|
Orazio: l’ode proemiale del 1° libro et alia
(analisi del testo)
Marino Faggella
|
In un celebre saggio(1) Saint-Beuve scrive che classico è “un autore antico già consacrato nell’ammirazione e che detta legge nel suo genere” in quanto costituisce un esempio e un modello per altri scrittori. Anche se Orazio dovette subire gli alti e bassi della cultura storica, nessuno potrebbe negare che tutte le qualità di un classico appartengono al poeta di Venosa, né si potrebbe minimamente dubitare del valore altissimo della sua arte. È giusto, tuttavia, riconoscere anche che il successo e la fortuna del poeta di Venosa non furono dovuti solo al valore indiscusso della sua ars, ma dipesero anche dall’incontro con due uomini, i più importanti di Roma: Mecenate ed Ottaviano. Infatti quando Orazio incrociò la sua vita con la loro il suo destino ebbe un corso diverso. Quando ciò è accaduto?
Nell’anno 38 Virgilio e Varo lo presentarono a Mecenate, il più importante consigliere di Ottaviano, esecutore del programma politico-culturale del Princepsche ancora oggi si riassume col termine di Mecenatismo. Dalla familiarità con Mecenate, che l’aveva introdotto nella cerchia dei poeti augustei, Orazio era passato poi ad avere rapporti diretti con Ottaviano proprio negli anni della formulazione del suo programma politico scegliendo di essere il poeta ufficiale dell’impero. Questo significò un nuovo ciclo nella vita del poeta. Mecenate per salvare il poeta dalle sue ristrettezze economiche nell’anno 31 o nel 30 donò al poeta un podere con abitazione presso il torrente Digentia nella Sabina a 52 Km. da Roma.
Per quanto il podere dovesse produrgli parva vectigalia e anche il vino era scarso e di poco conto, qui egli ritornava spesso per recuperare la sua umanità, a scrivere, talvolta anche a zappare, e ciò faceva sorridere i suoi vicini contadini, abituati a vederlo solo nelle vesti del poeta e del filosofo: rident vicini glaebas et saxa moventem (Ep. I, 14, 39) . Solo il bestiame, a causa dei fertili pascoli e dei boschi vicini, era redditizio (multa fruge pecus) e costituiva forse, come dice nell’Epistola sedicesima (9-10), l’unica risorsa del fondo. Il poeta, sebbene confessasse scherzosamente che sulla sua terra crescessero in abbondanza rovi e cornioli e che prima dell’uva avrebbe attecchito meglio il pepe, era ugualmente soddisfatto poiché la campagna gli donava la gioia e la pace dell’animo (tranquillitas animi). Egli era contento solo perché gli alberi fornivano al loro padrone molta ombra e, dopo una cena frugale, il sonno facile e ristoratore presso la riva di un ruscello: cena brevis iuvat et prope rivum somnus in herba (Ep. I, 14, 35) .
Il suo sogno era sempre stato quello di possedere un pezzo di terra:
Hoc erat in votis: Modus agri non ita magnus,
hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons
et paullum silvae super his foret. Auctius atque
Di melius fecere.Benest. Nil amplius oro.
“Questo era nei miei desideri: un pezzo di terra non grande, ove vi fosse un orto, e vicino alla casa una sorgente d’acqua e in aggiunta un po’ di bosco. Niente di più e di meglio gli dei mi concessero. Questo è il bene. Non chiedo niente di più”.
Così aveva detto all’inizio di una delle sue Satire (II, 6) , e ringraziava Mecenate per avergli riservato la miglior sorte possibile dedicandogli la bellissima ode del terzo libro nella quale si sottolinea la forza distruttiva dell’oro:
Crescentem sequitur cura pecuniam
maiorimque fames. Iure perhorrui
late conspiccuum tollere verticem,
Maecenas, equitum decus!
Quanto quisque sibi plura negaverit,
ab Dis plura feret. Nil cupientium
nudus castra peto et transfuga divitium
partes linquere gestio,
contemptae dominus splendidior rei,
quam si, quicquid arat impiger apulus,
occultare meis dicerer horreis,
magnas inter opes inops.
Purae rivus aquae silvaque iugerum
paucorum et segetis certa fides meae
fulgentem imperio fertilis Africae
fallit sorte beatior.(2)
“Crescendo le ricchezze aumentano le ansie e il desiderio di beni più grandi. Bene a ragione io ho temuto di sollevar troppo in alto la testa, o Mecenate, onor dei cavalieri. Quanto più ciascuno si priverà tanto più riceverà dagli dei. Nudo io mi accosto all’esercito di quelli che nulla desiderano e come un disertore preferisco abbandonare il partito dei ricchi. Sarei più felice padrone di modesti averi, povero tra così grandi ricchezze, di un aratore infaticabile che si affanna ad occultare nei suoi granai tutte le messi dell’Apulia. Un ruscello di acqua pura, un bosco di pochi iugeri e la promessa di un sicuro raccolto fanno che io sia più felice di chi, ignaro della vera felicità, si fregia del possesso dell’Africa rigogliosa (…) Molto manca a chi molto desidera”.
Multa petentibus / desunt multa: sono qui riassunti i bisogni e gli ideali del saggio che solo è felice e libero perché rinunziando all’ambitio e alle ricchezze sa accontentarsi di una vita modesta e frugale. Per questo talvolta egli giungeva ad odiare la città: Odi profanum vulgus et arceo (C. III, 1), per ritirarsi nella villa sabina, ragione prima della sua felicità.
