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Saperi minimi e sapere massimo
Mario Amato
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Nella passata legislatura il Ministro della Pubblica Istruzione, Signora Letizia Moratti, aveva indicato il compito primario della scuola nel raggiungimento da parte degli studenti dei saperi minimi indicati con tre “i”: informatica, industria, inglese. Dall’altra parte però veniva proposta anche una riforma che dividesse la scuola italiana in quattro indirizzi: umanistico, scientifico, linguistico, tecnico.
È senza dubbio vero che il sistema italiano scolastico delle medie superiori di secondo grado presenta forse molteplici indirizzi e la scelta è difficile per chi esce dalla scuola media di primo grado.
Andiamo tuttavia per ordine.
La proposta del raggiungimento delle tre “i” nasce da un’opinione diffusa secondo la quale la scuola non sarebbe, come si dice, al passo con i tempi e dovrebbe adeguarsi alla realtà. Quante volte abbiamo sentito proferire queste idee? Risulta tuttavia difficile comprenderle, perché sembrerebbe che il mondo della scuola sia un’isola avulsa dalla realtà o addirittura non sia reale, che sia insomma una specie di “paese dei balocchi” di collodiana memoria.
Chi vive nella scuola sa che è un mondo reale, spesso difficile, spesso meraviglioso, pieno di problemi, di dubbi, di speranze, come ogni mondo reale.
Per adeguarsi alla realtà si dovrebbero imparare le tre “i”. Esaminiamole con attenzione: “informatica” ovvero uso del computer. L’uso del computer è una tecnica manuale visiva e non certo una disciplina educativa e formativa, tant’è che i bambini del nostro mondo moderno imparano presto questa tecnica.
Riguardo alla seconda “i”, è difficile comprendere perché mai la scuola dovrebbe produrre in abbondanza lavoratori per le fabbriche. Qui tuttavia si apre il dibattito sul compito della scuola, quello dell’educazione. La missione della scuola è innanzitutto l’educazione, che significa educazione all’amore per la cultura, educazione ad essere cittadini critici e democratici, capaci di distinguere il pubblico dal privato, capaci di apprendere cose nuove.
Quest’idea che il compito della scuola sia quello di produrre lavoratori disegna un mondo fatto di settori, che richiama alla mente la città di “Metropolis” di Fritz Lang. La riforma della scuola media di primo grado abolì la vergogna della scuola per l’ “avviamento professionale”, frequentato dai figli della classi meno abbienti. Non si sente il bisogno di ricrearla!
Infine l’inglese: lingua bellissima e la cui conoscenza è ormai necessaria. La lingua inglese, lingua a morfologia analitica (che ha abolito desinenze e congiunzioni comprese nelle parole), tende sempre più a semplificare il linguaggio e per forza di cose ad impoverirsi. Inoltre la lingua inglese che si vorrebbe far insegnare non è quella amata dai professori anglisti, ovvero quella di Shakespeare, di Robert Burns, di Charles Dickens e di altri meravigliosi scrittori, bensì quella ridotta a poco più di cento parole da usare in “internet”.
La lingua non è soltanto strumento di comunicazione, anche di conoscenza. È una contraddizione che negli anni in cui nuove nazioni entrano nell’Unione Europea si vuole ridurre la possibilità di conoscenze linguistiche ad una sola lingua.
Il problema sta in quella definizione di “saperi minimi”. L’Ulisse dantesco convince i suoi uomini ad oltrepassare le colonne d’Ercole con un’”orazione picciola”: Considerate vostra semenza/ Nati non foste a viver come bruti/ ma a seguir virtude e canoscenza”. Come si evince dalla parola “virtude” Ulisse non è né immorale né amorale, ha una morale diversa dal cristiano Dante. Egli ha nel suo animo qualcosa che lo spinge a voler conoscere tutto; sapere massimo e non saperi minimi. Per sapere massimo non si intende certo che bisogna conoscere tutto il campo dello scibile umano, il che è impossibile, ma che si deve tendere sempre a profondere lo sforzo maggiore possibile sulla via della conoscenza.
La scuola deve avere questo compito, deve porsi questa missione: stimolare alla acquisizione di sapere.
Naturalmente devono esistere limiti etici alla conoscenza, se consideriamo la ricerca scientifica, ma una buona scuola saprà educare lo studente futuro cittadino al dialogo ed al dibattito civile. E perché questo avvenga la scuola deve essere pluralista e pubblica.
In una classe può essere appeso il crocifisso ed allo stesso tempo essere frequentata da ragazze che indossano il velo e da ragazzi che portano lo zucchetto e da testimoni di Geova. Chi sa vivere in una società pluralista, diverrà un ottimo cittadino.
Occorre che la scuola sia pubblica.
Molto si è discusso sui finanziamenti alle scuole private da parte dello Stato. A favore di tali finanziamenti si è pronunciata la chiesa cattolica.
È una realtà che nelle scuole cattoliche lo studio sia attuato con serietà, ma il problema sta nel fatto che esse non sono per definizione pluraliste.
Si torna di nuovo al problema di una società divisa in settori. Se ogni istituzione religiosa avesse una sua scuola (quello che succede in parte negli Stati Uniti dove però non è lo Stato a finanziare tali scuole), si negherebbe il pluralismo democratico.
La scuola italiana è passata attraverso molte riforme, ma resta pur vero che una buona scuola non la fa una riforma, né è indicativa della sua validità la denominazione, bensì essa è fatta da buoni insegnanti capaci di spronare gli allievi.
Di scuola si parlerà sempre e sempre si proporranno nuove riforme ed è giusto che sia così, perché ciò è la dimostrazione che la scuola non è avulsa dalla realtà.
La scuola è la base della società futura e questo ben lo sapeva Collodi.
Vorrei spendere alla fine di questo articolo alcune parole per il libro di Collodi “Le avventure di Pinocchio”, testo spesso frainteso.
Il governo italiano post-unitario si trovò di fronte due difficili questioni:
1) la diffusione della lingua italiana in un paese che aveva una altissima percentuale di analfabeti;
2) la diffidenza soprattutto delle popolazioni meridionali verso la scuola che spesso veniva vista come imposizione di uno Stato considerato ancora non italiano ma piemontese.
Il libro di Collodi è stato forse il più grande sponsor della scuola pubblica ed inoltre è un testo completamente laico. Leggendolo attentamente comprendiamo che Collodi non afferma che il compito della scuola sia facile, né che non sia faticoso studiare, ma che per il miglioramento della società la scuola è indispensabile.
Leggere è necessario. Un bellissimo racconto di Stephan Zweig intitolato “Mendel il bibliofilo” narra di un venditore ambulante di libri, che ricorda a memoria i titoli di tutti libri; egli ama l’odore delle pagine, conosce perfino il peso dei volumi. “Mendel aveva studiato da rabbino, ma presto aveva lasciato il severo Javhé per darsi corpo e soprattutto anima al politeismo dei libri”.
La scuola deve essere pluralista, democratica e, se necessario, politeista, nel senso che non deve avere come obiettivo un essere umano “ad una sola dimensione”.
marzo 2007
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