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Memorie di un insegnante, quattordici.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Le pagine di questa memoria sono tratte da uno scritto di Manara Valgimigli “La mia scuola“ apparso nel lontano 15 gennaio 1920.
Che dire? Sembra una pagina dei giorni nostri, con il disincanto proprio di chi nella scuola ha scoperto come sopravvivere curando possibilmente al meglio gli aspetti burocratici della funzione.
Che di funzione, nella quasi generalità dei casi, conviene parlare, almeno dalla esperienza personale vissuta per ben trentadue lunghissimi anni.
E l’esasperazione della funzione, imposta o favorita dai dettami ministeriali, conduce negli anni a perdere di vista il mandato proprio dell’insegnante.
A tale proposito aveva scritto Giovanni Papini il 30 giugno 1909:
“( … ) Ripeti e ripeti, anni dopo anni le medesime cose, e i professori diventano assai più imbecilli e immalleabili di quel che fossero al principio e non è dir poco.
Poveri aguzzini acidi, annoiati, anchilosati, vuoti, seccati, angariati, scoraggiati, che muovono le loro membra ufficiali e governative soltanto quando si tratta di avere qualche lira in più. ( … )“
Da “La mia scuola“
“( … ) Nel primo anno del mio insegnamento, capitato in un ginnasio del Mezzogiorno, un collega anziano mi disse: -Collega, tieni in ordine il registro e poi "fottetinne".– Obbiettai, ingenuo: -Non sarebbe il caso piuttosto di invertire i termini-; -Collega, non farete carriera.–
E una volta, alcuni anni fa, un ministro pedagogista di questi registri ne inventò tre: uno, per ogni singolo insegnante, che recava i voti e la materia spiegata e le lezioni e i lavori assegnati; uno in comune per tutti gli insegnanti, che stava su la cattedra e dove gli insegnanti diversi, man mano che si succedevano, indicavano ciascuno la materia spiegata e le lezioni e i lavori assegnati; e finalmente, un terzo, il così detto diario, per gli scolari, ai quali ogni insegnante dettava quello stesso che egli aveva scritto nel proprio registro e nel registro collegiale.
Con questi tre registri l'insegnante modello poteva ridurre di mezz'ora la propria lezione. -Collega, tieni in ordine il registro e poi "fottetinne".- Il precetto del collega anziano aveva ricevuto da Sua Eccellenza il Ministro pedagogista la consacrazione ufficiale.
Bene. Ci fu una volta un insegnante di storia, il quale aveva per il registro la più ossequiente e riverente devozione. Per costui il registro era tutto: era l'alfa e l'òmega del suo sapere, della sua disciplina, del suo insegnamento. Non plus ultra.
Di qua era la sapienza, e di là l'ignoranza; di qua era la luce, di là le tenebre; di qua il cosmo, l'ordine, l'armonia delle sfere, la sinfonia dei mondi, di là il vuoto, l'abisso, il caos, il nulla.
E più volte, in momenti di maggiore espansione e tenerezza per questa creatura del suo cuore, s'era lasciato sfuggire che Dio ne guardi se perdeva il registro era una rovina irreparabile: lì dentro i suoi scolari erano fotografati fissati fermati, con simboli e sigle e numeri, per l'eternità; lavoro paziente di ore e giorni e mesi; pagine tormentate che finalmente rispecchiavano l'essenza eterea della sua scuola; irriproducibili; documento di inestimabile valore.
Ahimè! anche agli scolari giunsero un giorno queste amorose confidenze; e pur troppo gli scolari, se non altro per amore del bel rischio, sono sempre stati un poco rivoluzionari e incendiari.
E si misero d'accordo una mezza dozzina; penetrarono nell'istituto, disserrarono il cassetto dove giaceva il prezioso cimelio, e lo trassero fuori e lo lacerarono e arsero. E intorno al rogo menarono balli e dissero canzoni.
Io rinunzio, naturalmente, a descrivere la faccia del miserando professore il dì dopo. Agamennone che si cela il volto presso l'ara dove Ifigenia è tratta al supplizio, è un procedimento troppo abusato e sommario.
Furono scoperti gli autori del reato e non solo puniti scolasticamente, ma anche tratti in pretura e processati. E ancora, nella città dove il gran fatto avvenne, si ricordano nomi e particolari.
Ma le fiamme di quel rogo anche più accesero della sua generosa passione il ferito cuore del professore: morto era quel registro nella sua materialità cartacea; ma l'idea-registro, il registro fede, il registro simbolo, bene sopravviveva più sublime e più grande dalle fiamme purificatrici di quella catarsi eraclitea.
