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Memorie di un insegnante, sei.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Francesca Giusti è l’autrice di “Lettera di una professoressa“, apparsa nell’anno 1998 anche se appare oggi di una attualità straordinaria, e che nasce dal profondo di una esperienza scolastica vissuta. In un tempo come l’attuale nel quale il disagio degli insegnanti esplode anche nelle forme proprie di un malessere psicofisico e che in omaggio ad una inglesizzazione del linguaggio nazionale viene riconosciuto e definito come la “sindrome del burnout“, la lettura della sua piacevolissima prosa sposta la discussione su di orizzonti più ampi che si allargano sino alla organizzazione sociale e politica nelle società del ventunesimo secolo con le loro precarietà e le assenze di certezze per il futuro delle nuove generazioni.
Generazioni senza progetto, le si potrebbe di già definire. E terribile e dominante il tutto è la domanda di fondo della Giusti: “( … ) Se lo studio non serve a costruirsi una vita e non è nemmeno servito a cambiare il mondo, a che cosa potrebbe servire? ( … )“
“( … ) Come è possibile parlare di un lavoro amato, che ha dato vita, allegria, un ritorno culturale e affettivo e, al tempo stesso, accostarlo di continuo ad angoscia, schizofrenia, panico, desiderio di fuga? È colpa solo dei cattivi ministri e della politica scolastica del nostro paese? Nulla volendo togliere ad anni di incuria, danni e malgoverno e nulla volendo togliere neanche ai ministri, non è così. Non è solo da questo che nasce il nostro malessere più profondo. La sofferenza insostenibile (che questo sia chiaro o rimosso) è continuare a far scuola come quando questa assicurava un futuro, un lavoro a generazioni che non hanno più davanti a sé né l'uno né l'altro. È questa angoscia del non-progetto, del non-futuro che si riversa su di noi, impreparati, impotenti a gestirla.
Quasi tutti, forse persino i più giovani che lavorano nella scuola, siamo cresciuti all'interno di una dimensione del mondo proiettata al futuro. Educazione e scuola servivano a preparare e garantire questo futuro. Non a tutti.
Hai ragione, era quella appunto l'epoca di Barbiana, ma anche e persino nel tuo caso e in quello dei tuoi compagni, il futuro esisteva quanto meno sotto forma di continuazione coatta di una dura e sofferta condizione operaia o contadina. Se anche ne si voleva deviare il corso, era pur sempre al futuro che si guardava.
È rimasta solida e dura nella nostra generazione una convinzione, o un mito, per cui l'adolescenza è fatta per porre le basi di un tempo a venire che si configuri come un insieme di elementi rassicuranti nella loro continuità: un lavoro, una famiglia, una casa. Sappiamo che non funziona più, ma un vero delirio ci tiene aggrappati a questo modello. In realtà non sappiamo noi stessi intravedere un'alternativa. Se lo studio non serve a costruirsi una vita e non è nemmeno servito a cambiare il mondo, a che cosa potrebbe servire?
È qui il vero peso. Da qui deriva la tentazione di fuggire, di fare lo struzzo. Gli eserciti che vogliono andare in pensione.
L'assenza di futuro in tutte le sue manifestazioni. Può essere il vuoto o la noia nei vostri occhi. Può essere lo scorgere i segni embrionali, ma devastanti del nulla che si trasforma in disprezzo per le cose, per gli altri, per sé. Non sentite vostra la scuola; è con noncuranza che scrivete su banchi e su sedie, lasciando che un degrado a fatica arginato si riproponga di continuo. Ho visto qualcuno di voi, all'entrata o all'uscita, usare la sua moto in modo da farmi tremare. Qualche volta, fermi davanti alla scuola mi sembrate un muro d'incuranza contro cui ci si deve spingere a forza anche solo per passare. È lì che si resta sgomenti e si pensa a quale soglia ci sia ancora da varcare per quelle manifestazioni più estreme di cui il mondo ci rimanda notizia e ci si chiede se siano poi così lontane.
E non sono mai stata in una scuola di frontiera, come ce ne sono nella nostra città. Lì si combatte in trincea.
Quel non riuscirvi a trascinare più in niente, se non con una dose d'energia mostruosa, racimolata a fatica, che lascia esausti e che può sempre, in un attimo, infrangersi contro un muro di gomma. Qualcuno si arrende e contrappone indifferenza a indifferenza: laisser passer, laisser faire. Il prezzo è comunque pesante.