Il poeta vate
Ma col tempo egli aveva ascoltato il richiamo di Augusto, scegliendo di essere il poeta ufficiale dell’impero. Nacque così un nuovo programma poetico che allontanava un po’ Orazio dalle intenzioni manifestate nelle satire, che non si prestavano, proprio per la natura del genere, alla celebrazione ammirata delle altissime doti politiche e militari del Princeps e della fede orgogliosa per Roma restaurata nella sua grandezza e chiamata ad una missione universale nel mondo .I risultati delle Odi nazionali e la fama che gli derivò dalla stesura del Carmen Saeculare sono lì a testimoniarci che Orazio ebbe sicura coscienza della sua fortuna e del suo valore e, proprio nella consapevolezza di essi, aspirando ardentemente ad una gloria immortale compose due odi: la prima del 1° libro, che apre la raccolta delle odi, (che furono pubblicate in due diverse occasioni divise in due gruppi. Il primo gruppo, in tre libri, si apre proprio con la ode dedicatoria a Mecenate: Maecenas atavis edite regibus, sulla quale punteremo prevalentemente la nostra attenzione), e si chiude poi con il carme trentesimo del libro terzo, la già ricordata: Exegi monumentum aere perennius, che chiude la raccolta nel modo più degno.
L’ode proemiale
Non sempre Orazio ebbe il favore dei critici e dei lettori contemporanei, per cui chiudendo il terzo libro delle odi, se da una parte si vantava di aver trasferito per primo nella lingua latina gli accenti e i ritmi dei lirici greci (Saffo e Alceo) princeps aeolium carmen ad italos / deduxisse modos. Sume superbiam / quaesitam meritis…, sentiva anche il bisogno all’inizio del suo lavoro di rivolgersi al suo protettore con queste parole per averne il favore e la protezione:
Maecenas atavis edite regibus
o et presidium et dulce decus meum!
(“O Mecenate, da regale sangue disceso, mia difesa e dolce ornamento!”)
Dando per scontata la conoscenza del testo, non se ne darà, anche a causa della sua estensione, la traduzione per intero, ma la nostra attenzione si concentrerà prevalentemente su alcuni luoghi fondamentali e su quelle parti di esso che risultano particolarmente importanti e utili all’economia del nostro discorso. Tuttavia non ci sembrerà fuori luogo fare delle osservazioni intorno al tradurre(3) ricordando che vi sono due figure di traduttore: “il traduttore tecnico”, tanto per intenderci alla Albini, il quale, essendo un perfetto conoscitore dei canoni linguistici, senza venir meno alle regole si sforza di utilizzarle totalmente nella traduzione col proposito di mettersi nei panni dell’autore, cercando di pensare le stesse cose che quest’ultimo aveva pensato. Questo tipo di traduzione vale, però, più per un brano in prosa che per un testo di poesia.
Esiste poi il “traduttore poeta”, come Quasimodo ad esempio, che, pur con qualche violazione delle regole linguistiche si sforza di rendere i sentimenti del poeta più che il pensiero. Qual è la migliore traduzione? Secondo noi quella di Quasimodo, perché egli pur non tenendo completamente conto dei dati filologici e linguistici (è appena il caso di ricordare che la filologia non dovrebbe essere usata in modo totale, ma dovrebbe fornirci esclusivamente la chiave per entrare all’interno dell’opera, giacché, quando essa è usata in modo assoluto, non è altro che ostentazione e vuoto esercizio) ci offre la possibilità di entrare nella comprensione di una poesia apparentemente semplice, ma in realtà così complessa come quella di Orazio.
La lirica, che - come sostiene D’Arbela- “è un carme di squisita fattura, nel quale fra i due primi e i due ultimi versi che lo incorniciano, dandogli quasi forma epistolare, si svolge una serie di quadretti luminosi e coloriti, sapientemente raggruppati e contrapposti, che dimostrano l’attitudine di Orazio a cogliere nei motivi che si riferiscono alla vita umana i momenti lirici e fantastici”,(4) ha avuto da parte dei critici numerose e diverse interpretazioni. Quasi tutti, da Norberg a La Penna, da Wilamovitz a Pascoli, hanno riconosciuto la struttura armonica e simmetrica della composizione, ma intorno al carme si è venuta accumulando una tale massa di interpretazioni da spaventare il più accreditato ricercatore.
Innanzitutto occorre dire che non tutti sono d’accordo sul valore poetico dell’ode: alcuni (quelli meno favorevoli) sostengono che si tratta di un carme ufficiale, in particolare la parte centrale non sarebbe niente altro che un catalogo, una serie di dati, di figure ed immagini che non fanno certo pensare alla poesia che per sua natura dovrebbe al contrario essere sintetica. Fra essi ricordiamo lo stesso La Penna, e niente meno che il Pascoli; ma non sono mancati quelli che si sono impegnati nell’assegnare un valore positivo al componimento, come fa, ad esempio il Pasquali nel suo fondamentale Orazio lirico(5).
I carmi di Orazio che sono stati studiati prima dal Wilamowitz, poi da Cupaiulo e da Ghiselli,(6) (i quali si sono particolarmente soffermati sulle strutture oraziane, argomento che è stato ripreso successivamente anche da A. La Penna), fanno pensare a tre fondamentali tipi di architetture che, per semplificare, rimandiamo ad una divisione “bipartita”, “tripartita” o “quadripartita”.
Ora che tipo di ode è questa? Volendo riportare il carme proemiale all’interno di uno di questi schemi, dovremmo pensare ad una particolare struttura bipartita, quella che con espressione tedesca viene definita Ringkomposition, cioè ad una particolare composizione di tipo circolare.
Dove si vede questa circolarità? Essa è evidente nel fatto che i primi due versi sono dedicati a Mecenate e gli ultimi due si concludono con la ripresa del discorso su Mecenate, con al centro una sospensione che, annunziata già dalla virgola, che stacca isolandola l’immagine grandiosa del primo verso, è maggiormente evidenziata dallo iato o et, pausa metrica con la quale si apre il verso successivo, che, se da una parte ha lo scopo di sottolineare la magnanimità regale del protettore di Orazio separandola dalle più familiari espressioni contenute nello stesso verso, serve anche ad annunziare una sospensione del discorso poetico che poi si svilupperà quasi come una digressione nella serie dei quadretti centrali.
