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Memorie di un insegnante, uno.
Aldo Ettore Quagliozzi
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E’ ragionevole proporre di seguito una scrittura così dissacrante come è quella di Domenico Starnone nel suo lavoro “Occorre altro“, come spunto per una riflessione sulla condizione degli insegnanti e della scuola italiana?
Ci vuole un sano, forte e consapevole coraggio per soffermarsi a leggere la splendida prosa di Starnone e nel contempo porsi domande inevitabili:
- Ma con la scuola descritta da Starnone ho avuto a che fare anche io, o essa non mi appartiene?
- E se le cose scritte da Starnone non sono estranee alla mia personale esperienza, come è stato possibile sopravvivere ad una situazione così dissacrante della istituzione stessa ed al contempo così mortificante sul piano della professionalità e dell’impegno?
- E come è possibile rivendicare una considerazione sociale diversa, allorquando è mancato il coraggio, o più semplicemente il senso civico, di rifiutare e ribaltare situazioni così estreme e, di sicuro, di pratica diffusa all’interno di una istituzione così importante e necessaria per la crescita democratica delle giovani generazioni e della società nel suo complesso?
A queste domande sarebbe necessario dare serene e sensate risposte, a meno che la situazione descritta da Starnone non rappresenti solo un fatto unico, marginale e di auto-esclusione dal contesto di una grande oasi di pace e benessere, all’interno della quale nulla merita di essere posto sotto attenta e critica osservazione da parte dei protagonisti principali, ovvero gli insegnanti.
“Per quanto mi sforzi, non riesco a chiarirmi che tipo di insegnante sono stato. Sicuramente non sono stato sempre lo stesso.
( … ) … sono andato a zigzag: ligio esecutore dei programmi ministeriali; innovatore a tutti i costi; fautore della creatività e dell'estro; contestatore dei metodi di valutazione a cui la ritualità scolastica obbliga; sostenitore della programmazione più puntigliosa; insofferente della lezione ex cathedra, dell'aula, del banco; eccetera eccetera eccetera. Ma -dico in tutta onestà- nessun anno scolastico si è chiuso con un bilancio veramente positivo. Alcuni periodi sono stati più felici di altri, questo si. Ma anche in quelle fortunate occasioni -forse soprattutto in quelle fortunate occasioni- ho avuto l'impressione che la felicità di insegnare fosse andata sprecata.
( … ) Così, in tutti questi anni -in quelli del mio maggiore impegno nella scuola, in quelli in cui mi sono limitato a fare il mio lavoro senza troppe pretese- ho finito sempre per ammettere, almeno con me stesso (con gli altri certe volte sostenevo che tutto andava per il meglio), che c'era qualcosa di essenziale che non aveva funzionato. L'inceppo più grosso era quasi sempre il seguente: in qualsiasi modo facessi il mio lavoro, sciattamente o con immaginazione e impegno, esso raggiungeva soprattutto coloro che avevano già una 'forma prescolare' pronta ad accoglierne i frutti; mentre scalfiva appena la superficie di coloro che, vuoi per svantaggi dovuti all'origine sociale, vuoi per certe loro svagatezze o debolezze, a me, alle cose che mi appassionavano, risultavano costituzionalmente estranei. Naturalmente erano i più ed erano quelli che avevano più bisogno di me. Lo sapevo, mi ci accanivo, cercavo di tirarli dalla mia parte, registravo -questo sì- sempre qualche progresso; ma mai un salto netto, una metamorfosi risolutiva. "Pazienza" dicevo alla fine e mi consolavo coi pochi -sempre troppo pochi- che mi davano soddisfazione.