La terza regola vostra era: "Agli svogliati basta dargli uno scopo". Dei tre imperativi proposti è il più difficile da attuare. È qui soprattutto che l'impotenza ti leva il respiro. Il vostro scopo, a un primo livello, era un avanzamento sociale, poter scegliere il proprio lavoro, liberi da condizionamenti. Certi mestieri ne avrebbero guadagnato, gestiti da chi partiva da una realtà più dura, forse da sentimenti più sani. Ma lo scopo profondo era quella speranza in un mondo più giusto. Se quel mondo non si può costruire, ne restano comunque valori di eticità e rigore che, sebbene perdenti rispetto a un contesto sociale spietato, vanno comunque trasmessi.
Grande importanza davate voi stessi a un carattere autoremunerante della cultura, alla sua capacità di sviluppare la curiosità. Questo resta assolutamente importante. Non sappiamo cosa attende i nostri ragazzi, che genere di lavoro faranno. Forse si dovranno accontentare di poco. Attività saltuarie e precarie, umilianti e sottopagate saranno la norma almeno in alcuni periodi della vita futura, nonostante si cerchi di conferire qualche attrattiva a un'immagine di mobilità. Il conforto della cultura, un libro per essere altrove, la capacità di capire saranno certo assai poco, ma comunque daranno un po' di coraggio rispetto alla barbarie imperante.
Una schiera di donne insegnanti, calate profondamente nel loro ruolo primario di madri e di mogli, costantemente assai stanche (non si sa bene di che) e un tantino annoiate, oggi più che mai, pensa o si illude di concentrarsi sul proprio orticello, di reagire all'amarezza, chiudendosi nel proprio piccolo mondo. La pensione è diventata un diritto acquisito alla fuga precoce.
Ancora una volta, sono cattiva. Tutti siamo smarriti. Anch'io ho dovuto fermarmi, provare a tornare alla didattica per altre vie.
Era uno di quegli allucinanti giorni in cui occupavate la scuola. Avevo dato fondo ad ogni dote di pazienza e avevo pesantemente litigato con voi (non reggo l'ansia del non fare, lo so). Risposi precipitosamente di sì alla proposta di presentare un progetto per la biblioteca (che coltivavo da tempo, da quando nelle ore libere tra le lezioni cercavo di far riemergere da abissi di polvere e carte una discreta collezione di videocassette che si era accumulata negli anni). Se approvato, avrei ottenuto l'esonero. Chiesi in fretta soltanto se sarei potuta tornare indietro con facilità.
Sentii chiaro ad un tratto che in quegli anni avevo perso allegria. La modalità con cui vi chiedevo impegno e serietà era diventata ossessiva. Sentivo incombere una pesantezza che mai prima avevo provato.
I primi mesi sono stati di solitaria espiazione. Mediamente poco efficiente in ogni forma di lavoro manuale, mai ho tanto amato la fatica fisica che sciogliesse quel nodo di angoscia. Ho lavato per terra, fatto il facchino, sistemato casse di libri, cercando di costruire un luogo che avesse parvenza di calore e decoro. Voi della mia ultima classe siete venute un giorno ad aiutarmi. Vi guardavo al lavoro, munite di detersivi e di stracci, e pensavo che quella efficienza nella scuola non arriva a tradursi.
Poi, pian piano, ho potuto ricominciare a giocare in un ambiente diverso, tra tavoli veri e sedie, non quelle di scuola, ma rosse e imbottite. Ho sempre amato le immagini: qui potevo spaziare tra una diapositiva, un lucido, un film. Ne ho potuto persino sperimentare un accenno di trasformazione informatica.
Siete venuti a classi, oppure lavoravamo a piccoli gruppi: eravate "prestati", non miei, ma ho ritrovato il gusto di una lezione diversa, preparata con cura e in cui la tecnologia facesse da supporto, il divertimento di preparare una mostra o una ricerca. Finalmente per un poco non vi dovevo giudicare.
Ho coinvolto anche voi nel gioco che altrove avevo provato io stessa: trasformare i libri in persone. Avete letto e cercato di capire nell'attesa di un incontro diretto. Avete visto film in inglese, mi avete chiesto consigli per letture e ricerche.
Non sempre la vita riusciva a fluire, ma, in quel luogo sotterraneo e un po' freddo, umido assai (da vera discesa agli inferi) che è la nostra biblioteca, ho anche provato a ripensare, a ricostruire mentalmente, a riprendere i fili di quella lettera lontana. ( … )“
ottobre 2004
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