In effetti, dopo l’elogio di Mecenate, Orazio con una tale suspance si peoccupa principalmente di tenere il lettore col fiato sospeso per proporgli alla fine, dopo l’elencazione di una serie dei bìoi, una conclusione subliminale sub specie magnitudinis.
Al fine più specifico dell’analisi del testo conviene l’applicazione del metodo semiologico che si rivela sempre di grande efficacia soprattutto nei casi in cui è possibile trasferire con un certo successo il procedimento dell’analisi dei livelli (metrico-ritmico, lessicale, sintattico e retorico), già sperimentato nello studio delle opere degli autori italiani, alla lettura di quelle scritture latine, e in particolare delle odi di Orazio, che per la loro organica conformazione meglio si prestano ad una lettura di tipo strutturale.
Ma prima di passare all’analisi dei livelli è opportuno contestualizzare il testo, fornendo qualche notizia sul componimento da noi prescelto che, come si è detto precedentemente, è il brano proemiale della silloge del primo gruppo delle odi, pubblicate in tre libri nell’anno 23 a.C.,(7) esso si pone a suggello dell’intera raccolta che si chiude con l’altra poesia ricordata: Exegi monumentum.
Che cosa hanno in comune questi due carmi? Le due liriche si richiamano non solo per il metro quasi a comporre una cornice, ma si legano soprattutto per il contenuto, giacché nell’una e nell’altra si parla della poesia, della funzione del poeta e delle sue aspirazioni. Sono queste le ragioni più evidenti che legano strettamente il carme proemiale del primo gruppo delle odi all’ultimo della serie.
Si è ritenuto per molto tempo, e forse erroneamente, che il carme proemiale fosse prima rispetto al resto della silloge. Occorre, probabilmente correggere questa impostazione in quanto tale lirica, pur trovandosi all’inizio e precedendo tutte le altre del gruppo, non è detto però che venga prima anche cronologicamente, come di norma accade al carme incipitario di ogni raccolta lirica. Questo ci consente di accennare ad un problema molto importante che è connesso con la lettura delle odi orazione: quello della loro successione cronologica, che non è detto sia sempre corrispondente alla loro dislocazione all’interno dell’opera dell’autore. Pertanto, analogamente a quanto accade in Catullo, per il quale non è sempre agevole determinare la successione dei brani lirici all’interno del suo liber, anche per Orazio risulta difficile in alcuni casi trovar una esatta corrispondenza fra la dislocazione spaziale dei componimenti e la loro successione temporale, a meno che non ci siano indicazioni storiche presenti nelle stesse liriche che ci consentono di datarle con una buona approssimazione: come accade ad esempio al carme “Nunc est bibendum, dove il riferimento alla battaglia di Azio ci permette di determinare con precisione la cronologia del componimento, che è sicuramente da riportare al tempo dello svolgimento di essa. Ma non è detto che si abbia sempre la stessa fortuna anche a proposito degli altri componimenti. Nel caso dei due documenti poetici presi in esame riteniamo che le cose probabilmente si siano svolte così: quasi certamente sia la dedica a Mecenate sia l’Exegi monumentum furono scritti nello stesso tempo, cosicché possiamo ritenere che con la prima ode, diretta a Mecenate, Orazio finge di rivolgersi al suo interlocutore chiedendogli protezione, anche se questa protezione è certo che egli l’avesse già avuta dal 39 in poi. Pertanto, per quanto nel 23 (tempo che coincide con la pubblicazione del primo nucleo dei Carmina) Orazio fosse già poeta augusteo fra i più celebrati, tuttavia ricorre alla finzione di chiedere al più potente uomo di Roma l’appoggio ed il sostegno necessari per raggiungere quei vertici della poesia lirica che egli aveva già toccato.
I primi tre libri delle odi sono posti in cornice proprio dal punto di vista della scelta metrica, in quanto sia la lirica iniziale sia quella finale sono entrambe in metri asclepiadei minori (8). Orazio ha scelto, a nostro modo di vedere, non a caso ma di proposito queste due strutture strofiche, che oltretutto sono le uniche della raccolta, collocando non senza ragione lo stesso metro all’inizio e alla fine del gruppo di liriche.
In verità occorre dire che il procedimento della “cornice metrica” non è originale non fosse altro perché prima di Orazio l’ha usato Catullo(9): si pensi al carme 51, che nella parte iniziale non è altro che un modello esso stesso di traduzione poetica di un celebre frammento di Saffo, ricordato come “carme della gelosia”. Esso come il carme rivolto a Furio ed Aurelio, che vengono invitati dal poeta di Verona di portare a Lesbia la parola fine, è scritto in strofe saffiche quasi per chiudere in cornice tutta la sua storia d’amore segnandone il momento iniziale e la dolorosa conclusione. Catullo nel suo liber usa metri saffici per descrivere il suo primo incontro con Lesbia, adotta lo stesso metro per darle l’ultimo saluto. Tale criterio della cornice metrica usata da Catullo ha ispirato evidentemente anche il poeta delle odi, il quale, pur con qualche necessaria variazione di contenuto, usa un procedimento analogo impiegando non casualmente, ma in modo significante, alcuni metri con preciso proposito.
Questo ci offre l’occasione per fornire qualche notizia sulla metrica e su alcune caratteristiche stilistiche della lirica di Orazio, sottolineando anche l’importanza del poeta di Venosa a questo proposito.
