|
Memorie di un insegnante, diciannove.
Aldo Ettore Quagliozzi
|
La bella, serena e consapevole prosa di Albino Bernardini nel suo libro “Il maestro di Pietralata“ ci conduce alle esperienze della “scuola difficile“, della scuola fatta negli ambienti più avversi e che non offrono le condizioni per una attività che dovrebbe avvalersi di ben altre condizioni di vita e di lavoro.
Anche nella mia personale esperienza simili situazioni hanno messo a dura prova la mia intelligenza e l’entusiasmo sempre riposto in una attività considerata come strumento di rivalsa e riscatto sociale e di trasformazioni socioambientali.
Il tempo e la dura lezione quotidiana hanno provveduto poi a fare come svanire tante aspettative riposte nell’azione propria della scuola, in quanto strumento di cambiamento e di riscatto per i più deboli e bisognosi; è rimasto, del tutto, il ricordo dei tanti alunni che nelle ore scolastiche hanno saputo o dovuto assoggettarsi, accettandole con fatica, alle regole pur necessarie imposte loro dalla istituzione, regole vissute esclusivamente come imposizioni e di cui era importante disfarsene appena rimesso piede nell’ambiente della ‘strada‘, spesso prendendo a bersaglio con atti vandalici e di microcriminalità proprio quelle strutture stesse all’interno delle quali venivano essi accolti.
Garantisco per me e per i miei colleghi di lavoro atteggiamenti che nulla hanno da spartire con la figura così ben tristemente tratteggiata nella prosa dell’autore.
“( … ) L'allegro ed entusiastico inizio del nuovo anno scolastico di quarta si era dileguato in un baleno. Ad un certo punto si era formata una pesante atmosfera che ci aveva trasformati tutti.
La loro reazione alla mia partenza, il mio atteggiamento non troppo disinvolto, che lasciava trasparire il pentimento per non aver saputo resistere alla situazione, abbandonando la lotta, ci aveva riportato, come nei primi giorni dell'anno precedente, su campi diversi.
A rendere ancor più critica quella situazione di distacco si aggiunse l'arrivo del collega che doveva sostituirmi.
La prima impressione, in certe circostanze della vita, ha valore determinante, anche se poi qualche volta si rettifica e magari si capovolge.
In quel momento, però, la presenza di un uomo dall'aria smarrita, che proveniva, non ricordo per quale motivo, da uno dei soliti stanzoni del ministero, dove la carta domina sovrana, non poteva certo venirci incontro ad aiutarci.
Era spaesato come un montanaro nel centro di una metropoli. Si vedeva dal suo fare stanco, dal suo sguardo opaco, che aveva dimenticato i bambini; si capiva che, al solo vederli, gli davano fastidio. Forse da anni ed anni non si avvicinava più ad una classe, forse non aveva mai insegnato, ed ora si trovava a disagio in mezzo alla vita di una classe che la sclerotica mente di un burocrate non può certo comprendere.
Mentre parlava con me certamente pensava alle sue scartoffie, o meglio al suo placido posticino che gli consentiva, magari, di guadagnare qualche lira in più, scrivendo sui soliti moduli sempre le stesse cose, fino alla nausea.
Ormai si doveva essere talmente abituato a questo modo di vivere da provare noia e disgusto per ogni novità.
Si era appoggiato alla cattedra con fare stanco, dando le spalle ai bambini, e parlava a bassa voce per non farsi sentire da loro.
Eppure non c'era niente da nascondere; tutto di lui era chiaro. I suoi occhi inespressivi s'incupivano appena li volgeva alla platea dei miei alunni.
Anche il più disattento osservatore avrebbe potuto constatare il suo disappunto e la sua sofferenza nel trovarsi a Pietralata, e per giunta in mezzo a bambini di quel tipo.
Il suo pensiero era altrove: lontano dall'aula. Parlava come un uomo di ottant'anni; eppure, ad occhio e croce, non aveva superato di molto la quarantina.