All'inizio scrivevo relazioni di fine d'anno ipercritiche. I risultati -sottolineavo- sono questi: ho sbagliato qui, ho sbagliato lì, manca questo, manca quello. Forse mi aspettavo che il preside dicesse: Ehilà, roba interessante. Chi è questo Starnone? Quel ragazzo nuovo? Trasmettiamo subito tutto al provveditore. E il provveditore: Ehilà, roba dura, un vero campanello d'allarme. Su, rimbocchiamoci le maniche e vediamo di capire cosa vuole questo giovane. Anzi: informiamo anche il ministro. Il ministro: Ehilà, ecco finalmente uno che prende molto sul serio il suo lavoro. Ispettore, vada subito a Viggiano e cerchi di capire quali sono le difficoltà che incontra questo bravo giovane.
Forse mi immaginavo che potesse accadere così. O forse, più semplicemente, pensavo che le relazioni di fine anno dovessero essere bilanci seri, fuori dai denti, spietate (innanzitutto con se stessi, in modo che l'anno seguente, dopo ampia discussione collegiale, si partisse dagli errori individuati e si facesse meglio tutti. Capii presto che ero fuori dal mondo: sicuramente fuori dal mondo scolastico. Il primo preside nelle cui grinfie finii si occupò di me solo per minacciarmi, in quanto avevo la febbre alta ed ero costretto a interrompere la supplenza che mi era stata assegnata (Lei non avrà mai più una supplenza. Se lo ricordi. Se so che sta abbandonando questa sede perché ha modo di occuparne una più comoda, io la perseguiterò e la rovinerò per sempre). Il secondo compariva raramente (lavoravo in una sezione staccata, era troppo faticoso comparire spesso): le volte che veniva vigilava sul mio registro, sulla giusta grafia e collocazione della A delle assenze nelle caselle, sulla lunghezza (non sui contenuti) dei giudizi formulati per i compiti scritti; poi si dava al vino buono, al pecorino. Il terzo preside, a cui dissi una volta che avrei abbandonato la scuola quando non avessi più provato piacere a insegnare, mi rispose: Lei è pagato per lavorare, non per divertirsi. Il quarto preside invece obiettava a chiunque volesse fargli perdere tempo e fiato: Professore, non facciamo poesia. A me lo diceva un giorno sì e uno no. Qui mi fermo. La scuola com'è non è pensata per la ricerca del meglio.
( … ) Nessuno, in tutti questi anni, se si esclude qualche tensione di lieve entità con un preside o due, ha mai ficcato il naso nel mio lavoro. Ho lavorato tirando avanti per conto mio. Non è mai accaduto che l'attività didattica avesse una programmazione (non dico il piano di lavoro, atto burocratico che si consegna in presidenza a inizio anno scolastico e nessuno legge, ma una cosa tipo: voglio che i ragazzi, sulla base di questo, sappiano alla fine fare quest'altro), un'impostazione e una verifica collegiale. D'altra parte, se fosse accaduto, dubito che sarei riuscito a lavorare collegialmente, visto che un'altra caratteristica dell'insegnante italiano è l'incapacità di far parte seriamente di un gruppo di lavoro.
Malgrado gli insuccessi didattici a cui ho accennato, non ho mai bocciato nessuno. Questo, lo so, depone contro di me, più di molte altre cose. Secondo una mentalità diffusa, ma anche secondo certa letteratura scientifica di prestigio, chi non boccia è un insegnante scarsamente affidabile. Il numero delle bocciature, infatti, nella nostra scuola è una sorta di esibizione di titoli. Serve a gettare fumo negli occhi: se li boccio, vuol dire che sono bravo; bravura la cui prova del nove sta in quelli che ho promosso. E poi come la mettiamo con il bisogno di responsabilizzare i giovani?
Non so. La verità è che ho sentito sempre un disagio estremo verso la valutazione. Non era la valutazione in sé che mi disturbava: mi formavo opinioni estremamente dettagliate sui singoli alunni, sulle difficoltà che incontravano, su come le affrontavano, dove cedevano, perché. La mia era piuttosto vera e propria ripugnanza per la traduzione di quelle opinioni in classifica, in graduatoria, in punizione o premio.
