcano sentimento di piacere, suscitando le speranze di avventure che accompagnano il cuore di ogni viandante.
Era un uomo nuovo, diverso. Al diavolo il passato, al diavolo coloro che meschinamente lo avevano ridotto in miseria; il mondo è vasto e pieno di occasioni. Scendeva la sera colorando i grappoli d’uva, che pendevano dalle viti nel pendio del colle. Ora la cittadina non era più visibile, come era ormai in una storia lontana di millenni la sua vita passata. La sua mente tuttavia era assuefatta alle avventure dei libri ed egli si figurava come uno di quegli eroi presenti nelle pagine che aveva sfogliato con entusiasmo ed amore. Leggere non è forse viaggiare? Sì, egli si sentiva come uno dei personaggi dei romanzi e dei racconti dei quali aveva letto, anzi con i quali aveva vissuto. Ora si sentiva come Don Chisciotte, che lascia la sua casa per vivere in un mondo di fantasia? Che altro gli restava? Il ricordo dei suoi genitori era vivo, ma gli procurava dolore la loro perdita; non rimaneva che il futuro e l’immaginazione.
Il sole inviava i suoi ultimi raggi, un vento debole ma freddo gli veniva di fronte. Senza avvedersene egli aveva percorso già molti chilometri ed ora seguiva il corso di un grande fiume, mentre al vento si aggiungeva la pioggia e l’aria cominciava a farsi fredda. Il viandante – tale era ormai – alzò il bavero della giacca e continuò il suo viaggio, ma ben presto il sole tramontò e la pioggia si tramutò in un temporale.
Io non so se l’oste conoscesse veramente tutti questi particolari oppure fosse un fascinoso affabulatore, ma mi è sembrato valesse la pena di raccontarli. L’uomo si abitua presto anche alle disgrazie e ad uno stato diverso da quello vissuto fin dall’infanzia, ma ha pur bisogno di un minimo di tempo: egli non era uso a trascorrere la notte alla diaccio, motivo per cui si guardò intorno alla ricerca di un riparo, ma l’oscurità era ormai quasi totale, tuttavia ricordò di aver attraversato non molto tempo prima un ponte, per cui tornò sui suoi passi e riparò sotto un’arcata. Si rannicchiò con le mani conserte, stringendo ancor più la giacca ed aspettando la notte. Ora finalmente si avvedeva della sua condizione e pensava alla sua casa d’un tempo, al camino dove bruciava sempre un bel fuoco caldo e intimo, accanto a cui nella sua poltrona leggeva durante interminabili meravigliose notti.
Questo ricordo fu la sua salvezza. La salvazione giunge per strane misteriose vie, che solo gli scrittori ed i vagabondi sanno immaginare. La memoria di quelle ore, che non possono dirsi solitarie, come ogni lettore devoto sa, giunse insieme alla sensazione tattile di un libro: egli sentiva le sue dita toccare le pagine, sfogliarle, udiva il fruscio dei fogli, sentiva l’odore d’un antico volume e si formarono dinanzi ai suoi occhi i caratteri della stampa: leggeva parola per parola, virgola per virgola, facendo le opportune pause, interpretando ora Don Chisciotte ora Sancho Panza ed ogni altro personaggio.
Lesse per tutta la notte, senza saltare un capitolo o una frase e solo verso l’alba, dopo la parola fine, si assopì. Lesse senza avere alcun foglio davanti, lesse al buio, scoprendo che esistono modi infiniti per vedere.
I veri lettori hanno il dono della dedizione: diventano parte della storia, come non avessero un libro nelle mani, bensì il breviario delle preghiere di chi si consacra veramente a Dio, con la differenza che essi si offrono al mondo multiforme ed infinito della letteratura.
Mangiò quel poco di pane e companatico rimasto nella bisaccia e s’incamminò di nuovo. Come aveva letto lungo la notte precedente, camminò fino alla sera e riparò sotto un altro ponte ed anche quella notte sfogliò un nuovo libro: ora era Ismaele che si imbarca sulla baleniera Pequod con il capitano Achab. Egli sentiva il battere della gamba d’avorio del capitano sul ponte della nave, vedeva sbuffare grandi cetacei nel grande immenso oceano. Di ponte in ponte era Raskolnikov nascosto nella misera soffitta di San Pietroburgo o Ulisse o Dante che s’avventurano tra le anime dei trapassati, ma era anche l’uomo seduto sulla poltrona accanto al camino ardente nella sua casa e poteva sentire il crepitare della legna e perfino il calore del fuoco, nonostante i mesi procedessero inesorabilmente verso l’inverno.
Facciamo noi ora qualche passo a ritroso - come lo aveva fatto l’uomo dal vestito blu nella prima notte da viandante - e torniamo qualche ponte indietro, dove una mattina egli si era accorto di non avere più cibo né denaro per sfamarsi in qualche taverna. Al principio il vagabondo non si era molto dato pensiero, perché per abitudine inveterata non era abituato a simili preoccupazioni, ma ben presto il suo stomaco aveva iniziato a protestare con dolorosi crampi, comunicando che senza nutrimento sarebbe stato impossibile continuare il cammino. L’orgoglio di un tempo era tuttavia ancora vivo in lui e non aveva intenzione di tendere la mano, ma la campagna offre forse più opportunità di qualsiasi città: nelle aie delle case dei contadini e nei giardini di qualche villa c’era legna in abbondanza non ancora accatastata ed egli si offrì più volte di ordinarla in cambio di un pasto. A volte il cibo era abbondante e caldo, altre esiguo, perché i ricchi preferivano mettere nelle sue tasche qualche denaro piuttosto che avere un vagabondo in giardino.
Imparò cosa vuol dire la superbia di coloro che non conoscono il mondo. Sì, perché a me è sempre parso che quegli esseri umani che nelle stazioni, agli angoli delle strade, sui sacrati dei templi, tendono la mano, conoscano la vita molto più di noi che viviamo nelle nostre abitazioni riscaldate e protette. Noi non tremiamo se un poliziotto in divisa ci avvicina, ma spesso non vediamo al di là dei muri entro cui conduciamo la nostra esistenza. La vita di quei ripudiati è spesso o forse sempre più interessante delle nostre ed è senz’altro più ricca di esperienze, ma non ce ne avvediamo: mettiamo qualche spicciolo dentro la mano tesa, segno tangibile della disperazione, e procediamo per la nostra strada, dimentichi che stringere quella mano sarebbe stato più importante del gettare quella banale elemosina nel cappello sgualcito.
Dove poteva manifestarsi il destino del nostro errabondo se non sotto un ponte? Durante una notte d’inverno egli non era solo, ma c’era una compagna di sventura, di cui ovviamente non conosciamo il nome. Ella era, probabilmente, molto più avvezza a quella vita di stenti ed era provvista di giornali e cartoni ed aveva acceso un fuoco, che certo non poteva paragonarsi a quello del camino di casa, ma bastava a riscaldare ambedue. La donna non era anziana, ma aveva i capelli bianchi ed il viso, che ancora denotava una bellezza svanita, solcato da rughe, frutto della vita di stenti condotta fin dalla tenera infanzia. L’uomo non si era avvicinato subito alla fiamma, ma con un gesto fu invitato.
La comprensione si trova più facilmente tra sfortunati compagni di sventura.
Con il calore di quel flebile fuoco più nitida venne la memoria dei cari libri ed egli, quasi meccanicamente, iniziò ancora una volta a leggere, ma questa volta a voce alta. La donna dapprima pensò che il suo vicino fosse un folle fuggito da chissà quale clinica, ma a poco a poco prestò attenzione alle parole che l’uomo pronunziava: leggeva un meraviglioso libro di fiabe. La donna iniziò a vedere castelli e principi e principesse e cavalli bardati e foreste e tutto quel mondo meraviglioso che anch’ella forse un tempo aveva conosciuto. Per alcune notti l’uomo lesse alla donna altri libri, fatti di aria e memoria ed infine ella suggerì che si poteva guadagnare qualcosa da questa capacità di far sognare gli esseri umani. Ella era esperta di bettole e taverne, cosicché condusse l’uomo in un’ osteria e propose al locandiere di ascoltare.
In tal modo l’uomo divenne il menestrello delle taverne, vagando di locanda in locanda, di città in città, come un tempo girovagavano gli antichi cantastorie.
L’oste terminò il suo racconto all’alba.
La sera seguente attendevo che l’uomo dall’abito blu tornasse, ma ciò non accadde. Non lo vidi mai più fino alla fine dei miei studi universitari.
Tornai al mio paese e trovai un impiego, dimenticando completamente il rapsodo dei poveri.
Molti lustri dopo capitai nella città in cui ero stato studente ed a sera, sulla via del ritorno, accadde che la mia automobile si fermasse per un guasto. Fortunatamente nelle vicinanze c’era un’officina meccanica: mentre il tecnico mi spiegava che per riparare il guasto occorrevano almeno due ore, vidi di fronte la scritta luminosa “Ristorante”. Attraversai la strada ed entrai. Non riconobbi subito l’osteria nella quale avevo lavorato come cameriere: l’arredamento era naturalmente cambiato, credo nel peggior modo possibile, perché le sedie erano sì imbottite, ma erano, se così si può dire, di cattivo gusto e pretenziose, come tutto il mobilio. Sedetti ad un tavolo in angolo, sebbene, per qualche strana ragione, mi sentissi disturbato dall’ambiente. Fu il vecchio cameriere a riconoscermi; in verità egli era l’oste di un tempo, che ci aveva sempre trattato con umanità.
D’improvviso nella mia memoria si formò l’immagine dell’uomo vestito di blu in mezzo alla sala, che per tanto tempo avevo sepolto in qualche recesso della coscienza.
Invitai l’oste a sedersi, ma egli rifiutò, dicendo che sarebbe stato possibile solo dopo l’ora di chiusura; egli aveva una camera di sua proprietà al piano superiore, che era tutto ciò che gli era rimasto dopo aver venduto il locale. Attesi con ansia e finalmente l’oste venne al mio tavolo. Egli mi raccontò prima come fosse caduto in disgrazia, poi chiese di me e dell’altro cameriere.