Per lui la vita apparteneva al suo passato; a quel che pensava di riavere. La prima cosa che mi disse, appena si presentò, fu che voleva andar via. Che non poteva starci per molte ragioni, ma soprattutto perché sentiva una innata avversione al vivere in mezzo alla gente di borgata.
"Qui la scuola è impossibile, io non ce la faccio", ripeteva spostandosi nervosamente dalla cattedra alla finestra e facendo smorfie con la bocca. "Tu come fai? come hai fatto a passarci un anno?"
Io guardavo gli alunni e pensavo alla loro sventura. Mi veniva una gran voglia di mettergli la mano sulle spalle e farlo correre, volare, se fosse stato possibile.
Sempre ho sentito una grande antipatia per questi nemici della scuola, ma questa volta ne avevo davanti uno che m'insultava col suo atteggiamento, con le sue parole, le sue smorfie. Mi dominai per paura che i ragazzi scatenassero un putiferio: sarebbe bastata una sola parola ed essi, che seguivano muti e attenti i nostri discorsi, l'avrebbero investito facendogli sentire fisicamente quel che pensavano di lui.
Malgrado la mia prudenza, però, capirono tutto. Non solo si resero conto che io dovevo andar via, ma subito intuirono anche lo stato d'animo di questo individuo a cui nulla dicevano gli occhi dei bambini, il loro vivere, gli interessi, gli slanci, le loro passioni.
Non appena decise di rivolger loro qualche parola, cominciarono a guardarlo e, con distacco, a parlargli con arroganza.
Cercai di salvare la situazione; ma fu peggio. Dopo qualche attimo cominciarono a rumoreggiare e gridare.
"Non lo vogliamo!", urlò Beppe. "Non lo vogliamo!", fecero in coro disordinato gli altri, capeggiati da Roberto.
Mi guardava, interrogandomi con lo sguardo confuso e incredulo, come per dire: "Ma dove diavolo sono capitato!".
Sentivo tutto il peso e la responsabilità di quel che stava accadendo. Lì per lì non seppi altro che invitarli a tacere.
A parte il fatto che la società in cui vivevano aveva coltivato in loro il sentimento della ribellione, è anche vero, però, che io non avevo certamente soffocato questo sentimento con le imposizioni, come spesso avviene, per non ridurre dei bambini orgogliosi e gagliardi a poveri esseri senza volontà, alla merce di chi, gridando, vuol far valere le sue ragioni, per il semplice fatto di essere il più grande.
Comprendevo, tuttavia, l'inciviltà di questa manifestazione, anche se in fondo era, a modo loro, la più semplice e spontanea dichiarazione di affetto ed attaccamento a me.
Si trattava di una forma primitiva di lotta, istintiva se vogliamo, ma sempre valida quando ci si trovi improvvisamente di fronte a determinate circostanze.
Del resto, cosa avrebbero dovuto fare se non prendersela con colui che si presentava con aria di menefreghismo e ostilità?
Certo, avrebbero potuto anche chiedere la parola, così come si faceva durante le discussioni, e magari dire con franchezza tutto quello che avevano da dire. Questo sarebbe stato l'ideale, proprio di quella classe modello che io sognavo; ma non si potevano raggiungere questi livelli nel breve tempo di un anno scolastico.
Esprimevano, dunque, i loro sentimenti nella maniera più schietta e spontanea. Io ero nervoso per la figura che facevo, ma, in un certo senso, mi sentivo lusingato per la reazione che opponevano al prototipo dei burocrati.
Da questo punto di vista provavo un gran piacere, perché la loro reazione era, in fondo, la mia; io purtroppo non potevo però esprimerla. Era la lotta contro la mentalità del razzismo nostrano. Esagerazione? Non mi pare; soprattutto se ricordo gli atteggiamenti dei miei colleghi, che a parole si dichiaravano immuni da questo morbo sociale.
Mi lusingava anche il fatto che questi ragazzi avevano riposto in me la loro fiducia; che avevo guadagnato la loro stima, ed ero diventato il loro confidente, cosa non molto facile in ambienti come questi.
