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Un mondo in un libro
Mario Amato
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Galileo Galilei affermava che il mondo è un libro. La letteratura del Novecento ha continuato a dichiarare questa verità con le epifanie di James Joyce, le intermittenze di Marcel Proust, e del resto ancora prima di Baudelaire e Verlaine aveva visto il mondo come una foresta di simboli.
È vero anche il contrario: ogni libro è un mondo che richiama altri libri. Leggere è discorrere con gli uomini del passato, con coloro che hanno costruito la cultura, è poter convivere insieme ai geni del passato. La storia non è fatta soltanto di fatti, ma è costituita di idee, di modi diversi di guardare il mondo. Non vi è un solo passato, ma tanti passati ed oggi, nella nostra Europa, siamo chiamati a riesaminare la nostra storia.
Molti sono stati i fattori che hanno unificato l’Europa culturalmente: la cultura greca (che ci ha tramandato il teatro, la geometria, le norme deontologiche del lavoro (si pensi al giuramento di Ippocrate), il diritto romano, il cristianesimo, l’illuminismo; e molti sono stati i fattori che hanno diviso i popoli europei, perché la storia dell’Europa è costituita di guerre.
Il preambolo della Costituzione Europea richiama le radici culturali e spirituali comuni dei popoli europei e la storia che ha condotto l’Europa in condizione di offrire al mondo un contributo di democrazia, pluralismo e solidarietà, anche perché essa è stata lacerata da atrocità.
Lo studioso cattolico Romano Guardini indica il comune spirito europeo nel Cristianesimo[1]. È naturalmente un punto di vista e come tale può essere discusso, tuttavia mi sembra corretto il punto di vista di Guardini allorché egli sostiene che il compito di offrire al mondo un contributo di solidarietà e di spiritualità non può essere affidato agli Stati Uniti, perché la società americana è ancora troppo legata all’idea del continuo progresso tecnologico come segno di civiltà. Del resto gli Stati Uniti fin dalla prima guerra mondiale si erano proposti come garanti della democrazia nel mondo, ma questo ruolo fu messo già in discussione con il conflitto in Vietnam. L’Asia è antichissima, continua Guardini, ma oggi sembra voler prendere le distanze dal suo passato e l’Africa è dilaniata da guerre e problemi di sopravvivenza.
È necessario dunque ripensare la nostra storia, è indispensabile conoscerla. Non esistono soltanto volumi di storia, ma anche libri che parlano di storia come una narrazione. Uno di questi libri è Il mondo di ieri[2] di Stefan Zweig. Zweig era austriaco, ma il mondo di ieri descritto nel suo libro non è soltanto l’Austria-Ungheria, bensì è l’Europa, perché viaggiò per tutta l’Europa, visse in Francia, in Italia, in Inghilterra, in Belgio, visitò la Cina e l’India e morì in Brasile.
Dal titolo si potrebbe credere che tutto il tono del libro sia nostalgico, ma in realtà Zweig era uomo aperto ad accogliere le novità, come dimostrano le meravigliose pagine in cui descrive la severità ed il grigiore della scuola dei suoi tempi e si entusiasma invece per la libertà dei giovani dell’inizio del Novecento e per la cultura dei teatri, della musica, della pittura nuova di Klimt o di Schiele, ed ancora testimonia il suo entusiasmo per la nuova moda femminile che libera le donne da vere e proprie camicie di forza e mostra corpi rinvigoriti dallo sport.
Zweig non dimentica però le ombre che si addensavano minacciose su quel mondo, ombre che diventarono tragicamente concrete con l’attentato all’erede al trono imperiale Francesco Ferdinando nel giugno 1914 e che si fecero atroci con l’ascesa al potere di Adolf Hitler. Racconta lo scrittore viennese che il principe ereditario non suscitava la simpatia del popolo, perché la sua impazienza di salire al trono sembrava gli impedisse perfino di sorridere. Allo scoppio della guerra Zweig emigrò in Svizzera dove fece aperta professione di pacifismo.
Ancor più illuminanti sono le pagine nelle quali Zweig parla di Adolf Hitler. Vi sono profeti che gridano le loro predizioni, ma vi sono uomini che avvertono gli uomini dei pericoli imminenti senza troppo clamore. Leggiamo questo brano tratto da Il mondo di ieri.