Non so spiegarmi perché avessi qualche remora e non chiesi dell’uomo in blu; forse le disgrazie finanziarie dell’oste somigliavano troppo a quelle dello strano rapsodo. Fu il vecchio taverniere che chiese se ricordassi dell’uomo che una volta aveva intrattenuto la clientela ed iniziò a raccontare.
Ci fu un inverno rigido ed una notte l’uomo si presentò nell’osteria; l’oste gli preparò una minestra calda e lo invitò a raccontare qualche storia. Egli accettò, ma, nonostante il locale fosse ben riscaldato, continuava a tremare, le parole si confondevano, diventavano indecifrabili, con grande delusione degli avventori. Le notti trascorse all’aperto avevano procurato una febbre permanente all’uomo ed avevano danneggiato la sua prodigiosa memoria. Non c’erano più libri nella sua mente, c’era solo la vita di miseria, il freddo e la fame. Nel frattempo l’oste aveva venduto il locale. Una notte d’inverno, durante la quale la neve cadeva abbondante, l’uomo bussò alla porta del ristorante, ma il proprietario lo scacciò in malo modo, gridando che quello non era posto per mendicanti. L’oste assistette alla scena e stava per intervenire, ma fu minacciato di poter essere mandato via anche lui insieme a quello sporco ed inutile barbone.
L’uomo dal vestito blu morì assiderato sotto un ponte, portando con sé tutti i libri che aveva letto con la sola forza della memoria.
Era ancora una volta l’alba, quando il racconto dell’oste terminò. Mi avviai con tristezza, pensando al destino del vagabondo lettore, consapevole però che a me aveva lasciato la devozione per i libri.
Fiaba di pagine ingiallite
In un tempo lontano, durante la giovinezza, fui un viandante: costeggiai fiumi, attraversai città, m’inerpicai su aspri monti e dolci colli, appresi idiomi, sostai in locande odorose di vino e cipolla.
Oggi, che l’età impedisce perfino di scendere le scale, la nostalgia, spesso, invade il mio animo con la memoria di profumi di fiori ed erbe esotiche, con la visione di un tramonto o di un’aurora riflessa nel mare, con l’apparizione del sorriso di una fanciulla in una taverna, con il ricordo di una partita a scacchi giocata con uno sconosciuto sul tavolo di un’osteria, con la luce della luna sulle scale di una cattedrale in piazza deserta, con il suono delle campane echeggianti in una valle.
La strada, guardata attraverso i vetri della finestra bagnata di pioggia, suscita lo struggimento non per la gioventù trascorsa, ma le avventure che ai vagabondi accadono. I girovaghi non cercano le avventure, ma esse si trovano dietro l’angolo e aspettano fiduciose.
Divenni viandante non per sete di ventura, ma soltanto perché ero curioso di vedere che cosa ci fosse oltre i muri della mia casa, di là dal perimetro del mio paese, di là dal monte che fronteggiava le mie finestre.
Come tutti i girovaghi, m’incamminai con una bisaccia sulle spalle, contenente qualche cibo e un taccuino su cui annotare le impressioni che mi avrebbero suscitato i nuovi mondi che mi accingevo a scoprire.
E di avventure ne capitarono molte, se tali si possano chiamare accadimenti che, per la maggior parte della gente, rientrano nella normalità. Cosa c’è di avventuroso nell’ascoltare affascinato le voci di un bosco, nell’emozionarsi dinanzi ad un tempio antico dove esseri umani, dei quali si è persa la memoria, recavano voti agli Dei, nell’osservare meravigliati i fuochi di un vulcano in eruzione, nel sentirsi beati per il canto di donne intende ai lavori dei campi?
Per me, novello girovago, che altro non conoscevo che la strada in cui ero nato, erano avvenimenti straordinari. Il paese, la casa, i familiari, gli amici erano lontani, non chilometri ma mondi. Era una vita nuova, piena.
Un’avventura, nel senso di avvenimento fuori del comune, mi occorse dopo anni di cammino, sulle cime della catena montuosa di *** . Quale spettacolo quelle vette che si innalzano superbe verso il cielo, che si crede di poter toccare sollevando le mani; che incanto il silenzio, che nessuna parola può descrivere!
Avevo dormito nella cavità di una roccia, avvolto nei miei abiti caldi, quando il canto degli uccelli, che avvertivano il giungere della primavera, mi destò con dolcezza. In realtà, io, essere umano, privato insieme ai miei simili del sano istinto, sentivo il freddo e non l’arrivo della dolce stagione. Il sole sorgeva lentamente, lasciando comparire di fronte a me le altre cime innevate e sotto di me valli di un verso intenso.
La scelta era tra il procedere verso l’alto o lo scendere infine verso la valle sottostante, cercando un paese abitato ed un ostello. Per un viandante la preferenza tra una strada e l’altra è dettata dall’impressione del momento, da un particolare di poco conto.
Da una roccia sgorgava un rivolo d’acqua, che scendendo a terra formava un ruscello, che più in basso diveniva un fiume. Iniziai la discesa, non senza prime essermi chinato a bere la fresca acqua.
Avevo fatto già molti passi, quando mi voltai per salutare la montagna che mi aveva ospitato forse per settimane, forse per mesi: non avevo visto prima che il monte, nel suo vertice, si divideva in due cime e fra esse sorgeva un castello. Sulle prime pensai che fosse una nuvola a disegnare il maniero o che fosse la neve ad averlo scolpito, ma la mia anima di viandante mi spingeva ad avventurarmi, per appurare la verità. Mi voltai ed iniziai di nuovo a salire, percorrendo il tratturo, scavato da secoli dai pastori. La salita era alquanto ripida e, nonostante la neve, la fronte divenne ben presto madida di sudore.
Di tanto in tanto sostavo, sedevo su una roccia e davo uno sguardo verso il basso, seguendo il fiume, la cui costa avevo abbandonato, notando gli alberi maestosi e lontano la macchia bianca di un paese. Fui più volte tentato di invertire ancora la marcia e tornare alla civiltà, ma volgendo gli occhi in alto, la sagoma del castello si faceva sempre più nitida tra la gola montana, sospesa nell’azzurro terso del cielo. Respiravo con avidità l’aria fredda del mattino, ascoltavo i piccoli rumori del bosco: il mormorio di un ruscello nascosto, il frullare delle ali di un uccello, lo squittio di uno scoiattolo già stanco del letargo invernale.
Salivo con fatica e con gioia: il sentiero era tortuoso ed a volte il maniero scompariva dalla mia vista, sì da farmi dubitare di essere alla presenza di un miraggio o di una fantasia, ma alla curva successiva esso riappariva sempre più concreto, sebbene i suoi muri bianchi, che potevo finalmente distinguere, si confondessero con il candore della neve. Dalla mancanza di vetri alle finestre dedussi che il castello fosse stato edificato nel medioevo. Infine mi trovai dinanzi alla grande entrata, rappresentata da una grata enorme mobile, costruita evidentemente per difendersi dagli attacchi dei nemici.
Mi voltai ancora una volta per guardare in basso ed intorno, non riuscendo a comprendere chi mai potesse attaccare una simile rocca, poiché quell’edificio era l’unico segno di una presenza umana, sebbene datata di secoli.
Avevo visto, durante le mie peregrinazioni, santuari ad altezze molto più elevate, ma un castello sito tanto in alto, mai! Il vetusto edificio, inoltre, era circondato da un ampio e assi profondo fossato, valicabile solo con un ponte levatoio, che cominciò ad abbassarsi, partendo dalla sommità della grata e con grande sferraglio di catene. Il castello era dunque abitato e qualcuno doveva avermi visto. Quando finalmente il ponte fu in posizione orizzontale, cominciai ad avanzare, non senza timore, poiché le travi sotto i miei piedi erano chiaramente consumate e cigolavano alquanto.
Essendo attento a dove mettevo i piedi, vidi l’uomo che mi attendeva solo quando ebbi traversato completamente il ponte: indossava un abito semplice, una sorta di saio, era alto e la barba lunga e candida tradiva un’età avanzata. Mi accolse augurandomi il buon giorno, ma ero talmente attonito che non risposi. Egli sembrò non offendersi e con un gesto della mano mi invitò a seguirlo.
Finalmente entrammo nel castello e attraversammo molte stanze, finché giungemmo ad un salone dove c’era una grande tavola rotonda ed attorno ad essa sedevano dieci persone, donne ed uomini; due posti erano vuoti. Pensai, naturalmente, alla tavola rotonda di arturiana memoria, sapendo che anche in questi tempi moderni da qualche parte esiste quella confraternita. La mia guida mi fece cenno di sedermi ed egli prese posto accanto a me, poi, come se avesse dimenticato qualcosa, si alzò e sparì, ma tornò recando una ciotola con del latte e del pane raffermo: «È tutto quello che possiamo offrire».
Mentre consumavo la colazione, mi guardavo intorno ancora confuso, ma mi feci coraggio e chiesi: «Dove mi trovo? Chi siete?». I miei commensali, se così posso chiamarli sebbene essi non stessero mangiando, mi sorridevano. L’uomo con la barba più lunga rispose: «Siamo cavalieri, ma non quelli che tu immagini. Noi non cerchiamo nessun oggetto magico o sacro, anzi per la verità cerchiamo le uniche cose reputiamo sacre, cerchiamo libri» «Libri?» «Sì, libri» «Potete trovare tutti i libri che volete nelle biblioteche e nelle librerie».
