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Le nostalgie di un pinguino
Mario Amato
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Di che cosa è fatta una casa? Esistono case di legno, di cemento, di fango, di pelle di animali, ma una casa è fatta dalle persone che vi abitano. Non solo! Il carattere di una casa è dato dai libri che vi si trovano, dai quadri appesi alle pareti, dai mobili e dai ninnoli su di essi.
Nella mia casa i soprammobili sono stati sempre una vera mania. C’è una preziosa collezione di soldatini di piombo, raccolti da qualche avo; ci sono numerose scacchiere, selezionate da ogni parte del mondo da mio fratello, ma la maggior parte dei soprammobili è rappresentata da figure di pinguini, raccolte da me. Ce ne sono di tutti i materiali: di vetro, di alabastro, di pietra, di marmo, ma c’è anche un pinguino vero, in … carne e ossa! Non ci credete? Vi sembra che un pinguino non possa vivere in un clima caldo come il nostro? Se volete perseverare in tale convinzione, sono costretto a raccontarvi la storia di questo mio amico pennuto.
Essa iniziò naturalmente nell’Antartide, dentro un uovo, dove Pengui, portato a passeggio sui piedi dal padre, stava al calduccio. Per i genitori Pengui era una vera benedizione, poiché essi, pur essendo magnifici esemplari di pinguini imperiali, non riuscivano a far nascere un rampollo.
Era una situazione alquanto imbarazzante, poiché mamma e papà Pengui erano i capi della comunità, ma già nel popolo, se così si può chiamare (perché no?), si mormorava che bisognava togliere il potere a quei due pinguini infecondi, incapaci di dare una discendenza. Queste voci erano giunte a mamma e papà Pengui. Che ingrati! Avevano pensato ambedue: a che erano valse le lotte contro le foche e le orche e gli squali? a che era valso l’aver salvato innumerevoli volte la comunità, indicando la strada per i luoghi dove più abbondanti erano i pesci?
Mamma e papà Pengui provavano, tuttavia, dolore e vergogna per la loro infecondità, nel vedere che ogni volta che si schiudeva un loro uovo, questo era vuoto.
Passavano gli anni ed essi invecchiavano, quando finalmente sentirono qualcosa muoversi nel loro uovo. Che felicità! Non solo perché la loro reggenza non sarebbe stata messa in discussione, ma soprattutto perché la loro stirpe sarebbe stata tramandata.
Papà e mamma passeggiavano con la testa alta, in senso di orgoglio, passandosi il futuro rampollo da una zampa all’altra. I più critici fra il popolo ora portavano rispetto ai loro capi ed anzi erano i primi a recare, sotto il loro becco giallo, il cibo.
Pengui nel frattempo se ne stava rintanato nel caldo dell’uovo, aspettando con ansia il momento dell’apertura, quando finalmente avrebbe visto il mondo, del quale già fantasticava, anche se in modo alquanto acerbo.
Infine il grande giorno venne.
Era una bellissima giornata d’inverno, stagione cara ai pinguini, poiché non sono costretti alla ricerca di un iceberg sicuro come in primavera, quando i ghiacci cominciano a sciogliersi. Nella colonia c’era silenzio, mamma e papà Pengui stavano al centro, nessuno bisbigliava, nessuno mangiava, erano tutti in attesa del grande evento. Si udiva soltanto il calmo mormorio delle onde del mare e poté percepire il lieve schiudersi del guscio dell’uovo imperiale. Pengui si dibatté, lacerando le pareti di quell’involucro, che, a suo parere, lo aveva tenuto prigioniero per troppo tempo; poi finalmente mise la testa fuori e vide il bianco delle nevi, l’azzurro del cielo e del mare e il sorriso di mamma e papà.
Fu depositato tra le zampe di papà, ma Pengui disse qualcosa di sorprendente: «Brr! Che freddo! Che gelo!». Un “Oh” corale di meraviglia e di delusione salì dal popolo dei pinguini. Mamma e papà guardarono neonato e dissero: «Freddo? Tu sei un pinguino, devi esserne orgoglioso» «Stavo meglio prima» pensò Pengui, ma decise di tacere, almeno per il momento, almeno fino a quando non avesse compreso come funzionasse la vita in quel luogo gelato.
Tacque per tutto il tempo dello svezzamento. In fondo il freddo era sopportabile sotto le penne di mamma e papà, ma nel cuore di Pengui c’era altro: egli guardava spesso il cielo e vedeva gli albatros che spiegavano le loro grandi ali e disegnavano meravigliosi arabeschi in quell’azzurro infinito; guardava l’azzurro del mare e sentiva, quando si avvicinava qualche grande cetaceo, l’odore di erbe lontane, di foreste, che non riusciva a raffigurare nella sua mente. Qui invece c’erano soltanto grandi enormi distese di bianchi ghiacci. Vedeva anche che gli altri pinguini, di poco più grandi, si tuffavano felici nell’acqua e giocavano, ma egli aveva timore di saltare laggiù. Com’era caldo nell’uovo!
