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Memorie di un insegnante, sedici.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Nelle pagine scritte da Antonio Santoni Rugiu e tratte dal suo volume “Chi non sa insegna“, uno spaccato di storia della scuola pubblica italiana e di una maturazione, ahimé rimasta incompiuta, della centralità del problema scolastico e della formazione in genere, nella coscienza collettiva del bel paese.
La proliferazione delle sigle nel mondo della scuola ha sempre sopravanzato e di molto le idee in essa circolanti, per la qualcosa dietro tante di quelle sigle il più delle volte si scopriva e si scopre una mancanza assoluta di proposte meditate e valide.
Da ciò lo stallo continuo dell’evoluzione del sistema della formazione nel bel paese, il più delle volte concretizzatosi in proposte risultanti impresentabili ed indifendibili.
“( … ) Ad Anagni avevo reincontrato dopo moltissimo tempo, facciamo trent'anni, un'amica d'infanzia che accettavo ben volentieri come compagna di viaggio sulla 600 e grazie a lei venivo a conoscere l'esistenza di un piccolo gruppo nazionale di insegnanti dei vari livelli, dalle elementari all'università compresa, che periodicamente si riunivano per scambiare e discutere insieme esperienze e progetti in campo metodologico-didattico.
Il gruppo si chiamava CTS (Cooperativa Tipografia a Scuola) ma si disponeva a cambiare nome in MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) per evitare le accuse di arido tecnicismo provenienti dagli spiritualisti cattolici e dai non ancora estinti neoidealisti. ( … )
C'era poi anche il CEMEA (Centro per il Movimento dell'Educazione Attiva) ricavato dal modello originario francese degli anni '30, orientato però a formare e aggiornare piuttosto educatori extrascolastici per campeggi, colonie di vacanza, comunità terapeutiche o assistenziali e simili.
Era stato proprio nel MCC e nel CEMEA che nei primissimi anni '50 avevo fatto le esperienze di stage, tessute di discussioni, di canti corali e di attività espressive, gioco drammatico soprattutto ma anche canzoni e danze popolari.
E poiché, come nel mio caso, le persone erano spesso le stesse, le attività delle tre organizzazioni finivano per somigliarsi o addirittura ripetersi, anche se il carattere di ciascuna restava particolare.
Il dato comune era un impasto della education nouvelle francese e di quella più recente dell'attivismo statunitense o progressive education che dir si voglia, trasmesso dall'USIS (che aveva sostituito nella veste di Servizio informazione degli USA il ricordato PWB) ma in altra parte da gruppi minoritari ma molto attivi, quasi missionari, quali gli American Friends e altri gruppi autonomi a scopo filantropico, sorti subito dopo la fine dell'occupazione alleata.
Ma al di là delle molte affinità, le differenze fra queste associazioni e l'MCE erano soprattutto due: che il Movimento si occupava essenzialmente di metodologia e didattica nella scuola, mentre le altre trattavano piuttosto forme educative non scolastiche.
L 'MCE nasceva soprattutto dall'iniziativa di un gruppo di insegnanti di sinistra socialcomunista, si diceva allora, soprattutto PCI, mentre gli altri due erano piuttosto di impronta liberale e socialdemocratica, quando non dichiaratamente anticomunista.
Naturalmente chiunque vi aveva libera circolazione e nessuno indagava sull'orientamento politico dell'altro né ostacolava chi in qualche modo apparisse eretico, assolutamente no, però nell'aria e nella linea di fondo la differenza era chiara.
Un altro punto presentava affinità-diversità insieme: il laicismo. CEMEA e MCC erano decisamente laicistiche e in concorrenza con le incomparabilmente più forti iniziative cattoliche, mentre I'MCE per la presenza maggioritaria di elementi di un PCI che veniva abbastanza fresco dalla scelta filoconcordataria di Togliatti, era certamente laico e anche laicista nell'ispirazione e altrettanto in concorrenza -limitatamente alle modestissime forze- con i cattolici, ma evitava le occasioni che lo costringessero a schierarsi decisamente contro.
É difficile per chi non ha vissuto quegli anni rendersi conto oggi di che cosa volesse dire -a prescindere dalle datate diatribe su "laicità" che pareva ad alcuni termine meno fazioso di "laicismo"- sentirsi laico ed aggregarsi con altri laicisti.