“Noi però continuavamo a non prevedere il pericolo. I pochi che si erano data la pena di leggere il libro di Hitler, invece di occuparsi del programma, schernivano l’ampollosità della sua prosa cartacea. I grandi giornali democratici, invece di mettere in guardia i loro lettori, li tranquillizzavano giorno per giorno, assicurando che quel movimento, il quale in realtà finanziava a fatica la sua enorme attività con i sussidi dell’industria pesante e contraendo debiti temerari, sarebbe inesorabilmente crollato domani o dopodomani. Ma in realtà all’estero non si è mai capita la vera ragione per cui in tutti quegli anni la Germania ha sottovalutato la persona e la crescente autorità di Hitler: la Germania non solo è stata sempre un paese diviso per classi, ma nell’ambito di questo ideale di classe ha sempre conservato anche un’incrollabile supervalutazione idolatra della cultura. All’infuori di pochi generali, le più alte cariche dello Stato furono riservate a persone di cultura accademica; mentre in Inghilterra un Lloyd George, in Italia un Garibaldi o un Mussolini, in Francia un Briand, erano veramente sorti dal popolo e giunti ai più alti uffici statali, era inconcepibile per il tedesco che un uomo il quale non aveva neppure finito le scuole secondarie e tanto meno studi superiori, uno che aveva pernottato negli alberghi popolari e trascinato per anni un’esistenza oscura, potesse mai accostarsi ad una carica tenuta in passato da un barone von Stein, da un Bismarck, da un principe Bülow. Fu soprattutto questa superbia culturale che indusse gli intellettuali tedeschi a vedere in Hitler un sobillatore da birrerie che non sarebbe mai potuto diventare pericoloso, mentre invece egli già da tempo, in grazia dei suoi invisibili padroni si era acquisito aiuti potenti negli ambienti più disparati.[3]”.
Questo brano dovrebbe essere di insegnamento ché ancora oggi interpretano l’ascesa di Hitler al potere con le capacità dell’uomo. Se è vero (ma anche ciò è discutibile) che per una legge ineluttabile della storia è negato proprio ai contemporanei di riconoscere sin dai primi inizi i movimenti che determinano loro[4], a distanza di anni possiamo ben vedere che quest’uomo, il più funesto che sia apparso al mondo, non aveva grandi capacità intellettive e riconoscerle è in parte seguire le sue folli idee, ovvero dell’esistenza di uomini superiori ad altri per nascita.
Romano Guardini[5] avverte che l’idea di razza riguarda l’allevamento e non l’educazione.
Assegnare a Hitler grandi capacità è anche dimenticare colpevolmente l’uso che egli fece della violenza e vale la pena di ricordare sempre che qualunque idiota è capace di prendere una pistola e premere il grilletto.
Non dobbiamo perdere il ricordo della cultura che il nazismo perseguitò con la violenza, non dobbiamo dimenticare Joseph Roth, Gustav Mahler, Franz Kafka, Else Laser Schuler, Erich Muhsam, Thomas Mann, Albert Einstein, Stefan Zweig, Bertold Brecht, Alfred Döblin, Franz Werfel, l’arte espressionista, il teatro di Erwin Piscator, il cinema di Fritz Lang, Murnau e Pabst. Quell’arte e quegli uomini sono oggi ancora studiati e sono considerati maestri. Costoro erano uomini dotati di qualità intellettuali, morali, spirituali.
Vi è un ulteriore pericolo, già segnalato nelle pagine dedicate ai libri inevitabili: vi è un’interpretazione che attribuisce a Hitler un valore demoniaco. Questa spiegazione è ancora più rischiosa, perché si consegna a quest’uomo un valore maggiore di quanto egli ebbe e soprattutto, da una parte si rimuove la responsabilità di coloro che appoggiarono il movimento nazionalsocialista o che fecero finta di non vedere gli ebrei, gli zingari, i disabili, i testimoni di Jeovah scomparire da città e paesi, e dall’altra parte si dimentica coloro che si opposero e morirono.
Non è neanche vero in assoluto che i contemporanei non comprendono la storia del proprio tempo: vi furono in Germania alcuni uomini che già all’apparire del movimento nazista denunciarono l’assurdità di quelle teorie e l’ignoranza del suo leader; vanno ricordati, ad esempio, i giovani cattolici dell’associazione “Rosa Bianca”[6], fondata da Sophie Scholl, i quali distribuivano volantini antinazisti e su uno di questi si legge che Adolf Hitler scrive e nella peggiore lingua tedesca che mai sia stata scritta e parlata. Quei giovani pagarono con la vita il loro coraggio e la loro intelligenza.
