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Memorie di un insegnante, venti.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Ci vuole tutta la straordinaria e mirabile arte di Leonardo Sciascia nel suo celebre “Le parrocchie di Regalpetra“ per rendere viva l’immagine intramontabile ed immodificabile di chi nella pubblica scuola italiana presta la sua opera.
I temi e le situazioni rappresentate in queste pagine sono di una impressionante attualità da far dimenticare che esse sono state scritte in tempi se non remoti, lontani alquanto.
Ma lo spirito, gli stili di vita e gli atteggiamenti così ben descritti da Sciascia li si ritrova ancor oggi in qualsiasi scuola della penisola; scarsa coscienza politico-sindacale, un atteggiamento proprio di chi mira a ‘galleggiare‘ per sopravvivere, senza uno scatto di dignità se non professionale, che non può essersi formata e radicata nel tempo, almeno di categoria, che più frantumata non la si potrebbe proprio pensare.
Ed al fondo un qualunquismo strisciante, ancora oggi che il tempo non ha provveduto a sanare, fatto di improvvisazione, di disinteresse smaccato per le problematiche sociali e con uno spirito pervaso da rassegnazione incondizionata per come le cose della scuola fluiscono, purché esse non siano di impaccio ad un consolidato mestiere che non aspira ad innovazioni, per quanto imposte, se non sulle carte, da curare con una precisione burocratica maniacale.
E’ il tutto che viene richiesto, in cambio di un miserevole riconoscimento economico e di una considerazione sociale molto scarsa.
“( … ) La festa che qui si celebra in onore di Maria Santissima del Prato cade l'ultima settimana del mese di maggio, comincia il mercoledì con una improvvisa grandinata di tamburi, razzi che fischiano nel cielo e la banda municipale che attacca una marcia festosa, a mio ricordo sempre la stessa. Poiché la festa si apre nel pomeriggio, la scuola resta vuota per il turno pomeridiano. Noi maestri firmiamo il registro di presenza e restiamo a chiacchierare in gruppi nelle aule vuote. Dall'indomani, per tutto il resto della settimana, è come ci fosse una vacanza per i soli alunni, noi a scuola per tutto l'orario. Si presenta con i libri sottobraccio, pulitino nel vestito, i capelli con la riga, qualche sparuto ragazzino di buona famiglia: i bidelli lo scoraggiano subito, il ragazzino se ne ritorna a casa.
Stiamo a chiacchierare per tre ore al giorno, noi maestri; e fuori c'è la festa, i ragazzi che dovrebbero essere a scuola seguono a grappoli le bande che girano per il paese, stanno intorno alle bancarelle dalle tende bianche dove si vende la cubaita, un torrone che ci vuole il martello a romperlo, disposto a gradini sulle bancarelle, e le mosche che vi si posano così compatte da formare un nero muschio. Io che sono nato qui, provo una punta di malinconia a dovermene stare a scuola; mi piace non perder niente della festa, sedere al circolo e guardare le immagini della festa come dentro un caleidoscopio, il gioco dei colori che continuamente si compone e dissolve - ora domina il rosso, ora il bianco, poi il verde, l'azzurro; e si ritorna al rosso - proprio come girassi un caleidoscopio. E le voci. E i tamburi. E le mule cariche di grano, le donne a piedi scalzi che portano sulla testa il sacco pieno di grano, i ragazzi che portano grandi candele istoriate. Tutte cose che ho visto ogni anno, da quando son nato; e ogni anno mi piace tornare a guardarle, come fossi ancora ragazzo.
Invece me ne sto a scuola e le voci della festa sento lontane, si alzano nel cielo come un pavese. Le aule vuote rendono ancora più malinconico questo piccolo esilio; la stessa malinconia che c'è in un teatro vuoto.
Le nostre voci svegliano nelle aule e nei corridoi echi misteriosi. Le discussioni cadono sempre su stipendi indennità aumenti; e, si capisce, sul governo. I maestri ce l'hanno su col governo, a sentire i miei colleghi non uno di loro ha mai dato o darà il suo voto al partito che governa. Invece, di quel partito, molti hanno la tessera nel portafoglio. Così avviene col sindacato, ogni anno tutti giurano che non rinnovano 1'iscrizione; e mantengono la promessa fin quando l'ispettore non li chiama ad uno ad uno. L 'ispettore è segretario provinciale del sindacato; e il sindacato è quello più vicino al governo. Siamo dei miserabili, dicono i colleghi. Ci si sfoga dunque a parlare. Fuori c'è la festa e noi stiamo a calcolare e a discutere sulle complicatissime degli stipendi. Il governo ci tratta come pezze da piedi, diciamo. Ma se domani dal sindacato venisse l'ordine di scioperare, tra noi prevarrebbe l'opinione dei maestri più anziani contro lo sciopero; e anche i più accaniti si arrenderebbero. Pensate. Pensate un po', dice in proposito un collega, a mille e più ragazzi, che ritornano a casa dicendo di aver trovato la scuola chiusa per lo sciopero dei maestri. E perché scioperano i maestri? perché chiedono qualcosa in più delle mille e duecento lire al giorno che per ora guadagnano. Mille e duecento lire: Cristo, qui a un salinaro ci vogliono tre giornate per guadagnarle, tre lunghe giornate a fiaccarsi le ossa, a ingrommarsi i polmoni della polvere del sale e del fumo delle mine. E a sentire che noi, obbligandoli a mandare i loro figli a scuola, ce ne stiamo a guadagnar tanto, tre ore e via, a stravaccarci nelle poltrone del circolo, e non ci basta quello che guadagniamo, certo ci odieranno più di quanto odiano il padrone che li spreme. Una volta, prima del fascismo, i braccianti vennero per dare l'assalto alla scuola, volevano bastonarci, e sì che allora molti di noi facevano la fame, chi non aveva qualcosa di suo viveva a pane ed acqua con lo stipendio. E poi, quando venne il fascismo noi tutti bardati e lustri che le strade parevano nostre tanto la facevamo da padroni, il fascismo eravamo noi maestri di scuola, poveri uomini splendenti di patacche; e il sabato ce ne andavamo in gloria con la divisa di gabardina e il berretto col giummo, e i contadini ed i salinari che ci guardavano con tanto d'occhi.
Il discorso è persuasivo. È verissimo che i poveri ci odiano. Ma ci odiano anche i piccoli proprietari, ad ogni aumento dei tributi che vien loro notificato essi trovano in noi maestri 1'oggetto immediato del loro odio contro lo Stato, così cieco lo Stato da rodere le loro poche salme di terra, da costringerli a vendere e a far debiti, e noi pagati per non fare niente, centottanta giorni di scuola in un anno, tre ore al giorno di lavoro. Parlano di noi come se le loro tasse direttamente passassero nelle nostre tasche. Con cinque salme di terra - dice uno al circolo - trentamila lire al mese non mi restano. Non dice che le trentamila lire lui le aspetta seduto al circolo da un capodanno all'altro, a incrunare punti al gioco dello scopone. Anche gli avvocati e i medici dicono - beati voi che lo stipendio l'avete sicuro e ve ne state a far niente. E si dice - pane di governo - per dire guadagno sicuro, che ogni mese giunge come il giorno dopo la notte; pane di governo che noi maestri mangiamo come quei cani impiombati di noia, che non cacciano e non abbaiano, e i contadini dicono che mangiano a tradimento la cruscata. Tutti ci guardano male, insomma. Se scioperassimo quello delle cinque salme e quello dello scopone forse accopperebbe qualcuno di noi. ( … )“
marzo 2005
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