( … ) Ritorno a sfogliare le mie fotocopie. Che dire? Ho insegnato e insegno in una scuola in cui 'gli strumenti di verifica e valutazione sono ancora le vecchie interrogazioni, non molto diverse da quelle di cui raccontava Breccia quarant'anni fa (le schede fatte di lettere dell'alfabeto e di raffinati e articolati 'giudizi' cambiano poco o niente, se la cultura della valutazione resta sostanzialmente la stessa). Ho insegnato e insegno in una scuola in cui lo scrutinio finale è rimasto uguale a come lo raccontava Provenzal: sgocciolio di numeri (voti e assenze); e prototipi di insegnanti di questo tipo: Avevo dato l'anima mia alla scolaresca affidatami: avevo corretto coscienziosamente cinque o sei centinaia di compiti, non ero mancato dalla scuola ma mai, neppure un giorno, e mi sentivo il diritto di riprovare i pochi che non avevano tratto profitto dal mio appassionato lavoro: invece il collega che mi stava di fronte, uno sbuccione che faceva scuola, sì e no, una volta la settimana e poi regalava nove e dieci a tutto spiano, mi diceva: 'E promuovili! ma che te ne importa?'.
Minime le variazioni nel tempo: oggi, a volte, gli insegnanti che sgobbano di più, bocciano di meno; e, a volte insegnanti che non sgobbano affatto bocciano moltissimo. Ma la prassi vigente resta quella annotata un'ottantina di anni fa: Se Tizio è promosso nel disegno, lo promuoveremo anche nella ginnastica; se il componimento è fatto bene, gli daremo l'approvazione anche nell'agraria. Invece 'Cade in geografia? E allora facciamolo precipitare anche in istoria. È ruzzolato in matematica? È buttato giù anche in italiano dove aveva un punto interrogativo!'.
Vantaggio, insomma, che genera vantaggio; o difficoltà che genera difficoltà. La valutazione degli insegnanti, proprio perché aleatoria, umorale, confutabilissima, si muove oggi proprio in questa direzione. Con abbagli molto frequenti, tipo quello che figura in un romanzo del 1909, Ribellione di Pietro Micheli, dove ci si imbatte in un insegnante di storia naturale, il professor Prato, che non osava prendersela con gli studenti più agguerriti e, "siccome una promozione generale sarebbe stata scandalosa, (...) ogni anno bocciava qualcuno del mansueto gregge". Una volta il pavido professore di storia naturale si imbatté in "una specie di sciocco, zimbello di tutti i suoi compagni" che "negli esami fu bocciato in quasi tutte le materie: quell'anno il prof. Prato, non sapendo scegliere le sue vittime (...), nonostante le risposte soddisfacenti, pensò: una materia in più; una in meno non gli farà impressione; e lo bocciò anche lui". Non s'era accorto che la specie di sciocco "aveva una passione straordinaria per la storia naturale: aveva in casa sua una raccolta d'insetti, imbalsamava uccelli e mostrava non solo amore ma vera attitudine a quel genere di studi". Conseguenza: il ragazzo diede di matto, si armò di rivoltella e sparò due colpi nelle natiche del professore. […]
Tempo fa ho conosciuto Rosa Limongelli, una collega che aveva partecipato per un po' di tempo a non so qual sperimentazione didattica in una scuola del centro. Ho ancora nelle orecchie il tono nostalgico con cui parlava di quel periodo 'bellissimo' della sua esperienza lavorativa. E non ho mai capito se quella memoria l'aiutava a lavorare meglio nella scuola di tutti i giorni o piuttosto la faceva sentire come una che assiste giorno dietro giorno al degrado delle sue competenze e della sua intelligenza.
R.L. Che ne sanno i nostri colleghi di che cosa significa formulare un curriculum, fissare degli obiettivi non campati per aria, procedere per livelli di conoscenza e di abilità, fissare parametri di valutazione. Prova a parlarne, in un consiglio di classe, di queste cose e vedi come svicolano tutti. Che follia tirare avanti ciascuno per i fatti suoi, come va va, che spreco.