Avevano evidentemente trovato in me quella figura ideale che tutti i bambini cercano nei grandi ed imitano in ogni manifestazione del loro vivere.
Ora fiutavano il pericolo del mio allontanamento e strepitavano per paura di non saper più a chi guardare, chi seguire; il nuovo arrivato, infatti, da quel che erano riusciti a capire, non solo ispirava alcuna fiducia, ma, addirittura, li indispettiva.
Ed ora, a distanza di tempo, comprendo ancor meglio quanto avessero ragione. Quel maestro ministeriale, presente solo col suo fisico, dopo qualche tempo era ritornato al suo agognato cantuccio, e l'anno seguente la classe era stata dispersa nelle classi parallele.
Anche dopo due anni il ricordo doloroso delle botte che Beppe, Luciano, Roberto e compagni avevano preso da quel tipo di maestro era ancora presente.
La triste esperienza dei primi anni di scuola, quando avevano dovuto cambiare anche dieci maestri in otto mesi, aveva dato loro l'idea del loro futuro scolastico, ed ora, a ragione, diffidavano e si difendevano.
Il nostro collettivo che tanta fatica ci era costata aveva purtroppo finito di vivere. Ognuno aveva dovuto adattarsi ad altri sistemi, ad altri metodi d'insegnamento, dimenticando o rimpiangendo i nostri principi basati sul concetto della classe intesa come centro di vita collettiva, in cui ogni bambino ha la possibilità di svilupparsi ed affermarsi attingendo alla collettività.
Sono le parole del nanetto a confermarmelo.
Un giorno incontrandolo in corridoio mi disse: "Sor maé, con lei si stava bene. Si poteva parlare. Ognuno poteva dire quello che voleva. Si giocava e si stava sempre allegri. Io me ne ricordo sempre. Mannaggia oh! Con questo maestro calabrese, invece, non si può parlare. Parla sempre lui. Quando voglio dire qualcosa mi dice: " Stai zitto! " E poi avevamo il capoclasse, i capigruppo. Ora invece comanda tutto lui. Si ricorda quando andavamo in cortile? Mannaggia oh!"
E non solo il nanetto: anche Luciano, Sandro, Roberto, Beppe alla fine rimpiangevano il nostro metodo; proprio loro che non sapevano adattarsi a nessun tipo di organizzazione, che mal tolleravano la disciplina del collettivo, guidati come erano da un esasperato individualismo!
E Claudio, Francesco, Antonio, Alvaro e gli altri, com'erano lieti quell'ultimo giorno al caffè! La scuola non era stata sofferenza; non era costata troppi sacrifici o eccessive rinunzie.
I loro testi, le loro poesie, le inchieste testimoniavano l'inequivocabile volontà di migliorare, di progredire, di superare quella condizione a cui erano costretti da una società ingiusta che nulla aveva dato loro se non amarezze, umiliazioni, sconforto.
La scuola, sì, può fare molto. Ma non la scuola di Pietralata. Non la scuola del direttore miope e avaro di contatti umani, che cerca di risolvere i più delicati problemi dei rapporti con le famiglie come un incallito poliziotto.
Non la scuola del secondo direttore che ha terrore della "politica" come e della peste. Non la scuola di maestri che pensano solo a fuggire, senza curarsi di conoscere, di indagare prima di agire nei confronti degli allievi; che si servono della sospensione come il domatore della frusta.
Ebbene, quella non poteva essere la scuola di quei bambini. Non poteva essere la scuola di Beppe, bizzarro e sfrenato come un puledro di prateria, abituato a spaziare a piacere; non quella di Luciano, buono, ma malato di nervi; di Roberto, esuberante e cocciuto; di Sandro, capriccioso e terribilmente elettrizzato; del nanetto, riflessivo ma incapace di acquisire rapidamente nozioni astratte.
