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Dell'educare.4
… a partire dall’adolescenza …
Aldo Ettore Quagliozzi
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Sfogliando il nostro immaginario abbecedario alla quarta pagina scopriamo la meravigliosa riflessione di un pensatore d’oggi, Umberto Galimberti. È stata essa per me una pagina fondamentale, che mi ha aiutato a sovvertire alcune “gerarchie“ nel mio “mestiere“ di insegnante. È una “pagina“ da me raccolta all’interno di uno scritto apparso su “la Repubblica“ del 13 Marzo dell’anno 2001 dal titolo “Silenzio in aula“. E la propongo concedendomi di aggiungere di mio solamente i caratteri al maiuscolo nelle parti dello scritto da me ritenute le più pregnanti, riconoscendo di non possedere le qualità e le abilità per commentare una tale pagina di finissimo e struggente argomentare.
“( … ) a partire dall’adolescenza, per un naturale processo psicobiologico, i figli, per emanciparsi dalla famiglia, riducono il loro livello di comunicazione in casa per aprirlo fuori, con quei sostituti genitoriali che finiscono poi con l’essere i professori.
Se i professori tacciono perché il loro compito è solo l’istruzione, va da sé che gli studenti si trovano di fronte a un vuoto, a una risposta mancata, che andranno a cercare altrove, ma non a scuola.
Non dimentichiamo che a motivare un ragazzo a scuola non è il sapere (che semmai è un mezzo), ma il riconoscimento senza cui non si costruisce alcuna identità.
Se il riconoscimento manca, come manca sempre a chi va male o va così così a scuola, l’identità,
che è un bisogno assoluto per ciascun adolescente, la si costruisce altrove, in tutti i luoghi, scuola esclusa, dove è possibile raccattare riconoscimenti.
Se poi fuori dalla scuola resta solo la famiglia (che a quell’età è solo l’ambito protettivo da cui, come gli aquilotti, si prova ad uscire) allora l’alternativa o è la strada con quel che la strada può fornire, o è la solitudine non meno pericolosa (…).
L’adolescenza, ognuno c’è passato, è promossa dal desiderio che, proprio in quel periodo di vita ha la sua massima espressione.
Adolescenze non desideranti annunciano esistenze mancate, ma il desiderio, ognuno lo sa, è contraddetto dalla realtà che non è costruita apposta per soddisfare desideri. Qui sono possibili due atteggiamenti: o la rimozione della realtà con creazione di un mondo sognante ad essa alternativo, o la frustrazione che, reiterata, annulla l’identità.
Il processo di rimozione, molto complicato e pericoloso, è noto ai professori come “distrazione”:
“SUO FIGLIO È SEMPRE DISTRATTO“. Quasi bastasse un richiamo per fargli accettare la realtà che si oppone alla forza del suo desiderio, e fargli dimettere il sogno senza di cui il desiderio esploderebbe in modo incontrollato nella realtà (…). In questo scontro tra realtà e desiderio in cui si dibatte l’adolescenza, quando non scatta la rimozione della realtà, può scattare la frustrazione che è utilissima per crescere, ma , come tutte le medicine efficaci, va dosata.
Un eccesso di frustrazione (…) sposta questa ricerca di riconoscimento senza cui non si costruisce alcuna identità e quindi non si può vivere.
Questo spostamento, questa diversione è nota agli adolescenti e ai loro insegnanti come “divertimento“: “SUO FIGLIO PENSA SOLO A DIVERTIRSI“ dice il professore che neppure sospetta che nel divertimento non c’è la gioia, ma solo la frustrazione.
I giovani cercano il divertimento perché non sanno gioire. Ma la gioia è innanzitutto gioia di sé, quindi identità riconosciuta, realtà accettata, frustrazione superata, rimozione ridotta al minimo.
CHE FA LA SCUOLA PER TUTTO QUESTO? La scuola svolge i programmi ministeriali, perché il suo compito non è di educare, ma di istruire, essendo l’educazione, NELLA FALSA COSCIENZA DEI PROFESSORI, un derivato necessario dell’istruzione. Ma le cose non stanno proprio così.
L’EDUCAZIONE NON SONO LE BUONE MANIERE, MA UNA LENTA ACQUISIZIONE, ATTRAVERSO RICONOSCIMENTI, DELLA GIOIA DI SE’.
Là infatti dove il sapere diventa lo scopo, e il profitto il metro per misurarlo, qualunque siano le condizioni di esistenza in cui una vita è riuscita a esprimersi la scuola fallisce, perché livella, quando non mortifica, soggettività nascenti in nome di un presunto sapere oggettivo che serve a dare identità più ai professori che agli studenti in affannosa ricerca.
E QUI NON SERVE INVOCARE LA “BUONA VOLONTA’ “A CUI, COME UNA FORMULA MAGICA, RICORRONO I PROFESSORI NEI LORO SBIADITI COLLOQUI CON I GENITORI,
PERCHE’ TUTTI SANNO CHE LA VOLONTA’ NON ESISTE AL DI FUORI DELL’INTERESSE, CHE L’INTERESSE NON ESISTE SEPARATO DA UN LEGAME EMOTIVO, CHE IL LEGAME EMOTIVO NON SI COSTRUISCE QUANDO IL RAPPORTO TRA PROFESSORE E STUDENTE È UN RAPPORTO DI RECIPROCA DIFFIDENZA, QUANDO NON DI ASSOLUTA INCOMPRENSIONE CHE SCATTA NON APPENA LA PSICOLOGIA DELLO STUDENTE ESCE DAGLI SCHEMI DELLA PSICOLOGIA DEL PROFESSORE.
PER QUESTO BASTA POCHISSIMO E, SE SI EVITA IL SUICIDIO, CERTO NON SI EVITA QUELLA DEMOTIVAZIONE INSIDIOSA CHE SPEGNE IN GIOVANI VITE IL RISPETTO DI SE’.”
gennaio 2004
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