Si deve dire innanzitutto che Orazio non è un iniziatore dei procedimenti metrici utilizzati nella lirica, perché prima di lui, e subito dopo i Greci, vi sono stati i poeti nuovi, primo fra tutti Catullo a cui, come si è visto, certamente egli si è ispirato. Ma, per quanto Orazio non sia un iniziatore, tuttavia fa di tutto per essere anche originale nell’impiego metrico, perché, per esempio, quando egli decide di servirsi per la prima volta dell’esametro si sforza di non ricalcare il modello sublime, quello classico e paludato dell’epica, ma mette a punto un metro che non può non tener conto anche del suo proposito di fondere nel genere diverso della satira la lingua letteraria con quella quotidiana. È questo un principio che potremmo far valere per tutta la metrica oraziana: egli, pur imitando i suoi predecessori, si costituisce i metri di volta in volta e secondo le circostanze letterarie. In questo Orazio non è solo grandemente originale, ma ha fondato un canone di sicura durata storica che solo la rivoluzione romantica cercherà con qualche successo di scalzare.
Venendo alla divisione sequenziale del carme, notiamo che sono state suggerite diverse ripartizioni di esso da parte degli interpreti: c’è chi lo divide in due parti, come fa il Pascoli, che ripartisce gli exempla in due grandi sezioni di 16 versi ognuno (v. 3-18 e v. 19-34); D’Arbela propone di dividere i quadretti delle umane attività in tre gruppi (v. 3-10; v.11-18; v. 19-28), contrapposti tutti insieme all’attività prediletta del poeta; Cupaiuolo (cfr. Lettura di Orazio lirico) ne fornisce un’altra interpretazione, individuando 6 nuclei tematici secondo un tale schema: 2+ 6+ 6+ 4 + 4 + 6 + 6 + 2.
Noi diamo ragione al Wilamovitz, il quale ha suggerito la seguente divisione delle parti : 2 + 6 + 10 + 10 + 6 + 2; che ci sembra la più attendibile in quanto, oltre ad essere suffragata dall’autorità del grande filologo, fa risaltare meglio la struttura armonica e simmetrica del componimento.(10)
Il poeta contrappone nell’ode quattro tipi di vita riferiti esemplarmente a quattro personaggi sociali: il filòdoxos (chi ama la gloria, impersonato nell’auriga sollevato ad deos per la vittoria, e il politico felice di essere innalzato nel foro ai trigemini onori), e il filocrèmatos (il latifondista, contento di nascondere nei suoi granai tutto ciò che si spazza dalle aie libiche, e il mercante che avendo avute le navi squassate dai venti ritorna in mare indocile di sopportare la povertà), e di contro a lui il filèdonos (figurato nell’epicureo gaudente con le membra distese sotto un cespuglio, viridi membra sub arbuto status, e disposto solo ad ascoltare il canto di una fonte sacra, e il soldato che ama le armi e il suono della tromba di guerra misto al corno, lituo tubae permixtus sonitus, e nel cacciatore che, per inseguire una cerva, ha dimenticato la bella moglie, venator tenerae coniugis immemor) e il filòsofos che nell’idea degli antichi significava il poeta.
Al di là delle affermazioni di molti critici, i quali suggeriscono che qui Orazio si è limitato a contrapporre, senza scegliere, diversi bìoi, secondo noi le cose stanno in modo diverso, giacché egli in realtà ha già effettivamente scelto. L’esempio di un frammento di Saffo potrebbe guidarci: “Alcuni dicono che la cosa più bella sia una turba di cavalieri, altri di fanti, altri (una schiera) di navi, io invece ciò che si ama”.
Sappiamo che il nostro poeta era proclive ad amare, ma non con l’assoluto trasporto di Saffo, né tanto meno con quello di Catullo. Il suo senso della misura gli impediva di farsi travolgere dalla passione. Orazio amò gli uomini e le donne, ma tra i suoi amori certamente spicca il particolare amore dell’arte e della poesia. Per questo nella parte finale dell’ode dice: “Me pareggia agli dei l’edera, premio dei poeti; me distinguono dal volgo le fresche selve con le ninfe e con i satiri lievi di danze, fino a quando Euterpe non fa tacere il flauto e Polimnia intona la cetra di Lesbo”. E conclude, di nuovo rivolgendosi a Mecenate: “Che se mi metterai tra i lirici poeti con la mia testa toccherò le stelle”.
A parecchi moderni la chiusa della lirica è risultata un po’ faticosa a causa del tono magniloquente e per il pathos eccessivo che la domina; sicché alcuni hanno scorto a questo punto, accanto alla profonda serietà, un tono inferiore di tollerabile ironia: “Scopo innegabile è anche il tono ironico dell’ode, di un’ironia lieve e signorile (…) lievi caricature sono quelle del latifondista insaziabile, del mercante, del cacciatore; ma l’ironia non risparmia neppure l’uomo politico (…) Credo anche che al di sopra di questo gioco ironico il poeta non ponga neppure se stesso: scherzosa iperbole è il “dis miscent superis” e soprattutto il “sublimi feriam siderea vertice”(11).
È opera giusta effettuare un confronto con la prima satira:
Qui fit Maecenas, ut nemo quam sibi sortem
seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
contentus vivat, laudet diversa sequentes?
“Come accade, o Mecenate, che nessuno viva contento della sorte che o la sua scelta o il caso gli hanno posto innanzi, che invece ognuno crede felice chi segue una strada diversa”?
ma, non tanto per definire meglio l’ispirazione dell’ode che, a parte le questioni sollevate dai critici, è in sé ben definita, quanto piuttosto per inverare che l’uno e l’altro componimento derivano da fonti diatribiche; infatti nell’una e nell’altra si compongono una serie di immagini tratte dalla vita. Ma probabilmente è proprio l’obbligatorio confronto con il primitivo componimento, allestito dodici anni prima nel 35 a. C. dove Orazio passa in rassegna con polemica ironia la serie degli scontenti e le svariate vanità e stoltezze degli uomini, che ha indotto anche lettori autorevoli, quali Schröder, Arnaldi, oltre al già ricordato La Penna, ad insistere sulla presenza di una vena ironica nell’ode.