E diventò di cotesto professore la ragion pura, la ragion critica del suo vivere, la conoscenza del suo essere, la Weltanschauung della sua didattica.
E di fatti (Collega, non farete carriera!) il professore fece carriera; spiccò il volo dai lidi della città marina, diventò provveditore, e fu provveditore di grandi sedi; e oggi non so che ufficio abbia presso il Ministero della pubblica istruzione; e nell'anno di grazia 1919, in luglio e in ottobre, è ritornato commissario regio agli esami di licenza del suo antico istituto.
Per quindici giorni in luglio, per quindici giorni in ottobre, le ceneri del registro arso vent'anni prima si risollevarono da tutti gli angoli e volteggiarono per tutte le aule in nembi di fosca polvere sul capo dei professori penitenti. Per quindici e quindici giorni ogni professore, col capo sparso di cenere, dovè prosternarsi in adorazione alla divinità suprema del registro. Per quindici giorni ogni pensiero e ogni norma, ogni disciplina e ogni ritmo, si governarono sul registro e per il registro.
-Professore, disse un giorno il signor regio commissario all'insegnante di fisica, io ho esaminato il suo registro: guardi qua: che cos'è questo voto nella casella dello scritto? La sua disciplina è orale, non ha scritto: le caselle dello scritto devono essere tutte in bianco, tutte vuote di punti, assolutamente. Una svista? un lapsus calami? Capisco, lo credo. Ma anche lei ha bisogno di essere persuaso che il registro è un pubblico documento, un preziosissimo e delicatissimo documento che non può esser trattato con mente distratta.- Sorriso del professore appena percettibile. -Ma che cosa direbbe lei, scusi, se un pittore che dovesse disegnarle un elogio in una pergamena, un marmista che dovesse inciderle un'epigrafe in una lastra di marmo, sbagliasse la posizione di una lettera? Ebbene, il registro è pergamena, è marmo, è bronzo: non soffre trasposizioni, non patisce cancellature.
E un altro giorno, al professore di matematica: -Ma che cosa sono, scusi, questi voti in lapis? Ma sa lei che questo registro sarebbe passibile di nullità? E quindi che anche il suo insegnamento potrebbe esser considerato come nullo, come non avvenuto?- A quel "quindi", a quella illazione, il professore allargò un poco gli occhi. Azzardò: -Ma a testimoniare del mio insegnamento ci sono gli scolari, testimoni vivi e presenti.- Gli scolari? Ma gli scolari passano, e il registro resta; gli scolari sono mutevoli, e il registro è immutabile. Il registro non crolla, egregio professore. E il voto è la fissità, il giudizio schematico, il compendio del suo insegnamento, la somma della sua attività; è la figurazione grafica, la rappresentazione icastica, la sintesi inappellabile del valore di ogni discepolo in ogni attimo della sua vita scolastica. E lei questo voto me lo scrive in lapis! Ma sa che anche l'inchiostro usuale, comune, non dovrebbe essere adoperato, bensì solo un particolare inchiostro, di un particolare colore, inattaccabile a qualunque acido, e indelebile al tempo.
Naturalmente, come si vede, scaturivano, da questi ammonimenti, preziosi consigli di didattica. Esaminando un altro registro trovò che per ogni trimestre i voti segnati erano troppo pochi.
Il professore, che è giovane e intelligente, osò una giustificazione: - Io spiego per una o due lezioni fino a che non abbia esaurito nei suoi punti centrali e nelle sue linee generali un determinato argomento. Poi chiamo a ripetere: ma in una lezione potrò chiamare un alunno o due al massimo: cosicché alla fin del trimestre difficilmente posso segnare più di due o tre voti a ogni scolaro. Del resto, io faccio lezione perché i ragazzi imparino qualche cosa, non per riempire il registro di segni cabalistici.
Con ambo le mani il signor regio commissario s'abbaruffò i capelli; scattò dalla sedia; si ricompose. -Si vede che lei è giovane; non ha esperienza della scuola; ha bisogno di qualche suggerimento: mi ascolti. Un buon insegnante per prima cosa, appena entrato in iscuola, apre registro, fa l'appello, nota gli assenti. Questa operazione, tra una cosa e l'altra, porta via quindici minuti circa. E restano altri venti minuti per la spiegazione della materia nuova. Lei osserva che in venti minuti si può interrogare ben poco.