Questa mia frase suscitò l’ilarità di tutti. In quel momento si alzarono e mi invitarono nuovamente a seguirli; aprirono una botola nel pavimento e scendemmo una infinità di scale, ben illuminate da torce accese. Infine giungemmo in una biblioteca, fatta di molte sale. Qui mi fu svelato il segreto del castello. «Noi non cerchiamo libri che tutti possono trovare, ma quelli introvabili» disse una donna. «E quali sono?» «Sono in numero che nessuno può immaginare e di tanti tipi: i libri che stupidi uomini di potere fecero bruciare, i libri che molti lettori dimenticarono, i libri che molti uomini sognano di scrivere ed altri di leggere, i libri che molti scrittori hanno dimenticato di portare a termine. Noi raccogliamo tutte queste meraviglie e trascriviamo parola per parola. Ora tu sei uno di noi».
Dette queste ultime parole, mi fecero sedere ad un tavolo e mi posero dinanzi il testo di questa fiaba…
Il libraio
C’era nel nostro quartiere, proprio nella strada dove nacqui, una libreria. Era un fatto straordinario che ci fosse un negozio di libri, visto che il nostro rione di periferia era popolato di gente che non aveva né tempo né voglia di leggere e che soprattutto doveva pensare ogni giorno a come portare a casa il denaro necessario a mangiare, a comprare il carbone per la stufa e qualche vestito per i figli. È vero, c’era stato qualcuno nel quartiere chi era riuscito a frequentare il liceo e anche l’università, ma erano casi talmente rari che erano divenuti leggendari.
Che cosa fosse passato per la mente a Samuel Samuelsohn quando aveva aperto la libreria in quell’angolo della strada, nessuno riusciva a capirlo, eppure quel negoziante aveva sempre l’aria serena, nonostante i sei figli, tre maschi e tre femmine, che la moglie Lia gli aveva scodellato l’uno dopo l’altro in casa. Neanche lui, di certo, se la passava bene.
Samuel era il primo ad aprire al mattino e l’ultimo a chiudere, anche se spesso se ne stava ritto in piedi, con il suo grembiule grigio e le soprammaniche alle braccia, dinanzi al suo esercizio, guardando noi bambini, che giocavamo nella strada polverosa.
Libreria? In realtà il negozio era rappresentato da due piccole stanze, dove erano ammassati libri nuovi ed usati, ma Samuel Samuelsohn sapeva perfettamente il posto dove si trovava ogni volume.
Era davvero uno strano quartiere il nostro, popolato da ebrei e cristiani.
Samuel, figlio di ebrei ortodossi, aveva sposato, avvenimento scandaloso, una cristiana, e la cosa, naturalmente aveva fatto scalpore. Egli non frequentava né la sinagoga, nonostante il fratello fosse rabbino, né la chiesa, sebbene suo cognato fosse il parroco del quartiere. Per non dispiacere ai parenti, avevano chiamato i figli, alternativamente, con nomi ebraici e cristiani, ma la fortuna non arrise mai a Samuel e Lia e questo, per gli appartenenti alle due religioni, era il segno che in quell’unione ci fosse qualcosa di sbagliato, anche se io non lo penso.
Abramo, il primo figlio, all’età di ventidue anni si imbarcò su nave in terza classe alla volta del Canada e nessuno ne seppe più niente; la secondogenita, Beatrice sposò un uomo molto ricco e disonesto ed i genitori la considerarono morta; Antonio aprì un piccolo negozio in un altro quartiere, ma fallì e divenne un vagabondo; Davide perse la vita durante la prima guerra mondiale; Elisabetta morì di tisi all’età di sette anni; Isacco divenne professore universitario, ma non comparve mai più, perché si vergognava delle sue origini; dell’ultima figlia dirò in seguito.
Samuel Samuelsohn se ne stava là, dinanzi al negozio, per ore, con il peso dei suoi dolori, vestito come vestono tutti gli ebrei ortodossi, con un libro in mano, ma i suoi occhi vedevano tutto ciò che accadeva nella strada. C’erano giorni in cui entravano alcuni clienti, in genere ragazzi ben vestiti. Scoprii solo molto tempo più tardi quale ricchezza fosse per il quartiere il libraio. A volte vedevo dei bambini entrare: essi frequentavano già la scuola elementare e li invidiavo molto. Naturalmente avevano poche speranze di continuare gli studi, ma questo non potevo capirlo allora. Li vedevo scomparire nel negozio insieme al signor Samuel e ciò era per me fonte di gelosia.
Venne anche per me il tempo della scuola ed al secondo anno ebbi l’onore, posso ben usare questa parola, di entrare nella libreria insieme ai miei coetanei ed altri bambini di classi superiori. Non fu una bella impressione: c’era un cattivo odore, dovuto alla polvere ed alla carta dei libri vecchi e c’era poca luce.
Il signor Samuel sedette su una pila di libri, inforcò un paio di occhialetti tondi, prese un volume e cominciò a leggere la storia di Zanna Bianca, modulando la voce a seconda dei brani: calma quando descriveva il grande selvaggio nord, irata quando comparivano i malvagi, dolce allorché raccontava dell’amore tra cane e uomo.
Fu il mio primo contatto con la letteratura.
Tornato a casa, una volta nel mio letto, decisi che da grande avrei fatto lo scrittore o il libraio o il cercatore d’oro in quel lontano grande nord. Non ho intrapreso nessuna di queste attività.
Quella sera era la vigilia di Natale e quel racconto del Signor Samuel era stato un dono meraviglioso. Egli donava la sua arte di lettore ai bambini del quartiere ogni sera delle vacanze di Natale e durante Chanukkà, la festa delle candele, consapevole che i nostri genitori non potevano permettersi regali di nessun genere.
La sera seguente il libraio continuò a leggerci “Zanna bianca”: egli ci trasportava nelle ampie distese di neve, aggiungendo descrizioni dettagliate delle foreste sterminate del Canada, ma soprattutto – lo compresi dopo – immaginava suo figlio Abramo in quei luoghi e nella sua mente egli, come si diceva allora, aveva fatto fortuna. Allo stesso modo, quando leggeva qualche fiaba, in cui una fanciulla povera andava in sposa ad un principe, la ragazza si trasformava nella sua Beatrice oppure la sfortunata Elisabetta diveniva la piccola fiammiferaia della triste storia. Noi bambini non ci rendevamo conto di quale sofferenza provasse il Signor Samuel e aspettavamo quei giorni per viverli con incosciente gioia.
Divenni un ascoltatore attento del libraio ed una mattina, che correvo a scuola, egli mi regalò un libro: “Zanna bianca” di Jack London. Fui rimproverato dal maestro per il ritardo e messo in castigo, che consisteva nello stare per tutte le ore di lezione in piedi dietro la lavagna con la faccia al muro, ma quello è stato uno dei giorni più felici della mia vita. Il muro grigio, guardato per quelle interminabili ore, si trasformava nelle grandi pianure innevate, così come accadeva a Samuel Samuelsohn quando apriva le pagine del libro e leggeva a noi bambini quelle storie di un mondo lontano.
Non so perché avesse donato proprio a me quel volume e non so se egli avesse regalato a qualche altro bambino qualche altro libro, ma io mi sentii importante, mi sentii parte della libreria e da allora la considerai come una seconda casa.
Tutti noi bambini, cristiani ed ebrei, aspettavamo il periodo di Natale e di Chanukkà con ansia per poter entrare nel piccolo maleodorante negozio, che era l’unico luogo dove le nostre due comunità sostavano gomito a gomito, mentre in ogni altro posto si era separati da una sorta di barriera invisibile. La libreria di Samuel Samuelsohn era una terra di tregua, una specie di luogo consacrato alla pace eterna, e soprattutto ai sogni. Nessuno osava emettere un respiro, quando il libraio leggeva. I nostri genitori non espressero mai parere contrario a questa usanza, forse perché le disgrazie di Samuel Samuelsohn erano così grandi e numerose.
Il negozio, naturalmente, restava chiuso di sabato e di domenica, ma il libraio lavorava ugualmente.
Trascorse in questo modo la mia infanzia, poi andai via da quel quartiere insieme alla mia numerosa famiglia, perché mio padre aveva trovato un lavoro migliore e poteva permettersi un appartamento più grande in una zona meno umile.
Il tempo trascorse, potei frequentare il liceo ed iscrivermi all’università. Non avevo dimenticato il libraio Samuel e spesso pensavo a lui, ma non ero mai tornato nelle strade in cui ero cresciuto, perché è caratteristica degli uomini voler dimenticare i tempi oscuri. Samuel Samulelsohn però era stata la luce della mia infanzia ed ogni volta che passavo accanto a qualche libreria, a quelle del centro, ben illuminate, dove eleganti commesse e commesse accoglievano con gentilezza i clienti, mi si stringeva il cuore pensando alla figura del vecchio libraio in piedi dinanzi al suo piccolo negozio, in attesa di un improbabile cliente.
Fu il caso a spingermi nuovamente nel mio quartiere: dovevo sostenere il mio ultimo esame all’università e, come sempre, mi ero alzato molto presto. Non riuscivo mai a dormire bene prima di un esame. Dinanzi alla porta della sala dove avrei finalmente conferito per l’ultima volta sostava una ragazza. Facemmo conoscenza; si chiamava Debora, ma in quel momento non la riconobbi. Erano trascorsi troppi anni.
Ci demmo un appuntamento per il giorno dopo, ma quando proposi di andarla a prendere a casa sua, ella rifiutò categoricamente. Ci incontrammo in un Caffè del centro e poi ci vedemmo molte altre volte. Debora mi diceva ben poco di sé, ma ci innamorammo e fissammo la data delle nozze, che ella volle civili.
Era una bella giornata di sole quando ci recammo al municipio: Debora mi aspettava insieme ad un signore molto anziano. Solo quando mi fui avvicinato riconobbi il signor Samuel Samulesohn, il libraio della mia infanzia, l’uomo che mi aveva introdotto nel mondo della letteratura. Non ebbi il coraggio di dire che lo avevo già conosciuto, ma egli mi sorrise; forse lui sì, lui sapeva chi fossi. Appresi che anche la moglie Lia non era più tra noi vivi. Appresi anche altre disgrazie che gli erano occorse: il quartiere era migliorato alquanto e di fronte al suo negozio era stata aperta una libreria, con belle vetrine illuminate e distinti commessi. Il signor Samuel Samuelsohn, però, non aveva chiuso, anzi continuava ad aprire all’alba il suo esercizio e ad accogliere i bambini, leggendo le storie dai suoi vecchi libri con le pagine ingiallite. Finalmente capii chi fossero quei giovani ben vestiti che di tanto in tanto entravano nella libreria: Samuel Samuelsohn era capace di trovare qualsiasi volume in pochi giorni. Egli ricordava di aver venduto quel tale volume introvabile anni addietro al signor tal dei tali e avrebbe potuto ricomprarlo o farsene fare una copia.