A dire il vero essa non è del tutto assente nel carme, ma è avvertibile solo in un punto e particolarmente nell’ultima immagine di vita, dove è descritto il cacciatore che, come dice Orazio: “rimane sotto il freddo cielo dimentico della tenera moglie”.Avvertiamo qui una certa suggestione da Catullo, che in un carme in metri priapei (XVII) si augura che dal ponte di Colonia, cui il carme è dedicato, venga precipitato uno scimunito del suo paese perché, pur avendo sposato una bella fanciulla nel fiore degli anni “viridissimo nupta flore puella” e più delicata di un tenero capretto, “et puella tenellulo delicatior haedo”, concedendole troppa libertà, invece di custodirla gelosamente, preferendole la caccia, la lascia divertire come le piace. Lo stupor di Catullo, in quanto lo stolto marito “nihil videt, nihil audit”, è pari alla meraviglia di Orazio di fronte al cacciatore, che resiste, “manet sub Iove frigido”, al freddo per la passione della caccia e che senza sentire il richiamo della calda e dolce intimità dell’amore lascia sola la tenera sposa. Se, come si è detto innanzi, Orazio non amò con il trasporto di Catullo, né tanto meno avrebbe mai accettato di logorarsi per un solo amore, è certo però che egli non lasciò mai sola una donna ad aspettarlo. Di fronte a quest’uomo consapevolmente “immemor” il poeta certamente sorride.
Ma il sorriso cessa, la velata ironia si smorza al termine del carme. La serietà del proposito del canto poetico è testimoniata dal puro entusiasmo bacchico di chi sogna di essere rapito nel bosco delle muse coronato di edera e circondato dalle ninfe e dai satiri del seguito del dio: tutte cose che servono a distinguere la nobilissima funzione del poeta dalle comuni aspirazioni del popolo (“secernunt populo”). Il mutamento di tono (indicato più innanzi dalla scelta del nome di “vate” per designare la qualifica poetica, che è nome latino, ma fa pensare anche a qualche cosa di greco ed in particolare a Pindaro) è testimoniato dal ritorno del pensiero del poeta a Mecenate. Dichiarando in tono serio e solenne (l’unico del resto corrispondente alla serietà del destinatario e alla natura del messaggio poetico) nella chiusa del canto la sua suprema, anzi l’unica sua vocazione, quella per la quale potrà essere considerato da Mecenate e dagli uomini che contano degno del “nome che più dura e più onora”, il poeta finisce col creare una divisione tra gli ultimi versi dell’ode (35-36) e i precedenti. Del resto il pronome “me”, in forte rilievo all’inizio del v.29 e ripetuto in anafora nel verso seguente, serve col successivo “secernunt” ad accentuare il distacco che il poeta intende frapporre tra le volgari aspirazioni degli altri e l’aspirazione alla gloria poetica, la più nobile e la più alta di tutte.
Orazio qui non vuol dire, come sostiene Herder, parafrasando le intenzioni del poeta: “Se ciascuno a suo modo farnetica, perché non dovrei farneticare a modo mio? Mi si lasci la felicità, che un paio di ramoscelli sulla fronte mi trapiantino fra gli dei nella mia immaginazione” (12); ma al contrario egli vuole seriamente ribadire il proposito di essere annoverato tra i lirici poeti.E questo avrà la certezza di accadere solo se l’altissimo Mecenate “atavis edite regibus” e dolce suo ornamento “dulce decus meum” gli fornirà quella difesa senza la quale non gli è dato entrare nel coro dei poeti, né di provare la gioia dell’ultima conquista “sublimi feriam sidera vertice”.
Pertanto non mi sembrano del tutto accettabili le seguenti argomentazioni a commento dell’ultima parte dell’ode formulate da La Penna, il quale non ha espresso un giudizio favorevole su questo componimento come su tutta la poesia civile di Orazio: “Che sia inserito fra i vati, potrà accadere per una benevolenza, quasi insperata concessione del potente amico: ma tale pretesa egli non ha e, forse, nella sua intima saggezza, nemmeno si cura di tali ambizioni”(13).
A dire il vero La Penna non è il solo a proporre una lettura riduttiva dell’ode, anche altri commentatori, come ad esempio Arnaldi, hanno visto nell’ I, 1 un carme troppo ufficiale, caratterizzato da un’ostentazione delle forme della sublimità e, soprattutto nella chiusa finale, come si è detto, una nota ironica troppo evidente, sottolineata particolarmente dallo stesso La Penna. L’illustre critico, a parer nostro, insiste troppo sul dato dell’ironia, che si sforza di vedere anche nella chiusa: “Io credo che il poeta guardi con lieve finissima ironia tutti i generi di vita, compresi il proprio” (14). E non mi pare sufficiente che egli poi aggiunga che “ è ironia che non vuole distruggere, anzi accetta la vita nella sua varietà” (15).
Tale impostazione non ci trova certamente d’accordo, in quanto siamo convinti che se ironia vi è nel carme essa è da ricercare altrove, come si è visto, e non può trovarsi certamente alla fine, dove al contrario il poeta eleva il tono proprio perché si rivolge di nuovo a Mecenate in modo solenne.
Il fatto è che in quest’ode, che anche al Pasquali parve originale, noi scarsamente scorgiamo un atteggiamento ironico del poeta, in specie nell’ultima parte, che anzi serve a sottolineare la serietà del rapporto tra un aspirante grande poeta e il suo protettore.
Horati Flacci ut mei esto memor
È evidente che, inserendo una nota satirica proprio nella chiusa, la parte più solenne del carme, Orazio avrebbe corso il rischio sia di banalizzare il mestiere del poeta, il più nobile di tutti, sia di mancare di rispetto a chi, considerando esclusivamente i suoi meriti, lo aveva accolto nel Circolo che egli stesso aveva creato. Infatti era stato proprio Mecenate che, per compensarlo della perdita degli averi paterni, gli aveva offerto la villa sabina, ragione prima di una nuova ed insperata prosperità che succedeva alle sue precedenti disgrazie, e che, apprezzando le doti umane e artistiche del poeta, gli aveva offerto il dono più bello della sua amicizia.
