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Memorie di un insegnante, ventiquattro.
Aldo Ettore Quagliozzi
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La “fatica dell’educare“ emerge con forza dalla limpida prosa di Francesca Graziani tratta “Dal diario di una prof“.
E’ lo scoramento profondo allorché si avverte un rovinare improvviso di una costruzione ideale, ancorché organizzativa, quale è per l’appunto la scuola pubblica italiana.
E’ lo scoprire l’impari lotta tra il mondo chiuso, a volte autoreferenziale della scuola, e il travolgente e periglioso andare del mondo ad essa esterno, con le inevitabili ricadute sulle giovani generazioni, con il loro smarrirsi al pari degli adulti genitori o educatori di fronte ai rivolgimenti storici, politici, economici e di costume che al giorno d’oggi, fagocitati in un processo di globalizzazione irrefrenabile, non concedono tempo alcuno per una loro meditata acquisizione e metabolizzazione.
“( … ) Nella mia classe di quest'anno -è il 1988- la mia preferita è Edith: ha un'intelligenza vivace, è ambiziosa ed è un punto di riferimento per le compagne e anche per qualche maschio "difficile". Si è offerta di battermi a macchina una riduzione che ho fatto di uno scritto di Maria Romanello sulla stregoneria in Europa che devo fotocopiare e distribuire alla classe. Integrazioni di questo tipo sono infatti sempre più necessarie, dal momento che nei manuali non c'è quasi traccia della parte che le donne hanno avuto nella storia, a parte qualche pulzella eccezionale. Gli autori non hanno ancora registrato i risultati delle ricerche storiche che soprattutto le donne hanno fatto negli ultimi vent'anni per togliere il protagonismo femminile dal buio in cui l'aveva respinto la storiografia maschile: ora il passato si è popolato di veneri steatopigie, dee femminili dei più antichi culti umani e mute testimoni di un'epoca in cui il patriarcato era ancora di là da venire; di donne come Diotima e Ipazia -maestre di maestri-, di sante e abbadesse, di trovatore e regine, di eretiche e di poetesse, di scienziate e scrittrice.
Spesso nelle mie classi leggo ad alta voce racconti del brivido che, insieme con quelli di fantascienza e dell'orrore, riescono a catturare anche i lettori più svogliati: il numero di Via Dogana (la rivista della Libreria delle donne di Milano) sulle autrici di romanzi gialli -letteratura dove le donne eccellono fin dalle origini- mi fa venire l'idea di un'antologia scolastica e propongo a Gabriella Lazzerini, altra fan di Miss Marple & Co., di lavorare insieme a questo progetto.
Luglio 1989: Lia Volpatti, direttrice responsabile dei Gialli Mondadori, ci ha dato il permesso di accedere al loro archivio. Ogni giorno prendiamo la navetta per Segrate, dove passiamo la mattina a leggere (lavoro di puro piacere, che ci ritempra dalle fatiche dell'appena concluso anno scolastico) i raccontini di autrici per lo più a noi sconosciute, pubblicati in appendice ai gialli settimanali. Nell'ufficetto che gentilmente hanno messo a nostra disposizione leggiamo avidamente decine e decine di racconti e ogni tanto esultiamo come due cercatrici d'oro alla vista di una luccicante pepita.
Ne scegliamo una quindicina. Più che gialli classici sono racconti con finale a sorpresa, ma la sorpresa più grande è che, scritti da autrici che non hanno nessun rapporto l'una con l'altra, si rispondono a vicenda: in molti racconti tacere o parlare è per una donna questione di vita o di morte; o comunque a una parola anche solo a "una paroletta" - come in quello intitolato "Il dizionario di Betsy" - è spesso legata la sorte di qualcuno.
Convinte che la lettura di questi racconti possa rendere più libero anche lo sguardo delle nostre allieve (nonché allievi), lavoriamo alla parte didattica e consegniamo il tutto a un noto editore: la risposta arriva -dopo un po'- sotto forma di lettera:
"In questa raccolta ( … ) è pesante la scelta tutta al "femminile" nel senso che gli autori sono solo donne, e quasi tutti i racconti hanno una donna come protagonista. ( … ) Va anche rilevato che, in quasi tutti i racconti, viene meno lo schema tradizionale omicidio/scoperta dell'assassino/punizione del colpevole, e l'assassino (o meglio l'assassina) gode invece di un'allegra impunità. Intrecci così poco conformisti ( … ) potrebbero apparire poco educativi per un ragazzo di scuola media".