Fra noi c'erano anche dei cattolici così come fra i cattolici c'erano anche laicisti, ma molti di meno.
I cattolici nel campo dell'educazione chiedevano, al contrario di noi, un'adesione di principio che di solito escludeva posizioni non confessionali, tanto è vero che le maggiori organizzazioni di allora, tuttora vive e vegete, l'AIMC (Associazione maestri cattolici), e I'UCIIM (Unione cattolica insegnanti medi) e altre collegate recavano ben evidente nella loro ragione associativa la clausola religiosa.
La categoria della trasversalità che scompone e ricompone in forme diverse e fluttuanti gli schieramenti delineati si andrà affermando in tempi parecchio successivi a quelli di cui sto ancora parlando.
Allora le posizioni erano in ogni settore molto più nette. E siccome la posizione cattolica corrispondeva a quella dei gestori DC della pubblica istruzione -anzi la ispirava- almeno fino ai primi '60 e cioè fino all'avvento del centro-sinistra una certa discriminazione ideologica restava ancora verso gli insegnanti comunisti, socialisti o comunque simpatizzanti per quella che allora si chiamava l'estrema sinistra; un po' meno verso i laici generici.
Io avevo attraversato, appunto, MCC e CEMEA e ora partecipavo all'attività del MCE assai più continuativamente.
La mia folgorazione pedagogica avvenne lì. Prima avevo colto quelle esperienze associative senza entusiasmo ma come una sorta di integrazione positiva per il mio ruolo di insegnante (che speravo sempre provvisorio) e come un rinforzo della motivazione al cambiamento di cui nella scuola avvertivo un grande bisogno.
L'MCE però mi coinvolse più del previsto. Forse giunse in un momento più decisivo della mia maturazione o intorno a quei problemi in pochi anni si era andato delineando un clima diverso oppure fu l'incontro con alcune personalità che già erano parte più o meno attiva nel movimento, senza partizioni gerarchiche di grado di scuola né di diverso livello di formazione culturale.
Le personalità di Lamberto Borghi, Aldo Visalberghi, Francesco De Bartolomeis, Raffaele Laporta, Bruno Ciari, Aldo Pettini e Marcello Trentanove e di altri ancora, non erano indifferenti, sicuramente stimolanti, magari per contrasto, a farmi intendere connessioni e profondità della questione pedagogica ben oltre i limiti della didattica in senso stretto.
La scuola quotidiana era in fin dei conti quasi un pretesto per arrivare a toccare o a intuire i nodi sostanziali che condizionavano in un modo o nell'altro l'ideologia e la prassi educativa nell'insegnamento e dintorni.
Erano nodi storici, istituzionali, antropologici, ideologici e così via, molto difficili a chiarire compiutamente ma molto affascinanti da prendere in esame.
A questo aggancio ne vanno aggiunti almeno altri due: quello politico e quello sindacale. Politicamente, l'ho detto, mi ero sempre sentito di sinistra. Non mi ero mai iscritto al PCI ne al PSI ma le mie simpatie ed amicizie - salvo gli amici d'infanzia molto cari ma assai distanti politicamente - erano a sinistra. ( … )
Era da poco tempo che i partiti di sinistra davano importanza ai problemi scolastici. Molti comunisti e socialisti individualmente o a gruppi vi erano già impegnati ma le dirigenze dei due maggiori partiti della sinistra come il PSI li snobbavano o li accoglievano in quanto si prestassero a funzionare come cinghia di trasmissione -si diceva allora- delle direttive del partito.
Poi si ricorderà spesso il Comitato centrale del'55 in cui Mario Alicata, allora responsabile della scuola e cultura del PCI, indicò la necessità che il partito volgesse di più la sua attenzione e fornisse maggiore appoggio ai problemi della scuola e a quei gruppi di insegnanti che si stavano battendo per un suo rinnovamento democratico, l'MCE in prima fila, con spirito unitario.
"Unitario" per il PCI fino ai primi '60 significava libero accesso alle aggregazioni comuniste anche di chi non fosse iscritto al partito o fosse iscritto a un altro partito purché accettasse l'egemonia del PCI.