Questo legame, sicuramente condiviso e così forte è suffragato dal fatto che morranno l’uno dopo l’altro a pochi mesi di distanza, sicché la loro scomparsa fa pensare quasi ad una morte richiamata. Lo stesso Mecenate, come testimonia anche Svetonio, sul letto di morte aveva raccomandato in modo filiale il poeta ad Augusto con le seguenti parole che suonano come un testamento: “Horati Flacci ut mei esto memor” “Ricordati di Orazio Flacco come di me stesso”. Questo aveva voluto intendere: “Fa in modo di trattarlo come facevi con me”. Sta di fatto che alcuni mesi dopo anche Orazio moriva e la sua morte, se proprio non fu dovuta al dolore per la perdita dell’amico nobilissimo, essa dovette toccarlo non poco contribuendo sicuramente a guastargli gli ultimi momenti della vita.
Ma, se non v’è dubbio che si trattò di un’ amicizia autentica e storicamente certa, resta tuttavia da chiarire meglio la natura di questo legame. Di che amicizia si trattò? Essa fu certamente un’amicizia rispettosa, non diversa da quella che ad un certo punto unì Orazio ad Ottaviano, del quale il poeta, a partire dalla vittoria aziaca, aveva cantato le imprese, riconoscendogli inoltre il merito di aver fatto di Roma una città di marmi dopo averla ricevuta di mattoni. Ma, al di là della ufficialità, dopo che Augusto ebbe la possibilità di conoscere meglio Orazio, (e questo accadde dopo la pubblicazione del primo libro delle odi) la conoscenza si mutò in amicizia cordiale, testimoniata da alcune lettere che l’imperatore inviò al poeta nelle quali, scherzando piacevolmente con lui, si rammaricava che l’opera di Orazio diretta a lui (Le Epistole), malgrado l’impegno, non fosse più estesa della sua persona: “Potrai scrivere nel formato di un piccolo sestario, così che la circonferenza del volume da te composto sia alquanto imponente com’è quella della tua pancetta”(16).
Queste cose servono bene a testimoniare la complessità del poeta di Venosa e ad indicarci come il suo animo fosse incerto fra il desiderio di grandezza e il bisogno di intimità, come risulta anche dalla sua poetica che appare oscillante tra l’idea di un’arte affidata alla tenuis Camena e le tentazioni della poesia civile tendente al sublime.
Si dirà, pertanto, che il legame di amicizia che legò Orazio a Mecenate, per quanto non siano mancati momenti di scherzosa e confidente intimità, non dovette essere molto diverso da quello che lo unì all’imperatore. Non si trattò, infatti, di un’amicizia qualsiasi, come quella che in genere strige gli amici normali, ma Mecenate fu, come Augusto, un amico speciale, cioè un amico che gli rendeva il rispetto dall’alto della sua supremazia, senza lasciandogliela pesare e trattandolo, comunque, alla pari. Orazio, pertanto, pur godendo di questo non comune favore che gli viene riservato, sa che non può permettersi il lusso di mettersi allo stesso livello di un tale personaggio.
Lucidus ordo
Con particolare riferimento all’ultima parte dell’ode che apre la raccolta, diremo per concludere che non vi può essere al termine alcuna ironia, in quanto basta solo il nome di Mecenate perché Orazio debba assumere il tono della sublimità. È proprio quel che accade nel carme in questione nel quale un particolare rilievo hanno i due versi iniziali, sui quali è necessario insistere nella nostra analisi, analogamente a quelli terminali (v. 29-36), che per la loro particolare importanza hanno ricevuto una speciale attenzione da parte del poeta, sia per la loro funzione strutturante di cornice sia perché Orazio, più di quanto non abbia fatto con l’elencazione dei quadretti nella digressiva parte centrale, ha consegnato ad essi il suo fondamentale messaggio.
Nel primo verso (Maecenas atavis edite regibus, ) il nome di Mecenate è posto espressamente da Orazio in speciale evidenza all’inizio del carme, (seguito successivamente da attributi particolarmente significativi:come quell’atavis, che significa uno che discende per linea diretta al quinto grado da una famiglia regale) messo in maggior risalto del vocativo edite che nella traduzione lo precede: “O Mecenate discendente da antenati che furono re”.
L’inizio del secondo verso (o et presidium et dulce decus meum!) apparentemente potrebbe far pensare ad una sinalefe, ad una lettura più attenta rivela invece che non è presente nel gruppo o et alcuna elisione, ma il poeta vi ha posto subito all’inizio un iato per stabilire volutamente una pausa tra il primo verso, straordinariamente celebratore, che insiste sulle origini regali di Mecenate, e le parti successive del carme in cui sono descritti i diversi modelli di vita. Il lettore deve sapere, deve pensare a questa grandezza, deve fermarsi (o et); poi vengono altri attributi, presidium, dulce decus meum, che, pur essendo meno altisonanti, servono comunque a sottolineare una sfera privata e personale di rapporti. Infatti, se il primo termine, presidium, è già una parola chiave che nella sua pregnanza militare evidentemente vuole indicare quella difesa e protezione che Orazio ha ricevuto dal suo protettore in un momento particolarmente difficile della sua esistenza (si ricordi a questo proposito la seguente ammissione del poeta contenuta in una delle sue Epistole: Paupertas impulit ut versus facerem), l’espressione dulce decus, (dove in senso metrico v’è da sottolineare inoltre il fenomeno dell’allitterazione, che è frequentissimo in Orazio, e in senso lessicale l’espressiva scelta di dulce, termine appartenente al linguaggio familiare) serve a chiarire la natura particolare del legame che unisce il poeta a Mecenate: un rapporto di rispetto e deferenza da un lato, ma anche di grande familiarità ed amicizia. Ciò è sottolineato anche in modo più evidente dal meum, col quale il secondo verso si chiude, che con l’ iperbato serve a porre in luce particolare il dulce decus. È questo verso un esempio di lucidus ordo, in quanto qui Orazio si preoccupa di effettuare un specifica e particolare scelta di una o più parole, che vengono illuminate ed illustrate da altre parole o forme di discorso. Ma prima parlare della struttura sintattica delle odi è il caso di soffermarsi un po’ sulla natura del lessico oraziano.