Alcune notizie su Samuel Samuelsohn le appresi ovviamente da Deborah, che però non parlava volentieri del padre, altre da alcuni conoscenti. Da giovane Samuel Samuelsohn era arrivato da una città della Polonia, attraversando gran parte dell’Europa a piedi; una notte, durante il suo lungo e faticoso cammino, aveva trovato per terra un libro. Lo aveva letto e riletto, imparandolo a memoria, poi gli era venuta l’idea: traversando città e paesi aveva cominciato a frugare nella spazzatura alla ricerca di volumi di cui i proprietari si erano disfatti; li aveva ripuliti e aveva cominciato a venderli a poco prezzo. Doveva aver fatto una gran fatica trasportando un sacco colmo di libri sulle spalle. Egli però non vendeva soltanto i libri, li leggeva, poiché erano divenuti, come aveva detto a noi bambini, i suoi unici fedeli amici. Finalmente era giunto nella nostra città, dove andava casa per casa per acquistare libri vecchi. In questo modo aveva messo da parte un po’ di denaro e aveva acquistato quelle due stanze, trasformandolo nel più squallido e fornito negozio di libri, non potendo permettersi di aprire una libreria in centro.
Per tutta la vita, entro quelle anguste camere aveva letto e aveva regalato la sua vasta conoscenza non solo a noi bambini, ma a tutti coloro che vi entravano: sapeva consigliare a chiunque la lettura adatta al particolare momento della vita, s’intratteneva parlando del tale romanzo o dell’ultimo saggio di un filosofo o di uno storico o di un libro di poesia.
La memoria di Samuel Samuelsohn appartiene a quella delle specie antiche, a quella degli amici fedeli.
I dubbi di un angelo
Tutti nella strada riconobbero l’uomo con l’abito nero e il cappello a cilindro. Non era certo la prima volta che egli si presentava e non si può dire che fosse un ospite gradito.
Era il primo giorno di primavera: i fiori bianchi e rosa degli alberi di pesco e di mandorlo, che adornavano la via, si riflettevano nelle vetrine delle botteghe, i cui proprietari iniziavano ad aprire.
Il signore in nero conosceva i negozianti uno per uno, sapeva tutto di loro, ma non era contento del suo lavoro, sebbene non rientrasse nei suoi compiti essere soddisfatto o lieto; avrebbe preferito che gli fosse stata assegnata una strada di un quartiere ricco, con bei palazzi e negozi raffinati, dove passeggiano donne vestite all’ultima moda ed uomini sempre sicuri d se stessi. Al contrario, in questa strada piena di buche, tra edifici fatiscenti, casupole in rovina e baracche di legno, viveva un’umanità che si sforzava semplicemente di sopravvivere: i bambini giocavano nella polvere in estate e nel fango d’inverno, la maggior parte dei giovani, appena in età, fuggivano o andavano ad ingrossare la criminalità, gli adulti indossavano gli stessi abiti in ogni stagione, le case, nella maggior parte dei casi, erano senza riscaldamento.
Egli, l’uomo in nero, camminava lentamente, con passi che avevano qualcosa di solenne e silenziosi. Silenzio si era fatto nella strada, appena i negozianti l’avevano notato.
Era difficile non notarlo, data la sua eleganza in quel luogo di indigenza, ma nessuno lo aveva salutato, mancanza alla quale era abituato, e ben comprensibile, visto il suo lavoro.
I suoi passi erano sì solenni, ma questa volta sembravano incerti. In genere, l’uomo in nero non aveva esitazioni, andava diritto e sicuro a compiere il suo dovere, invece ora si guardava attorno perplesso ed il suo sguardo veniva evitato, poiché procurava un brivido nella schiena alla persona osservata. L’uomo pensava alla persona guardata e nella sua mente considerava la sua vita.
La prima bottega era quella di Katerina, la polacca: che vita misera! Aveva attraversato il grande oceano, insieme ai genitori, quando era ancora bambina, i quali avevano sperato di trovare là, nell’America, la terra promessa. Ella era cresciuta con il sogno di andare all’università, trovare un lavoro ed anche un marito ricco. Invece era venuta la grande depressione e l’unica risorsa era quella piccola bottega, dove, rimasta sola, continuava a lavare e stirare i pochi stracci che la gente della strada le affidava. Era rimasta nubile, o meglio era divenuta una zitella rinsecchita, con mille rughe sul viso e con pochi capelli sulla testa, che copriva con un cappello rosso.
Katerina chiuse la porta a chiave, appena vide l’uomo in nero, anche se sapeva bene che avrebbe dovuto aprire, qualora egli avesse bussato, ma quello passò oltre, voltando gli occhi dall’altra parte della strada, verso il negozio del barbiere italiano.
Un’altra storia triste! Egli era nato là, in America, non aveva mai voluto imparare la lingua dei suoi avi, credendo che una perfetta conoscenza dell’inglese lo avrebbe favorito, ma i genitori, che invece facevano fatica ad apprendere quella lingua straniera e continuavano ad esprimersi in un dialetto meridionale della terra da cui erano partiti, non avevano potuto permettersi di mandarlo a scuola.
Tony, così si chiamava, si era macchiato la fedina penale, partecipando ad una rapina a mano armata ed aveva scontato molti anni di carcere, sebbene lui avesse fatto soltanto da palo e non fosse armato. Una volta uscito di prigione, aveva lavorato come garzone del barbiere della strada, il quale, non avendo parenti, gli aveva lasciato il negozio, ma solo il sabato e la domenica qualcuno andava a frasi tagliare i capelli e a farsi radere.
Il barbiere voltò la testa dall’altra parte alla vista del nero visitatore, ma egli oltrepassò il negozio.
Ora passava dinanzi alla mescita del vecchio Jonatahan, che aveva sciupato la sua gioventù inseguendo il suo sogno nel Canada alla ricerca dell’oro ed era tornato con un piccolo gruzzolo ed un cane.
Jonathan, la cui barba bianca cadeva fluente sulle guance rosse di alcool, non chiuse la porta e non distolse lo sguardo, perché si aspettava da tempo quella visita e non ne aveva timore. In fondo non aveva vissuto male: aveva guadagnato settimana per settimana quanto bastava, i suoi figli se ne erano andati senza più dare notizie, aveva amato soltanto sua moglie, ma i clienti lo stavano a sentire quando raccontava delle sue avventure nelle grandi foreste innevate, quando narrava delle grandi corse delle slitte trainate dai cani.
Jonathan mise la mano sulla maniglia della porta, pronto ad aprire, emettendo un sospiro, ma l’uomo in nero oltrepassò la mescita. Jonathan era anche pronto ad offrirgli da bere.
Da una porta uscì Marta, che non aveva mai imparato l’inglese e aveva portato con sé la povertà. I suoi sogni, carezzati sulla nave di disperati, si erano consumati lavando scale e pavimenti negli appartamenti del centro; trascinava il suo secchio di acqua, le gambe ingrossate e le ciabatte rotte. Non era il caso di disturbarla.
L’uomo in nero era giunto alla fine della strada, dove all’angolo c’era la libreria di Samuel Samulesohn, il vecchio carico di dolori e di pazienza, che aveva insegnato ai bambini l’amore per la lettura. Egli era certo una persona meritevole, ma per tutti arriva la visita.
Samuel aprì la porta e lasciò entrare il nero ospite, sorridendo. Sapeva bene chi fosse. Il sorriso confuse l’uomo, che stava quasi per tornare sui propri passi, ma il libraio gli porse una sedia, quella dove sedeva quando leggeva i libri ai piccoli abitanti della strada.
Samuel non mostrava timore o dispiacere: prese un libro ed iniziò a leggere ad alta voce.
C’era stato un tempo in cui il compito dell’angelo nero era stato più importante e forse più facile, il tempo in cui nei campi di battaglia i cavalieri si affrontavano lancia in resta, con spregio di ogni pericolo, il tempo in cui navigatori coraggiosi traversavano vasti oceani e terribili tempeste, il tempo in cui eroi mitici, armati soltanto di spada, sfidavano draghi e mostri di ogni genere. Tempi ormai lontani. Anche gli angeli sentono il peso dei secoli.
Si racconta che Samuel Samuelsohn lesse libri tutta la notte, incantando l’angelo, il quale, al mattino, se ne andò, non dicendo quando sarebbe tornato a compiere il suo triste compito…
Le Biblioteche Perdute
Come tutti voi lettori capirete, questa storia è probabilmente la continuazione del racconto di Jorge Luis Borges “La biblioteca di Babele”. Non dice forse egli che la Biblioteca è infinita?
Narrano gli anziani, i quali molto hanno viaggiato e molto conoscono del mondo trapassato, che Alessandro il Grande non fosse un uomo di guerra, ma di pace.
Il Macedone non conquistò tutto il mondo per fame di gloria militare, bensì per fondare in ogni terra una città e porvi una biblioteca e ogni biblioteca nuova doveva essere più vasta di quella precedente. Dell’esistenza di queste biblioteche ci sono molte prove, prima tra tutte l’autorevolezza dei vecchi saggi, sebbene nel corso dei secoli alcuni uomini, spinti dalla giovinezza, abbiano messo in dubbio le loro parole.
Tra questi ribelli ci fui anch’ io e per tale sfida fui punito, ma in realtà il castigo si è rivelato un premio. Credo che la stessa ventura sia avvenuta a tutti i miscredenti.