Bene: l'arte dell'insegnante sta tutta qui. E' questione di metodo. Bisogna prepararsi a casa le interrogazioni. Un insegnante ha più bisogno di prepararsi a interrogare che a spiegare. Massime se ancora è giovane come lei. Anch'io, quando ero giovane e insegnavo storia, mi preparavo; e facevo così. Mi segnavo in un foglietto una serie di domande: due o tre dozzine. Ma badi; perché è il punto: non domande che esigano lunghe risposte; non bisogna mai far parlare gli scolari; bensì domande che richiedano una risposta secca e precisa, un nome, una data, un fatto.
Esempio: D. Incoronazione di Napoleone, quando? R. 26 marzo 1805.
- D. Dove? R. Nel Duomo di Milano.
- D. Quali parole pronunciò ? R. Dio me l'ha data, guai a chi la tocca.
- D. Chi pose a capo del Regno italico ? R. Eugenio di Beauharnais.
E badi bene: ogni scolaro una domanda, ogni domanda un voto. In venti minuti lei può interrogare venti scolari, può segnare nel registro venti punti. Ha capito? E alla fine di ogni trimestre lei avrà una ben ricca messe di voti da farne mannelle per le medie trimestrali e finalmente scrutinio finale.
Parole testuali, e propositi e suggerimenti che, mi sono stati riferiti e confermati da più parti. Ora si domanda: se questa funzione di regio commissario è tuttavia ritenuta, presso il Ministero della pubblica istruzione, di qualche utilità, perché affidarla a persone che manifestamente non ne hanno la competenza necessaria? Perché qui, in sostanza, non si tratta di una teoria didattica o superata o sbagliata. Che ci sia ancora taluno il quale concepisca la scuola come un ingranaggio meccanico, può anche essere ed è; che ci sia ancora taluno il quale appena entra in una scuola o in un istituto si faccia portare i registri e muova da quelli a giudicare il valore e l'attività degl'insegnanti, può anche essere ed è; che ci sia ancora taluno il quale vorrebbe che gli insegnanti facessero lezione con l'orologio alla mano e, scoccata l'ora che la lezione, secondo l'orario, ha da finire e ha da cominciare quella di geografia, guai se subito non interrompono e non fanno il salto; - anche di questi tali può darsi ce ne sia e ce n'è: e bisogna tener testa a costoro, e non dar tregua, e procedere nel nostro lavoro indipendentemente e coraggiosamente, anche a costo di avere una censura, anche a costo di perdere una promozione, perché la scuola, se vuoi vivere, ha bisogno di anime le quali non chiedano compensi a nessuno, né a ispettori né a direttori, né a commissari né a ministri, ma si soddisfino di se stesse, della loro stessa attività, della luce che portano, dell'esaltazione che suscitano, del consentimento che promuovono fra sé e le anime dei discepoli nella superiore fraternità del sapere che è creazione immediata e spontanea e perciò solo consolazione e soddisfazione suprema dello spirito.
Tutto questo sta bene: ma qui si tratta semplicemente di assoluta incompetenza e deficienza. E al Ministero sarebbe utile, mi pare, che si provvedesse con maggiore oculatezza e con vigile senso di responsabilità alla scelta di questi signori commissari.
Questo brav'uomo, di cui i colleghi mi hanno contato tante amenità, che funzione poté avere presso l'istituto a cui era stato inviato? O forse la funzione del regio commissario è esclusivamente formale e burocratica e si esaurisce tutta nel metter la propria firma ai lavori e ai registri d'esame? E allora aboliamolo; e tanto di risparmiato per lo Stato e per i Comuni.
Non credo che Stato e Comuni, a questi lumi di luna, si permettano il lusso di mandar commissari a scopo di allietare e giocondare, nella estiva e autunnale afa degli esami, le commissioni esaminatrici.
È vero: questo brav'uomo, oltre la mania del registro e dei voti, e quando il frequente assopirsi non gli faceva dondolare e torcere il capo su una spalla fra il muto e sottile occhieggiare dei professori e discepoli intorno, ne aveva, mi dicono, anche un'altra: quella di mettere in versi "le cartoline del pubblico" della Domenica del Corriere: e ne leggeva e recitava e improvvisava a tutti, sazi e digiuni, alla scuola a tavola a passeggio.
Non si sa precisamente, come dicono di Socrate quando mise in versi le favole di Esopo, a quale sogno o demone in questi suoi esperimenti poetici egli obbedisse; ma certo tutti sono d'accordo che era cosa assai dilettosa e lieta; e anzi, non meno dilettosa e lieta dei suoi esperimenti e ammonimenti didattici su le interrogazioni a tiro rapido, e su la immacolata santità del registro.
( … )“
gennaio 2005
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