D'altro canto, il PCI quando si impegnava a sostenere, sosteneva davvero e quindi quel prezzo era da molti non comunisti pagato senza forti remore. ( … )
Quella lunga e intensa giornata, dal 1959 al 1963 in pratica, fu da me vissuta prima come sindacalista e poi nella triplice veste di esponente dell'ADESSPI e della commissione scuola del PSI e poi anche come membro della Commissione d'indagine.
Il mio rapporto con il sindacato era iniziato presto, fin dall'esito del concorso che mi poneva in quella rosa di ex combattenti che avevano ottenuto l'idoneità ma non la nomina diretta e quindi dovevano restare un numero x di anni a bagnomaria, in attesa di ricevere la chiamata per la sistemazione nei ruoli.
Ma la mia adesione al sindacato degli insegnanti casualmente coincise con il suo distacco dalla CGIL e la sua frammentazione in organizzazioni distinte per schieramento ideologico-politico o per grado e tipo di scuola.
Il maggiore di questi sindacati della scuola resisi autonomi fu il SNSM (Sindacato nazionale scuola media, dove il termine "media", all'antica, stava anche per secondarie superiori) composta da una maggioranza cattolica, da una minoranza laica di socialdemocratici o "piselli" (dal nome di P.S.I.L. che quel partito inizialmente assunse) e repubblicani, più un'altra minoranza ancora più modesta di socialisti e comunisti, la cosiddetta mozione n.4.
Più tardi anche il SNMS si scisse, ma alle soglie degli anni '50 era ancora compatto, e lì io aderii, naturalmente presso la mozione n. 4.
Dopo però mi appartai e il mio ritorno a un maggior impegno sindacale fu contemporaneo al periodo anagnino, quindi al coinvolgimento pedagogico-didattico, all'adesione alle associazioni che ho già nominato e anche al rientro attivo nel PSI e precisamente in quel gruppo che discuteva e progettava gli interventi nella politica scolastica, guidato da Pippo Codignola.
Come si vede, benché non volessi ammetterlo pienamente, la realtà pedagogica in tutti i suoi aspetti mi aveva ormai circondato.
Era sempre più difficile sostenere che la professione docente e l'interesse per i suoi molteplici problemi fossero per me solo fatto transeunte.
Fu proprio il sindacato che mi strappò da Anagni ne1 1960: ero stato designato a vice-segretario del SNMS come rappresentante nazionale della mozione n.4.
Siccome quella mozione di estrema sinistra era in minoranza assoluta mi furono assegnati i paria dell'organizzazione e cioè gli assistenti tecnici e i bidelli.
Partecipavo naturalmente anche alle riunioni della segreteria e degli altri organi direttivi, cercando sempre di fare la voce più grossa di quanto le forze della nostra mozione consentissero. Ma come disbrigo di pratiche correnti, dovevo accontentarmi delle briciole. La presa di contatto con quelle categorie non fu però priva di insegnamenti: i problemi dell'altezza dei vetri oltre la quale il bidello non era più tenuto a pulire, l'indicazione dei detersivi non nocivi, i metri quadri di pulizia spettante a ognuno, l'uso del berretto per gli addetti alla portineria e della divisa e via dicendo, oltre a spinte rivendicative mansionali scoprivano anche la ricerca di un'immagine di sé più dignitosa e insieme più pratica.
In questo gli uomini erano più accaniti delle donne: i portieri rivendicavano tutti di nuovo il berretto gallonato e la divisa con bavero di velluto, ritenendo il loro un ruolo di rappresentanza oltre che di custodia nonché di look (diremmo oggi) della scuola, mentre i bidelli di corridoio spesso rifiutavano, donne comprese, anche il normale grembiule.
Gli aiutanti tecnici di laboratorio, poi, avevano il problema dell'assistenza alle lezioni dimostrative che aggravavano troppo il loro regolare orario di lavoro e quello delle sostanze chimiche pericolose o nocive per le quali chiedevano almeno - e mi sembrava giusto - un'indennità. Altra loro aspirazione era di essere chiamati insegnanti, di divenire anche loro I.T.P. (insegnanti tecnico-pratici).