La mia affiliazione iniziò con l’allontanamento dalla terra natia, anche se ben presto compresi che la mia patria sarebbe stata una delle biblioteche o tutte esse.
Fui mandato lontano: mi fu ordinato di recarmi fino alla Grande Muraglia, che tutti credono costruita per difendersi dagli attacchi dei Mongoli, questa superstizione è del tutto erronea, ma è comunque contenuta in uno dei libri che si trovano in una delle biblioteche interne alla grande costruzione.
Mi furono dati cammelli, carichi di vettovaglie e di merci preziose, uomini adusi a combattere i predoni e mille consigli.
Mi fu anche assegnato il nome di Marco Polo, il viaggiatore veneziano, segno che dovevo seguire il suo itinerario, ma naturalmente, nonostante l’appellativo non lo feci, non perché non volessi, bensì perché nessuno può programmare le tappe e le soste di un viaggio; infatti dopo quindici giorni di cammino fummo attaccati dai una banda di razziatori che rubarono molti cibi e una gran quantità dei doni preziosi che avremmo dovuto offrire all’Imperatore. Perdemmo anche molti uomini. Che sia pace alle loro anime.
Invece di procedere direttamente verso est, volgemmo a sud-est, viaggiando per molti mesi, finché giungemmo in una grande città, della quale si vedevano in lontananza splendere i tetti d’oro e si udiva un mormorio indefinibile.
Ho però da confessare che già allora iniziai ad avere una strana malattia, la nostalgia, non per la terra dove avevo vissuto, ma per la strada, per le notti trascorse nei deserti, nelle foreste, nelle taverne.
Dimenticai presto i nomi degli uomini che perivano lungo la via, perché il mio sguardo e la mia anima erano sempre rivolti ad un confine da oltrepassare, all’apprendimento di un nuovo sconosciuto idioma, ad una nuova pietanza o bevanda da gustare, ad una nuova fanciulla da ammirare e da amare, fosse pure una meretrice.
Il chiasso della città, le sue strade polverose, l’andirivieni frenetico nelle vie, contrastavano con la quiete delle notti trascorse fino ad allora, ma qui scoprii la prima meraviglia: il brusio che avevamo udito era causato dalle pagine dei libri che ogni abitante sfogliava.
Tutta la città è una biblioteca e ognuno non fa altro che leggere, eccetto che nelle pause per i bisogni corporali. Le porte delle case sono sempre aperte; non esistono bibliotecari, perché ognuno, una volta letto un libro, lo può deporre nello scaffale di qualsiasi abitazione; naturalmente il denaro è stato eliminato e solo i libri fungono da merce di scambio.
La necessità del cibo è soddisfatta per mezzo dell’agricoltura, che viene praticata a turno dalla popolazione.
Ci fermammo alcuni mesi in questa città e divenimmo anche noi lettori, poi riprendemmo il cammino verso nord-est, inerpicandoci su aspri monti coperti di neve e di ghiacci, finché giungemmo ad un castello, che racchiude la biblioteca dei libri proibiti e dei sogni, della quale si parla in un racconto precedente.
La discesa non fu meno faticosa della salita e alcuni cammelli precipitarono in taluni precipizi insieme agli uomini che li governavano.
Nella pianura finalmente potemmo riposare e ristorarci, per poco tempo però, perché sapevamo che una nave ci aspettava.
Le città di mare hanno il loro fascino, con lo specchiarsi dei palazzi nell’acqua, con la musica dell’ininterrotto mugghiare delle onde, con gli osti maleodoranti di olio fritto sulle soglie delle locande, con le grida dei marinai. Anche in questa città era stata edificata una biblioteca, nella quale si trovano tutti i libri che parlano di mare, volumi di scienza, di viaggi, romanzi, racconti. Naturalmente hanno un posto d’onore l’Odissea, il Leviatano e Moby Dick.
Durante la traversata scoprimmo che Omero aveva detto la verità quando aveva raccontato la storia delle Sirene.
Non ci fermammo nella città del porto d’arrivo, ma proseguimmo immediatamente il nostro viaggio, inoltrandoci in un immenso deserto, facendo riferimento alle stelle.
Una notte fummo travolti da una tempesta di sabbia, che penetrava perfino dentro le unghie. Cercando un riparo, trovammo una costruzione di sabbia e fango: questa è la biblioteca unica.
Si chiama così perché vi si trova un solo libro, ma in molte copie, ovvero tradotto in tutte le lingue e i dialetti del mondo; anche se in un idioma, lingua riconosciuta o dialetto, una sola parola muta una sola lettera, il libro viene nuovamente trascritto interamente dai pazienti amanuensi, che vivono tra questi vetusti muri.
Poiché la nostra carovana era composta di uomini che parlavano lingue diverse, ognuno poté leggere il suo libro.
Ci sono congetture secondo le quali questo libro è il primo della storia della scrittura ed in esso si trova la prima lettera o il primo geroglifico inciso dalla mano di un uomo su una corteccia d’albero o sulla sabbia del deserto. Ma sono ipotesi. Io ho letto nella mia lingua il libro e ho l’obbligo di mantenere il segreto.
Durante le freddi notti fummo intenti a scrivere sulla sabbia la lunga storia del nostro viaggio ed essa è riportata in una delle biblioteche dimenticate. Ci furono altre razzie ai nostri danni ed io rimasi solo e senza cavalcature di nessun tipo e continuai a piedi, come si addice ad un viandante.
Infine vidi la Grande Muraglia e, una volta dinanzi ad essa, un vecchio guardiano mi accolse. Era uno dei sapienti e mi introdusse al di sotto della strada superiore, in una delle innumerevoli biblioteche disseminate all’interno della costruzione.
Da allora vivo dentro questa biblioteca e scrivo questo racconto. Se tu, lettrice, stai leggendo questa storia, sei anche tu dentro la biblioteca e questa è la prova innegabile della sua esistenza.
Lo gnomo dei libri
Prima di presentarmi ho alcune precisazioni da fare.
Gli gnomi, genere al quale appartengo, vivono sotto i funghi o dentro i tronchi degli alberi. Esistono gnomi che vivono nei giardini degli esseri umani, ma costoro sono della peggiore specie. È vero, essi aiutano le brave massaie nelle faccende di casa: sanno impastare la farina, puliscono le stalle, falciano l’erba, ma le donne hanno il dovere di provvedere al loro sostentamento e, se una sola volta dimenticano di farlo, questi esseri, che pure sono miei fratelli, diventano malvagi e cominciano a tormentare tutti gli abitanti della casa.
Racconta Heinrich Heine(1) che alcune famiglie furono costrette a fuggire, caricando tutti i loro averi sul carretto, ma, mentre credevano di aver lasciato per sempre il loro gnomo, questi se la rideva nascosto dentro un mobile.
Alcune fonti sostengono che la nostra stirpe nacque intorno a quell’epoca chiamata “Rinascimento”, ma è una supposizione errata, perché noi siamo spiriti della terra e siamo nati insieme ad essa, ben prima che i piedi degli umani calpestassero il suolo. Riguardo a ciò, si dice ancora che noi possiamo spostarci nel sottosuolo con la stessa rapidità con cui gli uomini camminano al di sopra di esso, ma in verità noi siamo capaci di muoverci ovunque velocemente.
Tutti i testi ci ritraggono come vecchietti con lunghe barbe bianche e con cappelli a cono di colore rosso, ma non è esatto, perché anche noi, come gli esseri umani, nasciamo, cresciamo e periamo, sebbene la nostra vita duri centinaia di anni. Soltanto quando abbiamo acquistato la sapienza possiamo indossare il cappello rosso, mentre per i bambini il cappuccio è verde, vale a dire del colore dei boschi, dove essi giocano; l’infanzia prosegue fino a duecento anni, poi si è ragazzi e si indossa il cappello azzurro, che è il colore dei fiumi e del cielo. Solo dopo trecento anni, se si dimostra di conoscere alla perfezione tutte le creature delle foreste, compresi ovviamente gli alberi, i fiori e le erbe, si ha l’onore di mettersi sulla testa il copricapo rosso. È un gran giorno quello e si celebra una cerimonia solenne, alla quale ho assistito molti secoli fa, ma sfortunatamente non sono stato mai insignito del cappello scarlatto, sebbene mi sia sforzato ogni giorno della mia vita di acquisire la conoscenza. La via del sapere è però lenta ed impegnativa. Per questo vivo in questa biblioteca da secoli.
Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, quello che voi chiamate Paralcesus, comprese che il nome della nostra stirpe ha a che fare con la conoscenza.
Come si acquisisce la sapienza?
I vecchi, quelli con i cappelli rossi, ci istruiscono sui segreti delle selve, dei fiori, degli animali, dei funghi, degli alberi e dopo secoli ci sottopongono ad un severo esame.
Sostenni molte volte la prova, ma la mia testa non fu mai glorificata con il berretto vermiglio a punta , perché dimenticavo sempre il nome di qualche filo d’erba o di qualche minuscolo insetto.
Gli anni ed i secoli si succedevano l’uno all’altro ed io mi sentivo ridicolo con la lunga barba bianca, il viso solcato da profonde rughe ed il cappello azzurro, che non era più segno della giovinezza, bensì della mia ignoranza, sì che venivo fatto oggetto di scherno o di disprezzo.
Gli gnomi con i cappelli verdi e azzurri mi deridevano, facevano circolo e intonavano una cantilena che diceva che ero ignorante come un essere umano e che presto qualche tagliaboschi avrebbe abbattuto l’albero dove vivevo e i raggi del sole mi avrebbero trasformato in una pietra. Naturalmente ero terrorizzato da questa predizione, sebbene proferita da ragazzi e bambini, ma sapevo che la colpa era solo mia.
Dove potevo acquisire la conoscenza?
Una volta un vecchio mi aveva raccontato che gli uomini avevano degli strumenti chiamati libri per ricordare tutto ciò che apprendevano, perché la loro memoria non era pari alla nostra e che questi oggetti si trovavano in costruzioni chiamate biblioteche.