Del resto lo stesso Stefan Zweig non visse in Austria dopo l’Anschluß alla Germania nazista ; allo stesso modo A. Einstein, Thomas Mann ed altri intellettuali abbandonarono la Germania dopo i successi del partito nazionalsocialista.
Continuiamo a leggere questa pagina di Zweig: “Persino in quando in quel giorno del 1933 (Hitler) divenne cancelliere, la grande massa ed anche gli stessi che lo avevano spinto sino a quel posto, lo consideravano soltanto un luogotenente provvisorio, ritenendo il regime nazionalsocialista soltanto episodico. (…) I monarchici di Doorn sperarono che egli fosse il fedele battistrada dell’imperatore, ma non meno giubilanti furono i monarchici bavaresi e wittelsbachiani, perché lo consideravano il loro uomo. I tedesco-nazionali speravano di servirsi di lui per togliere le castagne dal fuoco: il loro capo Hugenburg si era assicurato con un vero e proprio contratto il posto più importante nel gabinetto di Hitler e credeva di avere già un piede nella staffa; naturalmente, ad onta degli accordi giurati, fu cacciato via dopo poche settimane. L’industria pesante si riteneva liberata per opera di Hitler della paura del bolscevismo, vedeva al potere l’uomo da essa segretamente sussidiato da anni, ma in pari tempo la piccola borghesia depauperata, alla quale egli in cento adunate aveva promesso di “infrangere la schiavitù degli interessi”, lo acclamava giubilante. I piccoli commercianti rammentavano l’impegno di chiudere i grandi magazzini, la loro più pericolosa concorrenza (un impegno che, si capisce, non fu mai mantenuto); nell’ambiente militare Hitler era particolarmente ben visto per la sua mentalità militarista e per il suo vilipendio di ogni pacifismo. Persino i socialisti non assistettero alla sua ascesa con l’ostilità che si sarebbe potuto aspettarsi, giacché speravano che egli avrebbe liquidato i loro peggiori nemici, i comunisti prementi alle spalle. Persino gli ebrei tedeschi non erano eccessivamente inquieti, illudendosi che un ministro giacobino non è più un giacobino intero e che un cancelliere del Reich avrebbe senz’altro rinunciato alle volgarità dell’agitatore antisemita.[7]”
Questa pagina di Zweig insegna che la storia non è mai il risultato di un solo fattore. Thomas Mann definì il regimi di Hitler e Mussolini “governi della feccia”.
La forse eccessiva lunghezza di questa digressione è utile per notare come i grandi libri siano stimoli alla riflessione. Naturalmente “Il mondo di ieri” è libro che discute –e con cui discutere- non solo di storia, ma anche di letteratura in modo vivo, poiché Zweig fu amico di molti grandi scrittori del suo tempo, è libro che ci trasporta in una meravigliosa Parigi, è libro che ci induce alla ricerca della nostra spiritualità.
Uno dei capitoli di questo volume s’intitola “Alla ricerca di me stesso”. Non è un’autobiografia, il genere più difficile nella scrittura perché esiste sempre il pericolo della vanità. Quando Zweig parla di sé stesso lo fa come se guardasse la vita di un altro e la meta della ricerca è la Bildung, l’educazione spirituale.
Questo libro sarebbe un ottimo testo nelle scuole insieme ai manuali di storia. Il periodo in cui Stefan Zweig visse fu spesso offuscato da ombre terribili come quelle delle due guerre mondiali, ma “Il mondo di ieri” è una luce che i giovani possono ancora oggi accendere.
Note
[1] Guardini, Romano, Europa, compito e destino, Brescia, Morcellania, 2004
[2] Zweig, Stefan, Il mondo di ieri, in “Opere scelte”, Verona, 1961
[3] Ivi, pag. 889
[4] Ivi, pag. 887
[5] Op. cit.
[6] Sulla “Rosa Bianca” vedi Guardini, Romano, La Rosa Bianca, Brescia, Morcellania, 2004
[7] Op. cit, pag 890
marzo 2005
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