1987: il Poligrafico dello Stato ha pubblicato il lavoro di Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua. Vari intellettuali nazionali (Umberto Eco, Beniamino Placido, Pietro Citati) e qualche giornalista (Giulia Borgese) ne commentano l'uscita con frizzi e lazzi sui maggiori quotidiani e settimanali.
Pur condividendo solo in parte le posizioni di Alma Sabatini (il sessismo negli usi linguistici è, per noi, da mettere sul conto della cultura patriarcale più che su quello della lingua), Gabriella e io interveniamo sul manifesto con un articolo intitolato "Il marito del Signor Preside" (23 aprile 1987): il titolo allude ironicamente all'effetto comico di certi usi linguistici che forzano le parole della nostra lingua dentro la logica del neutro -genere che infatti non appartiene alla grammatica dell'italiano.
Nelle nostre classi usiamo sempre il doppio plurale (ragazzi e ragazze) o concordiamo con il genere della maggioranza.
Diciamo "l'avvocata", la ministra", le mie alunne hanno reagito dapprima con stupore, ma ora sono contente e se per caso ti dimentichi il femminile ti correggono subito; i maschi, inizialmente altrettanto stupiti e in qualche caso infastiditi, vi hanno fatto l'abitudine o si sono spontaneamente adeguati alla novità: alcuni addirittura -e questa volta a stupirmi sono stata io- sembravano quasi orgogliosi di appartenere a una nuova specie di maschio evoluto.
Il dizionario Gabrielli è sotto accusa. Le studentesse di Gabriella hanno scritto un lettera indignata al Corriere dopo aver letto la definizione della voce "donna": "femmina dell'uomo".
Leggo alla mia classe l'articolo di risposta: Giulio Nascimbeni minimizza la cosa, esaltando il lavoro dell'insigne linguista. Subito, una mia alunna (un alunno, non ricordo più) propone di scrivere all'incauto avvocato difensore, cosa che facciamo prontamente: ma non siamo gli unici, perché nel giro di una settimana il povero Nascimbeni si ritrova sommerso di lettere di protesta e deve fare pubblica ammenda.
(Qualche anno più tardi, quando esce la nuova edizione del Gabrielli, non solo la definizione incriminata è scomparsa, ma vi sono accolte per la prima volta molte proposte di Alma Sabatini riguardo al femminile dei nomi di professione. In appendice compare anche un paragrafo intitolato "La donna negli uffici". Da quel momento questo dizionario-pioniere è sempre in bella mostra sulla mia cattedra.)
Ed eccoci negli anni novanta. Le donne hanno sicuramente preso piede e il mondo è proprio cambiato, ma non solo per questo. Siamo a un cambiamento di civiltà che investe il nostro rapporto con il passato, con la tecnica, con il linguaggio.
Io insegno e lo so perché il mio mestiere mi colloca in un punto strategico di avvistamento, dato che ho sotto gli occhi ogni giorno un pezzo del futuro che cresce, con le sue potenzialità e i suoi problemi, e devo soprattutto fare i conti con il fatto che non siamo in presenza solo di un gap generazionale, ma di una vera e propria mutazione antropologica.
Almeno la metà dei ragazzi e delle ragazze che frequentano la scuola oggi sono figli unici: cresciuti per lo più a manga giapponesi e Nintendo, hanno conversazioni telegrafiche con i genitori e vivono in un mondo velocissimo, bombardati da una massa di informazioni che smarriscono subito o frullano tutte insieme.
Sotto un'apparente disinvoltura nascondono un senso di insicurezza e di smarrimento: il loro immaginario, che non a caso trova rappresentazione nel cinema e nella letteratura dell'orrore, è popolato di mostri che loro tentano di esorcizzare con complicatissimi rituali di loro invenzione. Strappati dall'erba dei giardinetti al tempo della nuvola radioattiva di Chernobyl (uno dei ricordi della loro infanzia), cresciuti in un mondo a gambe all'aria dopo la caduta del muro di Berlino, un mondo in cui anche gli/le adulti/e faticano a orientarsi, sono incapaci di immaginarsi un futuro e quasi per nulla interessati al passato.
La storia, per esempio -una delle materie preferite. quando andavo a scuola io -è diventata per loro una materia sempre più indigesta, "annoiante" e in fondo superflua. Imparano sempre di meno, soprattutto quando hanno a che fare con il manuale che trovano troppo difficile e memorizzano per assonanza, con risultati a volte esilaranti ma alla lunga deprimenti: nel XIV secolo calano in Europa orde di turchi "ortolani"; i calvinisti sono i seguaci di Italo Calvino; le streghe sono condannate a morte dal Quirinale dell'Inquisizione; Stachanov lavora sodo per battere i primati -del Guinness- e Solidarnosc è un elettricista russo che organizza gli operai contro i primi scioperi.