Il vecchio gnomo si chiamava, guarda caso, Paracelsus e lo cercai. Si era trasferito in un bosco molto lontano, ma questo non era un problema, così mi misi in viaggio ed in pochi secoli raggiunsi una pineta a nord del nord del mondo, dove potei incontrare Paracelsus. Esposi all’eccelsus il mio caso e chiesi se fosse una buona idea quella di andare a consultare i libri degli uomini. Credevo che per far questo occorresse poco tempo, un giorno o due, ma quando Paracelsus, a queste mie parole, scoppiò in una fragorosa risata che fece tremare tutto il bosco, e che gli uomini scambiarono per un terremoto, capii quanto ero stato sciocco.
Era comunque una buona idea, ma prima dovevo imparare le lingue degli umani. Fu Paralcesus stesso il mio maestro e finalmente, dopo molte centinaia di anni, mi condusse attraverso secoli bui del passato nella Biblioteca di Alessandria.
Egli tornò alla sua foresta, io rimasi.
La prima notte in quel nuovo ambiente, che era per me una terra d’esilio, fu colma di rimpianti: mi struggevo di nostalgia per il silenzio del bosco, l’odore dei fiori, il contatto con la corteccia dell’albero che era la mia casa, il sapore dei funghi, delle fragole, delle castagne e delle more, i discorsi con gli scoiattoli, la musica del vento, degli ululati dei lupi, del cinguettio armonioso degli uccelli, dei passi pesanti degli orsi.
Memore degli insegnamenti del sapiente gnomo Paracelsus, presi un libro a caso e, guarda che strano, era un volume sulla nostra stirpe. Risi molto delle insensate congetture che gli uomini narrano degli gnomi e lo riposi là dove lo avevo trovato. Mi recai allora nella sala di scienze naturale, credendo di poter trovare là qualche volume che dicesse la verità su di noi, ma di libri sugli gnomi non ve ne erano, tuttavia lessi molto di flora e di fauna del mondo.
Quando il sole stava per sorgere mi accorsi che il mio stomaco stava emettendo strani gemiti, dovuti all’assenza di cibo. Mi guardai intorno, ma non c’era proprio nulla da mangiare.
Tornai nella sala precedente, quella dei libri di fiabe, e ripresi il volume che trattava di gnomi. La copertina rigida ebbe un sapore sgradevole, ma man mano che andavo avanti con le pagine, il gusto era sempre più piacevole.
I primi raggi del sole penetrarono attraverso le finestre ed io, per paura di essere trasformato in un sasso, mi nascosi in un grande volume. Da quel rifugio potevo vedere bene la sala. Sentii entrare qualcuno, una donna, la quale notò sul pavimento i resti – briciole di carta – del mio pasto. Ben presto la sala si riempì di altri esseri umani, che attribuirono ai topi lo scempio del libro.
Per tutto il giorno ci fu un andirivieni di esseri umani, poi finalmente tutti andarono via ed io potei fare capolino. Ero rattristato dall’azione che avevo commesso, ma sapevo come riparare: su una scrivania c’erano dei fogli e un calamaio; trascorsi la notte trascrivendo il libro che mi aveva nutrito parola per parola, ma vi aggiunsi particolari e disegni realistici del nostro mondo. I
l giorno seguente quella giovane donna trovò il libro sulla scrivania e gridò al miracolo, ma, con mio grande dispiacere, una volta rilegato il testo, lo infilò in uno scaffale della sala delle fiabe invece che in quella dedicata alle scienze naturali. Durante la notte corressi quest’errore, ma l’indomani la bibliotecaria cambiò di nuovo posto al mio capolavoro.
Questa piccola guerra tra me e la donna durò quasi un mese, poi mi stancai e pensai che non valesse la pena di affaticarmi per chi non aveva nessuna intenzione di imparare. Riuscii a digiunare per un altro mese, poi mangiai un altro libro, mi pare un lungo romanzo, facendo attenzione a non lasciare tracce del mio magnifico banchetto.
Accadde però che un giorno qualcuno chiese a prestito quel romanzo e la bibliotecaria scoprì nello scaffale il posto vuoto. Con uno strano sorriso ella disse: «Maledetto, ora rubi i libri?». Tremai per il timore di essere stato scoperto, ma poi, quando la vidi tornare armata di un flacone di veleno, capii che aveva attribuito il furto ad un topo di biblioteca.
Nella notte provvidi a gettare nella spazzatura il veleno e a riscrivere il libro.
La storia dei libri riscritti si diffuse ben presto e iniziarono assurdi racconti di fantasmi, a causa dei quali tutti gli impiegati, eccetto la coraggiosa bibliotecaria, diedero le dimissioni.
Devo dire che i libri più saporiti sono quelli di cucina, ma anche i romanzi non sono da disprezzare. Ci sono poi volumi che bisogna masticare con lentezza, ad esempio quelli di medicina, ma con il tempo ci si abitua a gustarli.
Ho trascritto tutta la biblioteca, ad eccezione di un libro, poi, una volta uscito, potrò indossare finalmente il cappello rosso.
Mentre lo gnomo era intento alla scrivania per la sua ultima fatica, i raggi del sole lo trasformarono in una pietra, che è tutto quel rimane della Biblioteca di Alessandria …
NOTA
1) Heine Heinrich, La Germania, Bulzoni editore
Fogli traditi
Stefan uscì con un opprimente senso d’angoscia dalla misera stanza, sita al di sotto della strada. Non riusciva a togliersi dagli occhi l’immagine di quell’uomo, ancora giovane, con cui aveva condiviso gran parte della vita, sul letto di morte. Pensava a quando l’aveva conosciuto, durante l’infanzia.
Tutti nella classe della scuola elementare avevano notato il bambino con la camicia sporca e i pantaloni rappezzati, privo di giacca, con i capelli sporchi e arruffati. Il nuovo arrivato sedette, come si usava a quei tempi per i poveri, nell’ultimo banco. Quel bambino tuttavia aveva anche occhi neri e vivaci, che denotavano un’intelligenza pronta. Egli dimostrò ben presto il suo ingegno: mentre i suoi vicini erano sempre distratti, Markus – questo il nome – non perdeva una parola delle spiegazioni dei maestri e dimostrava talento in ogni disciplina. Fino a quel momento Stefan era stato il migliore della classe, ma dentro di sé doveva ammettere che Markus aveva qualcosa in più, qualcosa che egli non avrebbe saputo definire, insomma quel qualcosa che rende la genialità diversa dall’intelligenza, anche dalla più brillante: se Stefan risolveva con facilità i problemi matematici, Markus riusciva a comprenderli anche saltando un passaggio; se Stefan componeva un bel testo letterario, Markus riusciva a scriverlo con più eleganza e con la scelta di termini più adatti; se disegnavano, i colori della raffigurazione di Markus erano più vividi o, se ciò era richiesto, più realistici. Quando recitava una poesia, c’era qualcosa di mistico nella sua voce; quando leggeva una fiaba, lo faceva con l’amore che hanno le nonne e le madri nel narrare; quando, interrogato, esponeva un avvenimento storico, sembrava che lo avesse visto con i suoi stessi occhi.
Più tardi, da adulto, Stefan, frequentatore di teatri, confessava a se stesso di non aver mai trovato un attore con tali capacità. Markus leggeva e declamava con l’estasi che hanno gli eremiti quando, pregando, diventano essi stessi preghiera.
C’era in qual bambino, tuttavia, qualcosa d’inquietante: non sorrideva mai, non piangeva, non si lamentava né dei rimproveri degli insegnanti né delle punizioni, e durante la pausa non usciva in giardino per giocare con gli altri bambini, ma restava seduto al suo posto, perfettamente immobile, senza muovere un solo muscolo, con lo sguardo fisso nel vuoto.
Stefan era, a un tempo, affascinato e intimorito da Markus: avrebbe voluto diventargli amico, ma la sua condizione di rampollo di una ricca famiglia di editori non gli permetteva di avvicinare un bambino del quale non si conosceva neanche l’origine, entrato nella scuola soltanto grazie ad una nuova legge cittadina che permetteva all’amministrazione di concedere ad un povero su mille di studiare.
Al contrario di Markus, Stefan era un bambino vivace, sempre pronto al gioco ed allo scherzo, ma, come tutti i bambini, soffriva per un biasimo o per un castigo, fosse o meno meritato, per un cattivo voto o per una sconfitta. Era, probabilmente, la diversità dei caratteri a muovere la curiosità. Egli aveva più volte invitato Markus a giocare, ricevendo un monosillabico rifiuto, lo aveva interpellato, fingendo di aver bisogno di aiuto per qualche compito. Markus aveva chinato la testa e si era limitato a risolvere la questione in silenzio, con penna, carta e calamaio. C’erano stati anche inviti a recarsi a casa di Stefan, ma senza alcun risultato, se non lo scuotere la testa in senso di diniego. Stefan era ancora troppo piccolo per comprendere la vergogna di Markus per i suoi vestiti e la sua sporcizia, perché vedeva in lui soltanto un compagno di classe dotato e interessato al sapere come lo era lui stesso.
Dove abitava Markus? Dove trascorreva le giornate? Se era così sporco, com’era possibile che i suoi quaderni, donati dallo Stato, fossero sempre puliti e ordinati? Nei compiti che ogni giorno Markus mostrava al maestro, non c’era l’ombra di una cancellatura o di una correzione, la grafia era elegante e, miracolo, i caratteri perfettamente allineati come in un libro. E dove aveva imparato Markus ad esprimersi in modo tanto corretto ed raffinato? Queste domande battevano incessantemente nella testa di Stefan. La curiosità era invincibile, tanto che un giorno, terminate le lezioni, invece di andare a casa, Stefan decise di seguire Markus, pur sapendo che sarebbe stato rimproverato e punito dai genitori per essere rientrato tardi. Fu ben attento a tenersi lontano da Markus, precauzione del tutto inutile, perché questi camminava tra la folla della città, assai numerosa a quell’ora nel giorno di sabato, senza mai voltarsi. Markus aveva un’andatura veloce, teneva il busto ritto, sembrava non vedere nessuno. I negozi del centro, perfino quelli di giocattoli, non attiravano la sua attenzione, mentre Stefan si sarebbe fermato volentieri a guardare quelle vetrine già illuminate, piene di soldatini di piombo, di trenini elettrici, di costruzioni e di altre meraviglie. Dinanzi ad una vetrina finalmente Markus sostò a lungo. Stefan non era troppo lontano per vedere gli occhi dell’inseguito che scintillavano di desiderio e tristezza. Era la vetrina di una libreria. La pausa durò a lungo, poi l’inseguimento riprese. Le strade del centro della città furono superate e inseguitore ed inseguito si avventurarono attraverso vicoli tortuosi, stretti e soprattutto sporchi, infine uscirono in campagna, e camminarono per un lungo tratto fino a quando Markus entrò in una misera baracca di legno, nascosta dietro a un cumulo di spazzatura.