Da parte loro gli I.T.P. replicavano che gli aiutanti, visto che i gabinetti di fisica o di chimica funzionavano in poche scuole e in molte erano addirittura assenti oppure i professori non avevano voglia di frequentarli, più che altro si grattavano la pancia e facevano tante storie se una volta tanto dovevano ungere qualche macchinario o dosare una polverina per esperimenti che facevano ridere i polli...
La mia attività nel sindacato era a tempo pieno e avevo quindi lasciato del tutto Anagni. La mia posizione era di "comandato" presso il SNSM e il solo rapporto con l'istituto magistrale ciociaro era costituito ormai soltanto dal mensile stipendio tramite assegno della benemerita Banca d'Italia (il versamento diretto in c/c bancario personale non era ancora concepito dalla PI). Addio perciò ai miei alunni, ossia alunne, non solo a quelli anagnini ma a tutti, perché non avrei rimesso più piede in un aula di scuola in qualità di docente.
La direzione del sindacato aveva sede, naturalmente, a Roma e quindi era finita anche la mia pendolarità scolastica. La mia 500, che aveva preso il posto della 600 celestina, poteva riposare, almeno su quel percorso (amava però inventarsene altri).
Le giornate sindacali erano di solito parecchio movimentate, specialmente in quel periodo: quando non c'era una delegazione di bidelli o di aiutanti, ce n'era una di ITP, oppure c'era una riunione di segreteria (con il segretario generale ultramoderato che trovava ogni volta il modo di ricordare che la vita sindacale è come il carciofo che va mangiato foglia dopo foglia e se lo vuoi mandar giù intero rimani strozzato) o magari un comitato centrale o un consiglio nazionale, altrimenti i casi personali delle categorie marginali che mi erano state assegnate e quindi i viaggi al ministero per ottenere che Tizio fosse trasferito a un'altra scuola o che Caio ottenesse finalmente la ricostruzione della carriera e Sempronio in virtù della sua semi-invalidità civile fosse esonerato dal lavaggio dei vetri anche se inferiori a 2 metri di altezza, ecc.; tutte questioni di tale rilievo da richiedere l'intervento dei papaveri di viale Trastevere.
Francamente gli esiti di questi viaggi erano scarsi, ma il segretario insisteva che erano necessari soprattutto per i loro effetti psicologici sugli assistiti: "Per un povero bidello sapere che un vice segretario generale in persona" - lui aveva una nozione elevatissima della propria carica e benignamente ne riversava una parte anche sui propri vice che solo in quel caso gratificava dell'epiteto di "generale" , in altri da lui contestato - "si è recato a viale Trastevere o in altro ufficio in capo al mondo per perorare la sua causa, è già per lui un successo.”
Devi andare, andare sempre e anche se non ricavi niente cerca di farti amici i funzionari e vedrai che i risultati presto miglioreranno".
Lui, che si riservava la trattazione dei casi più importanti di presidi e professori anziani e influenti, era un grande frequentatore del ministero e amava esibire la sua intimità con i ministri e sottosegretari democristiani o al minimo con direttori generali.
Per le sue movenze fisiche e mentali, per il suo frequente invocare San Biagio e San Procopio e più raramente anche altri santi, era soprannominato il monsignore.
Ma qualcuno della sua parte -le lingue più taglienti son quelle dei parenti- precisava che monsignore davvero non sarebbe mai diventato, al più canonico. A parte queste caratteristiche curiali e la ferma idea che i colleghi non aderenti alla mozione cattolica fossero destinati all'inferno, non era un cattivaccio.
In virtù del principio del carciofo di cui sopra, aveva una tale tendenza al compromesso che finiva per cercarlo anche quando la controparte non lo chiedeva. Il suo assunto fondamentale si basava sulla regola di cercare prima di tutto la benevolenza delle persone dalle quali potevi domani ottenere qualcosa, a costo di rinunciare a una parte di quanto loro stesse oggi ti offrivano.
Così, secondo lui, la volta successiva si sarebbero trovate ancor più disponibili. Io invece pensavo che sarebbero diventate più tirate.
Gli ottimi successi di quel periodo furono dovuti a una partecipazione veramente imprevedibile della base e al sostegno di altri sindacati e degli stessi partiti, mentre lui titubava come avesse paura di vincere, ma restava in prima fila e gonfiava come un tacchino quando si trattava di ricevere le felicitazioni per le conquiste realizzate.( … )“
gennaio 2005
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