Neanche per il lessico il poeta augusteo viene meno alla regola di ricercare di volta in volta le parole secondo le diverse necessità. Un tal modo di procedere artistico ci impedisce, come si fa ad esempio per altri scrittori, di parlare generalmente di un unico lessico oraziano, in quanto, ove si prendano in esame le sue opere, si impone una distinzione tra l’Orazio delle odi e quello delle altre opere nella loro storica successione. È chiaro che il lessico degli Epodi, pur con tutta la sua letterarietà, risente in alcuni casi, se non proprio della durezza del sermo plebeius, certamente del sermo cotidianus; qui anche il linguaggio come il metro ha alcunché di duro e stentato, come i giambi di Archiloco o di Ipponatte. Nelle Satire, che con altro nome vengono definite Sermones, (ciò che si detto per la metrica vale anche per il lessico) il poeta facendo registrare un primo superamento della insistita rudezza degli epodi, si sforza di arrivare ad un linguaggio letterario che stia a mezza strada fra la lingua poetica e il sermo cotidianus. Nelle Odi, infine, che risentono non più dell’imitazione dei poeti giambici, ma innanzitutto di quella di Alceo, o addirittura di Pindaro nei casi della sua poesia più impegnata, lo stile di Orazio, oscilla fra il linguaggio semplice e quello della più pura ed alta letterarietà, per tornare poi, con le Epistole (senza smettere, comunque, i già sperimentati valori lirici) ai toni più colloquiali delle Satire,
Per questo bisogna fare attenzione quando si parla delle qualità stilistiche del poeta augusteo, e in particolare della cosiddetta semplicità delle odi che non devono far pensare mai ad una poesia disadorna, ma ad un unico originale modello artistico nel quale la semplicità del linguaggio non è mai disgiunta da una straordinaria eleganza. Per qualificare nel migliore dei modi un tale mirabile connubio di semplicità e raffinatezza niente è più adatto del simplex munditiis dell’ode dedicata a Pirra, callida iunctura che serve a qualificare una bellezza, fatta contemporaneamente di grazia e di cose che si vedono, ma anche di cose semplici che non richiedono alcun aggiunta o artifizio.
Si dirà in conclusione che lucidus ordo e callida iunctura sono le espressioni ricorrenti che servono a qualificare nel migliore dei modi non solo la sintassi, ma anche le complessive caratteristiche stilistiche delle odi. Proprio per questo esse meritano di essere brevemente chiarite: il lucidus ordo è l’effetto finale che nasce dal modo come Orazio colloca gli elementi nel verso, i quali non vengono qui disposti con intento elusivamente poetico-letterario, ma direi con intenzione architettonica, come giustamente suggerisce La Penna, che per designare lo stile classico delle odi di Orazio ha parlato di “limpide architetture”, lasciando intendere che la costruzione poetica dei Carmina fa pensare ad una costruzione di tipo rinascimentale, come la cupola del Brunelleschi. Certamente niente altro potrebbe per analogia qualificare meglio la più compiuta opera del poeta augusteo, che è caratterizzata contemporaneamente da una straordinaria armonia congiunta ad un eccezionale dinamismo. Il miracoloso equilibrio di tali costruzioni così ben fatte e perfette è proprio il risultato prodotto dal procedimento sintattico del lucidus ordo.
L’altra modalità stilistica che spiega il miracolo stilistico dell’architettura delle odi oraziane è la callida iunctura, che consiste nel legame non comune che il poeta stabilisce fra due parti del discorso, generalmente l’aggettivo e il sostantivo. Vi sono diversi modi per legarli fra di loro, il più semplice è quello di ricercare aggettivi che abbiano un esclusivo valore esornativo, come si fa anche nel discorso usuale. Ma questo non è certamente il procedimento seguito da Orazio. Lo dimostra il fatto che nelle sue odi l’aggettivo è quasi mai esornativo, inoltre, egli non utilizza mai il superlativo per indicare la grandezza o le misure ineguali, in quanto preferisce, ad esempio, adottare prima di esso parole estese, come fa Leopardi che nell’ Infinito usa tutt’ al più l’aggettivo lungo: interminati spazi… sovrumani silenzi…prima di ricorrere al superlativo: profondissima quiete nel quale il valore intensivo è eccezionalmente associato a quello estensivo (17). Anche Orazio talvolta adotta il criterio di accostare ad un sostantivo aggettivi che siano più estesi di esso. È questo un esempio di ricercata iunctura, cioè di un legame non qualsiasi, ma particolare che si stabilisce fra due parti del discorso che vengono accostate per ricercare una speciale suggestione poetica, come accade al celebre “simplex munditiis” dell’ ode a Pirra, che serve a qualificare con un’immagine particolarmente ricercata la stessa natura semplice, elegante ed armonica della lirica oraziana.