Stefan non ebbe il coraggio di avvicinarsi e iniziò la via del ritorno, ma non riusciva ad orientarsi. Smarrito, iniziò a correre da una parte all’altra, ma, invece, di dirigersi verso la città, si allontanava; inoltre si stava facendo buio. Sopraffatto dalla disperazione, cominciò a piangere; le lacrime cadevano copiose sul suo viso e i singulti si facevano sempre più numerosi e più forti. Abbattuto, si gettò a terra, ma in quel momento sentì una mano toccargli la spalla e subito dopo la voce di Markus. Si vergognò del suo pianto, ma era pur sempre la salvezza. Il bambino povero afferrò per mano il ricco e lo accompagnò fin dinanzi alla scuola, perché da lì Stefan avrebbe trovato facilmente la via di casa. I due bambini camminarono in silenzio, tra le strade non più affollate, anzi quasi deserte. Markus lasciò la mano del compagno solo dinanzi all’edificio scolastico, poi scomparve nella notte, per sempre. Il lunedì seguente, infatti, non si presentò a scuola, né il martedì né il giorno seguente, non si presentò mai più.
Spesso Stefan pensava al compagno che lo aveva salvato; una volta, ormai giovane cresciuto, cercò la misera baracca in cui aveva visto entrare Markus, ma forse sbagliò strada o forse quel tugurio era stato abbattuto. Con il trascorrere del tempo, Stefan dimenticò l’accaduto e perfino l’esistenza del misterioso compagno; intraprese con successo gli studi fin alla laurea, si sposò, ebbe alcuni figli, successe al padre nella direzione della casa editrice. Amava il suo lavoro, soprattutto era felice quando riusciva a scoprire nuovi scrittori e le loro opere avevano successo. Era prestigio per loro, per la casa editrice e, soprattutto per se stesso. Anch’egli avrebbe voluto scrivere e veder pubblicata qualche sua opera, ma sapeva bene di non avere simile talento. A volte, nel segreto della sua camera, in perfetta solitudine, sedeva alla scrivania e scriveva, ma quando, mettendosi nei panni di un possibile lettore, rileggeva i fogli, si avvedeva della freddezza dello scritto e strappava tutto. Ben presto rinunciò al suo intimo sogno e si dedicò unicamente al suo lavoro. Molto spesso, quando pubblicava un libro di un autore sconosciuto, se questi era povero, si autoingannava, credendo di fare anche una buona azione.
Era soddisfatto della sua vita.
Diverso era stato il destino di Markus, iniziato su un prato. La madre, ragazza abbandonata appena l’uomo aveva saputo che era in stato interessante, aveva partorito in un campo vicino ad un bosco e lo aveva abbandonato. Per fortuna del piccolo, che piangeva con tutta la sua forza, passarono degli zingari e lo raccolsero. Markus, nome assegnatogli dai gitani, fu allattato e nutrito, crebbe sano e robusto, ma a Markus quella vita non piaceva e si sentiva un estraneo. Quando a sera si cantava e si ballava, egli se ne stava in un angolo, silenzioso e a testa bassa. Non provava gratitudine per coloro che lo avevano salvato da morte sicura. Ben presto tra gli zingari salì il rancore per l’irriconoscenza del bambino taciturno, che non condivideva la vita con i loro figli, ma non lo scacciarono.
Quando attraversavano una città, in qualsiasi terra si trovassero, Markus ascoltava con attenzione i discorsi degli abitanti e imparava con facilità, anzi più che apprendere, egli faceva sua la lingua del posto. Allo stesso modo imparò a leggere: raccoglieva libri vecchi dai cassonetti della spazzatura e riscriveva sulla terra le lettere. I suoi vestiti erano sporchi, ma la sua andatura donava eleganza perfino agli stracci che indossava. Stanchi di osservare quel bambino, che sembrava guardare i loro figli come un re guarda i suoi sudditi, gli zingari lo abbandonarono ai margini di una città. Markus non pianse, non si disperò, si guardò intorno e decise di rimanere in quel luogo. Con qualche tavola di legno e qualche chiodo, raccolti per le strade, costruì una baracca. Di giorno vagava per le vie, chiedendo l’elemosina e facendo qualche piccolo lavoro, finché non avvenne il miracolo che lo condusse fino a scuola, dove sedette nella stessa classe di Stefan.
Era una sera fredda, spirava un vento gelido, le strade e i tetti delle case erano coperti di un abbondante manto di neve. Stefan uscì dal suo caldo ufficio e si avviò verso casa, già pregustando il caldo pasto che sua moglie aveva sicuramente preparato, godendo al pensiero di sedere sulla poltrona accanto al camino, guardando i giochi dei figli e poi leggendo un buon libro. La nevicata si trasformò ben presto in una vera bufera; i fiocchi di neve divenivano sempre più grossi, impedendo a Stefan di vedere, ed il vento aumentava di velocità, tanto che egli doveva appoggiarsi al muro. Casa non era lontana, ma Stefan camminava ormai quasi da un’ora, quando si rese conto di essersi smarrito. Si guardò intorno alla ricerca di un punto di riferimento, ma c’era soltanto il bianco della neve. Cercò qualcuno, ma si rese conto di essere solo. I negozi erano chiusi, nelle vicinanze non c’era alcun locale, dove ripararsi né qualche portone aperto. Non aveva mai più pensato a Markus, anzi lo aveva del tutto dimenticato. Solo in quel momento ricordò il suo antico salvatore. Quasi nello stesso momento in cui riaffiorava il ricordo, urtò in qualcuno, sentì un forte odore di assenzio e di sporcizia. Si ritrasse, ma subito pensò che almeno un essere umano ci fosse nella città deserta.
«Signore» chiese con gentilezza «mi sono perso. Potreste per favore dirmi dove mi trovo?». Lo sconosciuto lo guardava con occhi vitrei, che tuttavia sembravano perdersi nel vuoto. «Stefan, non mi riconosci?» «Lei mi conosce?» «Ma certo Stefan, sono Markus.» «Dove sono?» «Dove abiti?»; Stefan disse il nome della strada; «Sei lontano e con questo tempo non puoi tornare; vieni da me e aspetteremo insieme che la tempesta smetta, ma prima compriamo una bottiglia» «Va bene».
Markus lo condusse in una mescita, dove Stefan acquistò una bottiglia di liquore, poi s’incamminarono e giunsero in una strada colma di rifiuti, abitata soprattutto da ratti. E topi erano anche nella stanza sotto la strada, dove Markus abitava. Una sola candela stava sul tavolo. Stefan pensò all’albero di Natale illuminato nella sua casa. C’erano sparsi dappertutto manoscritti in bella grafia e in perfetto ordine. Markus aprì la bottiglia e porse a Stefan un bicchiere opaco di sporcizia, ma egli rifiutò. Markus beveva a grandi sorsi dalla bottiglia e presto si addormentò con la testa sul tavolo. La tempesta non si placava, Markus russava, Stefan era preoccupato per la famiglia e, per vincere l’angoscia, iniziò a leggere qualche manoscritto. Comprese ben presto, da esperto editore, di aver trovato un valido scrittore: poesie, racconti, romanzi, che avrebbero affascinato qualsiasi lettore e che avrebbero trovato anche il favore dei critici. Leggendo, dimenticò la tempesta, la preoccupazione, il lezzo terribile di quella stanza e dell’uomo seduto accanto a lui.
Markus si svegliò all’alba, bevve quel poco che era rimasto nella bottiglia, guardò Stefan sbalordito, perché non ricordava di averlo incontrato. Stefan gli spiegò cosa fosse accaduto la sera precedente. La tempesta era cessata e Markus accompagnò il vecchio compagno di scuola quasi fin sotto casa, non senza avergli chiesto un’altra bottiglia di liquore. Prima di separarsi, Stefan chiese a Markus di rivederlo, perché era interessato a pubblicare i suoi scritti. Markus, mentre già inghiottiva l’alcool, scoppiò in una sonora risata, dicendo che era un’assurdità. Stefan insistette, ammettendo che non stava scherzando e che era l’occasione di cambiar vita. La discussione durò per qualche minuto, fino a quando Markus si convinse a rivedere l’uomo e a portargli in ufficio i manoscritti. Stefan tuttavia li voleva quel giorno stesso, ma prima Markus avrebbe dovuto cambiarsi di abito. Stefan entrò in casa, per riuscirne quasi immediatamente; accompagnò Markus in un negozio di abbigliamento, dove comprò un bel vestito, poi lo condusse nella sua casa e gli permise di fare un bagno. Markus apparve profumato e, per la prima volta in vita sua, elegante anche negli abiti.
I due vecchi compagni di scuola si recarono nella stanza di Markus, il cui fetore contrastava con il nuovo odore del suo solito abitante. Stefan mise tutti gli scritti nella sua borsa, poi s’incamminarono verso l’ufficio. Markus si guardava intorno, ammirava i libri nello studio di Stefan, respirava profondamente il proprio nuovo sconosciuto profumo e si sentiva felice. Stefan prese un libro ben rilegato da uno scaffale, e annunciò a Markus che anche i suoi manoscritti sarebbero diventati libri con belle copertine. Gli occhi di Markus, provati dalla luce intensa nell’ufficio, vagavano ovunque.