D.S. Ma eravate affiatati? Il lavoro comune funzionava davvero?
R.L. Affiatati? Eravamo motivati, ecco cos'eravamo. I rapporti con i colleghi, i rapporti con i ragazzi erano rapporti tra gente che stava lì per fare bene. Erano rapporti una tensione -non so come dire- intellettuale, sì, che non ho mai più trovato.
D.S. Ti capisco. Anche io spreco spesso un mucchio di parole per rievocare i momenti in cui sono stato veramente bene con una classe.
R.L. Lo so, non fai altro che giustificarti tirando fuori quei momenti lì. Ma io parlo di un'esperienza diversa. Non che non ci credo che tu sia stato bene. Ci credo. Moltissimi insegnanti provano certe volte un grandissimo piacere a lavorare con le loro classi. E alla fine vivono di quei momenti: un buon inizio di anno scolastico, un mese felice subito dopo lo scrutinio del primo quadrimestre, una gita che è stata una vera gita di istruzione. Ma io sono convinta che queste esperienze qui sono fuorvianti. Alla fine si punta tutto sul coinvolgimento emotivo e si perde di vista l'obiettivo. Che è istruire.
D.S. Questo è vero. Però ti assicuro che certe volte è stato molto bello. Ho fatto una ricerca di storia locale, molti anni fa...
R.L. Va bene, la conosco, me ne hai parlato spesso. Prendiamo pure la tua ricerca su non mi ricordo cosa, quella che hai fatto coi tuoi alunni di Vattelapesca; Sono contenta per te, sarà stata una bella prova. Ma quale utilità didattica aveva? Quali risultati ha dato sul piano della conoscenza e dell'acquisizione di abilità? Secondo quale percorso l'hai programmata? Entro quale quadro generale l'hai collocata? Quali strumenti di osservazione, di verifica e di valutazione ti sei dato? Fino a che punto fu coinvolta la tua classe? E il consiglio di classe? Ne sai parlare oggi in modo che possa essere utile anche a me?
D.S. Fu una cosa cosi, improvvisata. C'era una situazione esterna alla scuola molto stimolante. E nella scuola c'erano colleghi disponibili, umanamente ricchi, colti, con cui era bello lavorare. Allora mi dissi: proviamo. Però, sul piano didattico, hai ragione: non so. Oggi, anzi, credo che didatticamente sia stata una cosa senza capo ne coda. A rifletterci, sì, i bei momenti che si vivono nelle classi non hanno capo ne coda mai. Perché sono casuali, arrivano all'improvviso, quando non ti minaccia nessuno scrutinio, non devi fare interrogazioni urgenti o disseminare di voti il registro, non è primavera, non è già estate e nelle aule si muore di sonno e di caldo. Vero, hai ragione. I bei momenti sono un elisir, ma la formula? Boh.
R.L. Infatti. O la scuola diventa tutta 'un bel momento' e 'il bel momento' è strutturabile in modo da essere un intreccio accorto di competenze individuali alte, di lavoro affiatato di gruppo, di governo oculato della crescita umana e culturale dei singoli allievi; o mi dici a che serve 'il bel momento'? A tirare avanti? A dare un contentino al narcisismo?
Con la collega Limongelli mi trovavo quasi sempre d'accordo. Aveva un po' la testa per aria, ma forse per questo motivo era una che ti aiutava a pensare. Non basta, sì, una bella lezione, una classe che mostra di stimarti, un buon rapporto con i giovani. A pensarci, per esempio, il mio promemoria giovanile era volenteroso ma senza costrutto. E tanti obiettivi di ampio respiro, che mi sono dato negli anni, dicono nei fatti poco o niente di me come insegnante. E parecchi giorni e mesi che ricordo con piacere non mi assolvono per i giorni e i mesi in cui sentivo che niente andava per il verso giusto. Occorre altro per assicurare a tutti gli studenti una vera crescita culturale, per valutarne senza premi o punizioni le qualità.”
agosto 2004
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