In classe passo le ore a cercare di capire cosa dicono e a farmi capire: è un lavoro difficile perché la logica della lingua sembra loro estranea.
Affermano una cosa e il suo contrario oppure fanno affermazioni a tutta prima incomprensibili; non conoscono il significato di parole ed espressioni di uso comune; mancano loro i riferimenti culturali che una volta erano patrimonio comune, anche fra gente poco istruita (una mia alunna di terza non sapeva chi fossero Caino e Abele); sono capaci di ascoltare solo per frammenti, non un intero discorso; accettano la dimensione del gioco, non quella della fatica.
Capita spesso che non finiscano un esercizio che continua nella pagina seguente; stentano a trovare informazioni sul testo pur avendo fra parentesi l'indicazione del paragrafo dove è la risposta.
Per fortuna non mi manca il confronto con altre e altri insegnanti negli incontri organizzati per l’ “autoriforma gentile": io imparo a non fissarmi sul nero e a guardare con attenzione "dietro" e "ai lati", portando pazienza con me stessa oltre che con i ragazzi e le ragazze, per riuscire a cogliere in questo modo le risorse impreviste; imparo ad accettare, quando c'è, la sconfitta, anzi cerco di usarla come leva per inventarmi soluzioni nuove.
Scopro che il detto "sbagliando si impara" è un antidoto efficace contro la disperazione che mi prende quando constato lo smarrimento linguistico e lo stato confuso delle conoscenze nei miei alunni: perché ogni errore, oltre che farci ridere di gusto (che non è poco), ha una sua logica che va ricostruita e che offre spunti interessanti di riflessione (se Chiara, per esempio, classifica come "animato" il sostantivo "metropolitana" -perché si muove, no?- forse mi sta segnalando che la tecnologia ha cambiato la percezione del mondo, sovvertendo completamente l'ordine categoriale su cui si modellava l'ordine grammaticale e, così, le tradizionali classificazioni delle strutture linguistiche hanno perso per lei di senso).
Credo che oggi sia di nuovo in primo piano la questione della lingua: viviamo in un'epoca di grandi trasformazioni, e non solo la nostra ma anche le altre lingue, che nel mondo del mercato globale hanno confini sempre meno netti, stanno ribollendo come in un gigantesco alambicco.
Che cosa ne uscirà, non ci è dato di sapere: l'importante è che rimanga vivo l'amore per la lingua materna, perché solo un forte ancoraggio a essa ci permette di avventurarci in un altro universo di suoni. E se i/le nostri/e studenti/esse non la padroneggiano ancora, non per questo sono incapaci di attingere alle sue risorse quando chi insegna riesce a inventarsi strade nuove -o a riscoprirne di vecchie- per catturare la loro attenzione.
Fare l'insegnante in questa fase di grandi trasformazioni può diventare pesante, alla lunga insostenibile, se non si è capaci di affrontare il cambiamento (per questo ci sono prof che parlano solo di pensione).
Nei miei momenti di crisi spesso ho pensato a mio padre, uno stimato insegnante di matematica che faceva volentieri questo mestiere: non l'ho mai sentito lamentarsi per la fatica (se è per questo, non l'ho neanche mai visto prepararsi una lezione e ciò mi fa sospettare che per quarant'anni abbia insegnato allo stesso modo, cosa oggi assolutamente impensabile).
Fino a quando il Sessantotto gli mise contro non solo la figlia ma anche gli studenti: la grave malattia che lo paralizzò lentamente negli anni seguenti, costringendolo a lasciare la scuola, è per me un segno visibile della sua incapacità di affrontare in modo positivo il cambiamento.
Diversamente da lui io ho avuto il vantaggio di essere nata femmina e l'intelligenza di scegliere le persone - più donne che uomini - da cui imparare: nel sottoscala della Libreria di Milano un sottoscala può essere una scuola - ho imparato una politica del desiderio e delle relazioni che mi è stata, ed è ancora, preziosa anche per insegnare.
Credo di avere scelto questo mestiere perché mi permette di rimanere fedele a me stessa, di fare un po' l'attrice (quando leggo i racconti interpretando le parti di tutti i personaggi: e non vola neanche una mosca), un po' la missionaria (commissione giornalino; commissione concorso letterario, commissione stranieri ecc.), la santa (per via dello stipendio), l'esploratrice (dei sentieri ancora non battuti dell'imparare) e anche la ballerina rock (solo alle feste di carnevale e nella settimana di scuola-natura). ( …)“
aprile 2005
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