Egli era un essere dell’ombra, aveva scritto tutto sempre alla luce di una sola candela, ma soprattutto era vissuto ai margini di ogni consorzio umano, aveva rasentato i muri, vergognoso della sua condizione, aveva evitato ogni contatto con gli altri esseri umani, aveva amato l’oscurità, capace di nascondere ogni sua emozione ed ogni suo sogno. I sogni li aveva incisi sulla carta nella sua maleodorante stanza, eppure non aveva mai sognato che quelle parole, scritte con passione e disperazione, divenissero un giorno volumi ben rilegati da porre in bella mostra nelle vetrine delle librerie. Erano sogni che lo consolavano della sua esistenza e questo gli bastava, come gli era sufficiente trangugiare liquore per dimenticare se stesso e la propria vita. Per la prima volta assaporò la felicità, si avvide che i miracoli avvenivano, ma nello stesso tempo avvertì la sete insaziabile che lo dominava. Una bottiglia di liquore per festeggiare: questo chiese a Stefan. Uscirono dall’ufficio, Stefan comprò il liquore e accompagnò a casa, se casa si poteva chiamare, Markus, il quale, si sdraiò sulla branda e continuò a bere, fin quando emise un terribile rantolo e spirò.
Nelle vetrine delle librerie di molte città oggi appaiono i libri di Markus, ma il nome del suo autore è Stefan! …
Letture e castigo
Probabilmente la mia voce vi giunge flebile, da un’infinita lontananza, da un mondo che non potete vedere né immaginare. Chi io sia e dove mi trovi vi sarà più chiaro se comincio a narrarvi ciò che mi accadde nel mondo dove voi vi trovate.
Nacqui da famiglia benestante, in una grande casa, colma di libri. I miei genitori erano persone colte e coltivavano la passione della lettura, trasmettendola ai figli, riuscendo in questo loro desiderio, anzi in questa loro missione, con tutte le mie sorelle e i miei fratelli, con tutti, tranne che con me.
Mio padre e mia madre iniziavano la loro educazione ai figli con i bei libri per bambini posti sotto l’albero di Natale, ma io non riuscivo a provare gioia per quei volumi con belle immagini colorate, al contrario, quando la mamma li apriva e iniziava a leggere le storie contenute in essi, mi annoiavo e mi rattristavo e il mio sguardo correva alla finestra, immaginando un mondo meraviglioso, di là dai vetri, un mondo dove poter correre, arrampicarsi sugli alberi, cacciare gatti, andare in giro con altri bambini.
Venne il tempo di frequentare la scuola e i miei genitori pensarono che in quel luogo la mia avversione per le pagine stampate sarebbe stata finalmente, se non sconfitta, almeno attenuata. Niente affatto! Appena ne avevo occasione, quando ad esempio restavo solo nella mia stanzetta per fare i compiti assegnatimi dai maestri, cedevo al mio odio e strappavo, senza alcun ritegno, i fogli del libro. Allo stesso modo rifiutavo con tutte le energie possibili di imparare a scrivere. A che cosa serviva? Perché Dio ci avrebbe dato la parola? Con grande fatica riuscii a superare la scuola, ma devo ammettere che forse fu l’influenza del mio cognome ad aiutarmi in quel successo più che immeritato. Accadde anche nella scuola media, ma quando entrai nel liceo, una scuola importante, mi resi conto che i professori non erano per nulla disposti a tener conto della reputazione della mia famiglia. I miei fratelli e sorelle avevano ottenuto risultati eccellenti in quello stesso istituto e i paragoni frequenti, anzi quotidiani, che gli insegnanti proferivano dinanzi a tutti gli allievi, a ogni possibile circostanza, mi umiliavano, ma rafforzavano in me l’odio per lo studio. Non c’era alcuna disciplina, nessun argomento capace di suscitare nella mia mente e nella mia anima la seppur minima favilla d’interesse. La maggior parte del primo e unico anno di liceo la trascorsi in punizione. Quando il preside e i professori, riuniti dinanzi a mia madre e mio padre, comunicarono che non c’era per me alcuna possibilità di recupero, avevano i visi seri e costernati, ma io sapevo che essi erano ben contenti di liberarsi di un ragazzo che rifiutava di apprendere qualsivoglia nozione. Anche se non era stato detto chiaramente, ero la vergogna della famiglia.
Da quel momento iniziò per me una vita nuova e molta più dura. Il giorno della mia “espulsione” dalla scuola, mentre tornavo a casa, tenevo la testa bassa, ma in realtà ero più che felice: non sarei stato più punito, non avrei mai più ascoltato avvilenti confronti! Che idiozia! Solo adesso, in questo mondo fatto di nulla, ho compreso che la vera punizione era essere stato “espulso” dai libri! Andiamo per ordine.
Nel tragitto tra l’istituto scolastico e la mia casa immaginavo che per me sarebbe iniziata una vita spensierata, di giochi e divertimenti. Cos’altro potevo fare e cos’altro potevano fare i miei genitori per me? Dovetti ben presto costatare di essermi sbagliato: mi fu concesso di pranzare insieme a tutta la famiglia, ma fu l’ultima volta. Durante quel pasto nessuno mi rivolse la parola, anzi in verità nessuno si degnava di guardarmi. Anche per le mie sorelle ed i miei fratelli ero l’onta, il disonore! Fui spedito in camera mia. Che sollievo! Non c’era la benché traccia di libri, quaderni, penne! La mia idea di una vita senza impegni di tal genere si rafforzò ancor più; inoltre attribuivo la responsabilità dell’antipatia che i miei fratelli mi avevano appena dimostrato ai libri. Non me ne curai molto e dormii tranquillamente, fiducioso nella nuova alba che mi attendeva.
L’alba tuttavia fu tutt’altro che foriera di felicità. Mio padre si presentò al sorgere del sole, vestito come nelle grandi occasioni; aspettò che anch’io mi vestissi e, senza dirmi una parola, mi afferrò per mano e mi accompagnò fuori di casa. Salimmo su un autobus ed anche questo era insolito, perché si usava sempre l’automobile, ma il mio genitore non volle disturbare l’autista a quell’ora. Non riuscivo ad immaginare quale fosse la destinazione del nostro viaggio. Papà guardava attraverso il finestrino, senza mai voltarsi verso di me, tanto che pensai si fosse dimenticato della mia presenza. Le strade erano animate dagli operai che si recavano a lavoro, presenti anche nell’autobus, con le loro tute blu, i fagotti che racchiudevano la colazione e da cui emanava l’odore di cipolla e salame. L’autobus superò le case del centro ed entrò nella periferia della città, zona che non avevo mai visto né immaginato: case fatiscenti, ratti per le strade, bambini che giocavano nella spazzatura. Un barlume di coscienza iniziò a farsi strada in qualche luogo della mia anima e iniziai ad aver paura di essere abbandonato; alzai lo sguardo verso mio padre, ma il suo viso era ancora rivolto al finestrino ed era impenetrabile. Mi assalì la nostalgia della mia camera ben riscaldata, perfino dei libri, addirittura della scuola dalla quale ero stato cacciato con ignominia. Avrei voluto tirare la giacca di mio padre, dirgli che da quel momento avrei cambiato atteggiamento, avrei letto tutti i libri del mondo, avrei studiato anche di notte, ma il suo viso, i suoi occhi erano connotati da un’immobilità indicibile.
Libri, nostalgia! In questo mondo fatto di nulla, ora so che cosa significhino!
Infine l’autobus giunse al capolinea: non si vedevano più case; dinanzi a noi c’era solo una grande fabbrica, dalle cui ciminiere salivano nel cielo grigio mattutino dense strisce di fumo nero. In realtà non so se il cielo fosse grigio, ma ho il ricordo di quel giorno senza sole. È l’unico ricordo che mi è consentito in questo mondo fatto di nulla! Mio padre lasciò la mia mano dinanzi al cancello della fabbrica, parlò con il guardiano e se ne andò, voltandomi le spalle, senza guardarmi. Non ero più suo figlio! Non capivo che cosa stesse accadendo, il pianto si fermava nella mia gola, avrei voluto correre dietro a mio padre, ma una mano molto più robusta di quella che aveva stretto la mia fino a quel momento mi afferrò e mi trascinò in quella che credevo fosse una fabbrica.
Era tutt’altro: un istituto di correzione, dove si lavorava duramente. Era, insomma, un vero carcere. Quella prigione era certamente di questo mondo fatto di nulla, dove mi trovo ora. C’erano altre ragazze e ragazzi, ma non era concesso parlare tra di noi e qualsiasi tentativo di socializzare era punito con l’isolamento più assoluto. Inutile dire che provai molte volte la rinchiusione nella cella buia! Tutto a causa dei libri che non avevo voluto leggere! Quanto avrei potuto resistere in quel luogo? Nelle prime settimane sperai che i miei genitori o i miei fratelli venissero a prendermi, che si trattasse soltanto di un castigo temporaneo, ma con il tempo compresi la vanità della mia speranza.
Ogni mese il tempo della reclusione nella cella oscura, senza cibo e senza acqua, aumentava, finché pregai di morire. Fui accontentato! Ovviamente fui destinato all’inferno e mi fu assegnata la punizione: mi trovai solo nella biblioteca che racchiude tutti i libri del mondo, una biblioteca che si arricchisce ogni giorno di nuovi volumi. Leggere tutti i libri del mondo: questa era la mia punizione. Non so per quanto tempo abbia letto, anche perché il tempo qui non esiste, ma so che compresi quale ricchezza avessi perso nella vita precedente e cominciai a sentirmi felice di essere in quel luogo, ma proprio in quel momento fui scaraventato nel nulla assoluto e mi fu cancellata la memoria di ogni libro, di ogni pagina, di ogni riga, di ogni parola letta, anche del racconto che avete appena terminato di leggere.
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