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Dell’educare.29
I bambini non hanno…
Aldo Ettore Quagliozzi
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La consapevolezza piena della natura dei problemi legati alla diffusione della cultura mediatica, oramai dilagante, rende l’operatività dell’educatore molto più mirata e consapevole ed al contempo meglio finalizzata per contrastarne gli effetti più nocivi innanzitutto sulla primissima infanzia e sulla preadolescenza.
Con ciò non si esclude che effetti alquanto perversi si possano manifestare anche nelle età successive al periodo scolare, stante l’allarme di sociologi e psicologi sulla perniciosità di alcuni messaggi, il più delle volte subliminali, sulle persone adulte.
La paginetta del nostro abbecedario è stata tratta da un lavoro del professore Umberto Galimberti che, con il suo scrivere semplice ed altamente divulgativo, sviluppava l’argomento sul quotidiano “la Repubblica“ del giorno 1 marzo dell’anno 2000.
Da allora tanta acqua è di certo passata sotto i famosi ponti e la situazione, almeno nel nostro paese, ha segnato sicuramente una evoluzione a dir poco allarmante, stante la commercializzazione di tutte le fonti mediatiche che affollano l’etere del Bel paese.
Nella prosa essenziale dell’autore viene fatta risaltare l’estraenità alla cultura dei recenti mass-media della pratica pedagogica del “parlare“, pratica della quale la scuola dovrebbe impadronirsi al fine di potenziare efficacemente due importantissime peculiarità proprie dell’arte di educare, ovvero la riflessione e la sana e corretta elaborazione.
“(...) I bambini non hanno molti strumenti di mediazione mentale, i bambini imitano e bevono la cultura che li circonda e in cui sono immersi.
(...) ... (agiscono) esclusivamente in base a quel che si è visto, e allora ciò significa che nella cultura americana, e temo tra non molto in quella europea, si vedono troppe questioni risolte con la rapidità di un gesto violento, invece che con la faticosa mediazione della parola.
Ma per “parlare” ci vuole un’altra cultura, quella che la televisione non trasmette perché non fa auditel, quella che la scuola fa fatica a trasmettere per la sua scarsa capacità a coinvolgere, quella che in famiglia stenta a farsi strada, perché fuori casa funziona una logica aggressiva che fa apparire la buona convivenza che si insegna in famiglia come una chiacchiera patetica. E perché non c’è più luogo in cui sia reperibile un’educazione delle emozioni, e tutti sappiamo che la violenza è un corto circuito dell’emozione che non rintraccia più un legame anche tenue con la riflessione e l’elaborazione. ( … )“
settembre 2004
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