Di una nuova scuola avevano bisogno. Questo è quello che ho cercato di dare nei due anni che ho trascorso fra loro: una scuola in cui si sentissero innanzitutto loro stessi, con la loro libertà, il desiderio sfrenato di fare, di realizzare; una scuola in cui fossero loro a cercare e trovare, a dar sfogo alla curiosità di conoscere e sapere, senza sentirsi strumenti della volontà altrui.
Dal clima che lentamente si è andato stabilendo è sorta in ognuno la fiducia e la responsabilità. Beppe diventa zelante nemico del gioco d'azzardo: lui che prima avrebbe giocato anche l'anima, se ne avesse avuta la possibilità.
Roberto, Sandro, Luciano, Guido, intolleranti di ogni disciplina, si rimettono alla volontà della maggioranza, quando si decide qualcosa che interessa la collettività.
Claudio, il tuffatore dell'Aniene, abulico e menefreghista, prende gusto a fare inchieste, a intervistare, a girare per la borgata, portando a scuola prezioso materiale.
Francesco ed Antonio improvvisamente si sentono poeti e affidano a semplici versi i loro sentimenti.
In quale misura questo fervore di vita, di attività, di lotte e contrasti, che continuamente si rinnovano nel progredire, abbia potuto contribuire e contribuirà alla formazione del loro domani, non è facile dirlo.
Del resto mai mi sono posto una prospettiva così lontana, data la brevità del tempo a disposizione e il limite di un solo anno.
L'esempio di Nunzio e Luciano della classe di "semirecupero" prima, e di Carletto dopo, mi incoraggiarono a credere che molto si poteva fare, anche nei casi più disperati.
Guardando oggi, con il distacco che la distanza del tempo impone, mi pare di poter dire serenamente, alla luce dei fatti, che la strada seguita sostanzialmente corrispondeva alla realtà del momento.
Al fondo delle mie convinzioni stava, e sta oggi, la volontà di guardare alla realtà, così come si presenta, in tutta la sua crudezza.
Sognare una scuola modello, dove tutto è predisposto e fissato in anticipo, è stato il grossolano errore di quei colleghi che confrontavano la scuola di Pietralata con quelle del centro, senza però accorgersi che dietro la facciata dell'atteggiamento composto del bambino della famiglia "bene" del centro, insorgevano altri problemi, e non meno scabrosi.
È da questo accostamento semplice e acritico, che vedeva gli aspetti più appariscenti da una parte e negativi dall'altra che scaturisce la ingenua conclusione del "qui tutto male e là tutto bene".
Certo, per chi limita la sua funzione educativa al semplice e puro insegnamento di nozioni, il confronto non regge.
Ma chi di questo non si accontenta e vuole dare anche un contenuto ideale al suo lavoro, per agganciarsi ai più elevati principi del vivere umano, cercherà di soppesare le due componenti rallentatrici dello sviluppo del processo educativo.
Fra il sordo conformismo e l'esasperato individualismo che si confonde e nasconde nell'apparente ordine del bambino "bene", e lo slancio generoso e spregiudicato dei piccoli di borgata, io preferisco il secondo, come punto di partenza.
Sarà forse perché io amo la gente che non si rassegna al primo infuriar dei venti, che non si piega alla prima minaccia, e non si sconforta alla prima sconfitta; forse perché chi lotta e si batte fino in fondo per sostenere le sue le convinzioni, lo stimo e l'ammiro; fatto sta che a questi ragazzi cosi fieri e gagliardi, sempre pronti a battersi, mi dedicai con tutta la passione e l'entusiasmo possibile. Queste due mie classi erano di quelle a cui, o si dà tutto e si ottengono dei risultati sorprendenti sul piano umano più che su quello didattico, o si finisce per odiarle.
Il tempo e l'ambiente potranno cancellare dal cuore di quei ragazzi ogni ricordo di quel periodo breve e difficile, ma intenso di passioni e di felicità? ( … )“
febbraio 2005
in libri inevitabili: |
|
dello stesso autore: |
|