Due sono le cose che, secondo noi, che, qualificandola, rendono unica e sovrana la poesia di Orazio: la sapienza tecnica e il profondo senso dell’arte. Forte di questo saldo possesso, il poeta augusteo si preoccupò di risolvere un problema che prima di lui si erano posti sia Catullo che i neoteroi: quello di arrivare a rifare perfettamente i metri greci utilizzando la lingua latina. Egli, pur partendo da umili e faticosi principi, proprio dopo aver composto il primo nucleo delle odi, si convinse di aver conseguito tale difficile risultato, come testimonia l’ultima strofe del carme conclusivo della prima raccolta, dove egli dice: ex humili potens, / princeps aeolium carmen ad italos / deduxisse modos. Sume superbiam. “Sii orgoglioso” – dice non a caso alla fine di quel componimento- “di aver trasferito nella lingua latina i metri dei lirici greci”. Il vanto di Orazio è legittimo, egli sarebbe decimo fra cotanto senno, se vogliamo rubare l’espressione al poeta; egli anche se non lo dice ci fa intendere di voler essere ritenuto il decimo della schiera dei più alti autori lirici della storia arrivati fino a lui. Chi sono questi poeti? Per saperlo occorre rifarsi al cosiddetto dei nove fissato dagli alessandrini i quali avevano individuato i vertici del genere lirico nell’opera di Pindaro, Alceo, Saffo, Stesicoro, Ibico, Bacchilide, Simonide, Alcmane e Anacreonte Archiloco. Così ora intendiamo meglio perché nell’altra ode, quella che chiude la prima raccolta, il poeta sa e prevede di aver innalzato per sé con i suoi versi un monumento più durevole del bronzo, perché, sebbene fosse certo che tutto ha termine, noi e le cose, il canto del poeta è destinato comunque sempre a durare. Per questo, Orazio, signore della poesia, ha ripagato i suoi lettori di una moneta che battono soltanto i suoi pari: l’immortalità.
Note
1) Cfr., Che cos’è un classico, Paris 1850
2) ORAZIO, Carmina, III, 16, vv., 17-32.
3) Per le problematiche relative al tradurre: M. FAGGELLA, Teoria e pratica della traduzione latina, in “Laboratorio” Anno III, N. 1/2 luglio 2003, pp. 51 sgg.
4) E. D’ARBELA, Carmina Horatiana, Introduzione e commento, Milano 1981, p. 39
5) G. PASQUALI, Orazio lirico, p. 748.
6) Esemplare l’analisi dell’ode I, 1 condotta da A. GHISELLI nel suo: Saggio di analisi formale, Bologna 1983
7) Successivamente il poeta completerà la raccolta nel 15 a.C. col quarto libro delle cosiddette “Odi civili”, che si distinguono dalle precedenti principalmente sia per la natura diversa del contenuto, sia per la poetica: non è più l’Orazio della tenuis Camena, che vuole fare una poesia leggera, sintetica, luminosa, caratterizzata dal lucidus ordo, ma l’Orazio sublime; non è più Alceo il suo modello fondamentale, quello che egli vuole imitare, ma Pindaro. Col libro quarto, pertanto, la poetica oraziana muta di registro, ora il problema di Orazio sarà principalmente quello di accordare la tenuis Camena con la musa sublime, l’ altisonante poesia civile.
8) L’asclepiadeo minore, sistema monastico, ricava il suo nome direttamente da Asclepiade, poeta alessandrino non oscuro, e forse più noto per aver dato il suo nome al metro qui adottato da Orazio che ha la seguente struttura: nella prima parte esso è del tutto simile all’emistichio di un pentametro (ma senza la possibilità della sostituzione nella prima e nella seconda sede), il cui termine è analogamente segnato da una cesura pentemimera, seguita da un dattilo e da un trocheo, rispettivamente nella quarta e nella quinta sede, mentre l’ultimo piede è ancipite, catalettico come il terzo e preferibilmente accentato
9) Questo criterio della disposizio metrica è stato suggerito a Catullo, come a tutti i poetae novi, dai grammatici alessandrini. Anche Orazio evidentemente se ne attiene, indicando con ciò di voler seguire la lezione neoterica
10) L’accettazione di uno schema siffatto non deve, tuttavia, far pensare ad una rigida divisione delle parti. Siamo consapevoli, anche per le lezioni che ci vengono dalla critica filologica, ed in particolare dal Pasquali, che qui il poeta, fedele al principio della imitatio, dimostra di aver preso a modello la tecnica compositiva della lirica greca arcaica, presente già in Esiodo. Infatti Orazio costruisce qui un organismo poetico bilanciato, nel quale i momenti di passaggio sono da individuare non tanto nelle architetture sintattiche o strofiche, quanto piuttosto nel particolare raggruppamento seriale delle immagini, disposte insieme per analogia o per contrasto. Tuttavia Orazio, pur riprendendo il modello della disposizione a serie delle immagini della lirica arcaica, dimostra di non fermarsi alla semplice imitazione, ma liberamente utilizza e personalizza lo schema stesso, creando una struttura poetica insieme dinamica e perfettamente equilibrata, con l’alternanza di criteri associativi o antitetici. Tutto ciò contribuisce certamente a far superare l’idea di un’immobile o forzata divisione delle parti del carme.Tralascio la dimostrazione di tale assunto e l’elencazione degli esempi perché ritengo che qualsiasi lettore discretamente esercitato sarebbe in grado di rendersi conto della particolare composizione dell’ode.
11) A. LA PENNA, Orazio e l’ideologia del Principato, Torino 1963, pp. 217- 219
12) J. G. HERDER, Über einige Horazische Rettungen, bei Düntzer Band 20, p.266
13) A. LA PENNA, ibidem
14) Sul tema dell’ironia La Penna ritorna anche nel suo: Orazio e la morale mondana europea, p.74
15) ibidem.
16) Traduzione di A. Ristagni
17) Per un’analisi dell’Infinito leopardiano, nel quale sono contenute simili considerazione critiche si consiglia la lettura del capitolo sesto del seguente saggio: M. FAGGELLA, L’Infinito leopardiano fra sensismo e religiosità, in Il nulla nominato, Finiguerra, 2002, p.101 sgg.
ottobre 2004
in didattica: |
|
dello stesso autore: |
|