Venne anche per Pengui il tempo di tuffarsi. Mamma e papà lo portarono là dove c’era una sorta di scivolo e gli ordinarono di gettarsi nell’acqua, come facevano tutti gli altri pinguini. Non si poteva certo disubbidire, ma appena posati i piedi sul ghiaccio, Pengui fece un salto e tornò sotto la pancia di mamma. Che vergogna! Il futuro capo sentiva freddo. «Che razza di pinguino sei tu?» tuonò papà «Ci guardano tutti. Non farci imbarazzare di fronte al nostro popolo» «Ho freddo» protestò il piccolo «I pinguini non sentono freddo» «Ma io sì» insistette «Salta» gridò ancora papà e diede al suo rampollo una vigorosa spinta. Che scivolata! Con la schiena sul ghiaccio, parve a Pengui che il tempo non passasse mai, ma l’acqua era ancora più fredda della neve. Andò giù, giù, giù e non emergeva, tanto che mamma dovette a sua volta tuffarsi e riprenderlo con il becco. Che figuraccia!
Mamma e papà Pengui quella sera deposero lo scettro e decisero di andare volontariamente in esilio con il loro figlio degenere. Chissà se qualche altra comunità li avrebbe accettati? La voce del pinguino freddoloso si espanse con grande velocità in tutto l’Antartide, tra i simili, tra i pesci, che in fondo ne erano felici, tra le foche, tra i cetacei, che ne provavano compassione. Mamma e papà avrebbero voluto disconoscere Pengui, ma non potevano abbandonarlo.
Iniziarono un viaggio solitario e silenzioso: neve, ghiaccio e nient’altro. Anche crescendo, Pengui non riusciva ad abituarsi a quel gelo. C’erano momenti felici, ma duravano il tempo di un tramonto o di un’aurora, quando i colori dell’orizzonte sembravano poter esser toccati, quando un albatros planava vicino e raccontava di navi, di boschi, di terre calde. Mamma e papà, vedendo Pengui incantato da quelle narrazioni, dicevano che erano menzogne, ma Pengui percepiva i profumi dei fiori, delle erbe, degli alberi, sentiva le sirene delle navi e si struggeva dalla nostalgia del caldo Nord, sentendo l’irresistibile impulso di fuggire e raggiungere quei luoghi. Come lasciare mamma e papà?
Nonostante Pengui non riuscisse ad assuefarsi al suo luogo natio, era diventato un giovane molto forte e bello, mentre mamma e papà ormai arrancavano sotto il peso degli anni e della solitudine. Tutto avvenne durante un’aurora: Pengui, mamma e papà stavano appoggiati a una parete, di ghiaccio naturalmente, investiti dalla miriade di colori che lampeggiavano all’orizzonte; Pengui guardò i volti dei genitori, che avevano gli occhi chiusi; «Mamma, Papà» chiamò. Silenzio! Un albatro, forse uno di quelli che gli raccontava storie, si posò accanto a lui «Non si sveglieranno più. Sei solo ora». Pengui non comprese subito che cosa fosse accaduto, ma capì di non aver più nessuno «Posso venire con te? » «Con me? Che cosa dici? Tu non puoi volare» «Che cosa posso fare? » «Cerca il tuo popolo» «Mi puoi accompagnare? ». L’albatro era commosso e avrebbe volentieri aiutato Pengui, ma anch’egli aveva dei nidiacei da sfamare. Non ebbe il coraggio di parlare, spiegò le sue ali e volò via, ma una lacrima cadde dal cielo sulla testa di Pengui. “È tutta colpa mia. Se fossi stato un bravo pinguino, se non avessi sentito freddo, saremmo rimasti con i nostri amici”. Mentre pensava questo, udì in lontananza la sirena di una nave. “Qui o in mare, il mio destino è segnato”; si tuffò e cominciò a nuotare verso l’ululato della sirena; nuotò un giorno intero, ma non trovò la nave. Si stava facendo buio, quando sentì una grande onda muoversi alle sue spalle: un’enorme orca marina si dirigeva con grande velocità verso di lui. S’immerse e nuotò sott’acqua per molto tempo; quando riemerse l’orca era svanita. “Meno male”; non aveva ancora terminato di dire queste due brevi parole che di fronte, non molto lontano, apparvero le sagome di due squali affamati. Nuotò con tutte le forze che aveva, ma quei due enormi pesci si avvicinavano sempre più, quando sentì che le sue ali, quelle che erano state dei monconi, si erano ingrandite: “Ora sono più pesante. Mi raggiungeranno”, ma in quel momento ricordò le figure degli albatros che volavano nell’azzurro infinito; aprì le ali e cominciò ad elevarsi, prima a fatica, poi sempre con maggiore sicurezza, infine con una felicità fino ad allora ignota. Gli pareva di aver sempre saputo volare e in qualche luogo nascosto della sua mente ricordava di altri pinguini, di avi sepolti nell’oblio dei secoli, che avevano volato da antiche terre tropicali fino all’Antartide.
Volò sul mare, su terre boscose, giunse nel caldo nord, che aveva sognato già nel tepore dell’uovo materno.
So che Pengui, a volte, si strugge dalla nostalgia del silenzio del grande freddo sud …
marzo 2010
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