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Passeggiata con Dante
Mario Amato
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“Se Dio avesse assegnato all’uomo il compito di comprendere la vita, egli, una volta al Suo cospetto, interrogato se avesse portato a termine la missione assegnatagli, potrebbe, in silenzio, porgere il Don Chisciotte”.
(Fijodor Dostoevskji)
La frase di Dostoevskij è estensibile anche ad altri libri, perché vi sono libri che accompagnano l’esistenza, che cercano di penetrare il senso della vita.
Uno di essi è senza dubbio la Divina Commedia di Dante Alighieri.
È lo stesso Dante a comunicarci la sua intenzione, fin dai primi versi
“Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura”. Dante dice “nostra”, indicando che il suo viaggio – e la sua poesia – non vale per sé stesso, ma per tutta l’umanità, perché ufficio della letteratura è indagare sul senso della vita, è cercare di penetrare ogni aspetto dell’esistenza. Il letterato non è fuori dal mondo, come non lo è la letteratura, sebbene essa sia opera della fantasia. Lo scrittore ha la responsabilità di assumere il gravoso compito di interpretare il suo tempo. Gravoso come ritrovarsi per una selva oscura.
Nell’Inferno Dante ha rappresentato gli incubi più terribili (Ah quanto a dir qual era è cosa dura /esta selva selvaggia e aspra e forte/ che nel pensier rinnova la paura! ) dell’uomo, nelPurgatorio la riflessione che nasce dalla coscienza della fine di quegli incubi (Orribil furo li peccati miei), nel Paradiso la felicità della lontananza delle passioni.
Il primo incubo è la selva: essa rinnova una paura atavica, quella dell’uomo primitivo costretto a lottare per la sopravvivenza; è il terrore dell’ignoto, della possibilità della morte. Questa paura è ancor più comprensibilità per gli uomini moderni, abituati alle città. Secondo Karl Jung, la foresta è il simbolo dell’inconscio e il terrore di fronte ad essa nasce dalle rivelazioni della nostra parte nascosta ( Jean Chevalier, Alan Geerbrandt, Dizionario dei simboli, BUR, alla voce foresta).
Che cosa intendeva Dante? La selva era per lui il peccato; forse egli aveva perso la fede in un periodo della sua vita. La fede era, per un uomo medioevale, lo strumento di conoscenza; senza di essa vi è l’oscurità. La fede era per Dante ciò che per l’uomo moderno è la scienza.
Nella selva vi sono pericoli indicibili, vi sono le tre fiere. Perché tre belve?
Siamo ancora alla paura ancestrale dell’uomo primitivo? Perché era necessario avventurarsi nella foresta? Per sopravvivere! L’uomo doveva essere cacciatore: non vi era altra via di sopravvivenza.
Dante tuttavia sceglie un altro percorso. Sceglie la conoscenza.
L’uomo primitivo ha un tipo di conoscenza “non oggettivata”, ossia impara a conoscere l’altro essere secondo un rapporto di forza: il mondo è un “tu”.
L’uomo che ha superato questa fase pone il mondo come oggetto della propria scienza.
La selva tuttavia è anche il luogo in cui questa conoscenza avviene: Dante torna sui propri passi, ma ugualmente si avventura in una foresta, nel labirinto delle passioni umane.
Le tre cantiche potrebbero leggersi anche come tre fasi della vita umana: l’Inferno è la giovinezza, con la sua incoscienza, con il turbine dei sentimenti, ove vi è anche la felicità, l’idea che tutto è permesso perché la vita è una sola: “…Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria; /.” dice Francesca da Rimini, simbolo dell’amore che si nutre di sé stesso, che non ha bisogno di altre giustificazioni, e aggiunge “e ciò sa ‘l tuo dottore” (Canto V vv121-123), perché tutti rimpiangiamo quella forza sconosciuta che ci spinge al piacere dei sensi.
Francesca non si lamenta per la sua condanna, ma rimpiange la felicità trascorsa: ora non può più amare Paolo; chi muore giovane, resta giovane per sempre, scrive Reiner M. Rilke. Francesca è rimasta giovane, per l’eternità, e sente dentro di sé agitarsi la passione che ha segnato la sua vita.
Conoscere e comprendere tutti gli aspetti dell’anima umana: questo è il compito della letteratura.
Dante è simile ad Ulisse, al suo Ulisse: “né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre , né ‘l debito amore / lo quale dovea Penelopè far lieta / vincer potero dentro me l’ardore / ch’i ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore / ma misi me per l’alto mare aperto…” (Canto XXVI vv. 94-100).
Dante scelse l’esilio, lasciando moglie e figli, così come Ulisse lascia nuovamente Itaca, e ambedue lo fanno per conoscere.
Anche qui incontriamo un’allegoria dell’ignoto: il mare, il mare aperto, dice Ulisse, l’Oceano dove nessuno potrà gridare “terra!” . “Misi me” , non “mi misi”; diversamente da Dante, Ulisse si guarda, si fa anch’egli oggetto propria conoscenza. Ulisse non è giovane, ma la passione dentro di lui è viva, è un fuoco che non si spegne: non è passione dei sensi, ma della mente. Chi non ha desiderato conoscere tutto il mondo? Vedere tutti i luoghi della terra? Chi non ha desiderato sapere che cosa c’è dall’altra parte di un monte, che cosa nasconde la linea dell’orizzonte, che cosa c’è oltre?
Ed oggi non partono macchine verso i cieli?
Neanche l’età può spegnere questo desiderio. Ulisse e il suoi compagni erano “vecchi e tardi”, eppure non hanno esitato. Ed Ulisse brucia, insieme al suo amico Diomede, in una fiamma eterna.
Sì, Ulisse si è fermato un momento, ad Itaca, ma l’amore familiare non lo ha trattenuto. In fondo, anche Ulisse è, a suo modo, giovane. O forse troppo vecchio! Manca ad Ulisse la fase della maturità. Manca il Purgatorio!
“Orribil furo li peccati miei”: (Purgatorio, Canto III v.121) dice Manfredi nel III Canto del Purgatorio.
Manfredi dice “furono”; i dannati rimpiangono la vita terrena, le anime del Purgatorio hanno ancora relazione con la loro vita sulla terra, perché ora devono pentirsi, provare rimorso; la loro sosta in quel regno è un atto di contrizione: essi ricordano, ma senza rimpianto, perché quel tempo è passato, come trascorre la giovinezza. È la maturità, non ancora la serenità, ma la fase durante la quale si riflette sulla propria vita, senza rammarico, ma per comprendere il senso dei propri atti, della propria esistenza. Si riflette : “Perder tempo a chi più sa più spiace” : è il periodo in cui all’uomo conviene studiare per giungere alla serenità assoluta, per goderne i frutti della propria riflessione. È la serenità somma da cui è connotata la prima anima che Dante incontra in Paradiso, Piccarda Donati. Ella aveva già trovato la letizia nel mondo terreno, nel monastero, che chiama dolce chiostro (v. 107, Paradiso, Canto III). Qui non v’è più alcun desiderio, il mondo è lontano con gli amori, gli odii, le guerre, le malvagità. Non v’è nostalgia, ma solo un sorriso benevolo. “..altro non ci asseta” (v. 72): si è felici di quel che si ha. Il chiostro, di cui parla Piccarda, è la fortezza dell’anima, non certo un rifugio in cui si cerca scampo ai pericoli, bensì un luogo conforme a riflettere sul senso della vita. Alla voce fortezza il Dizionario dei simboli spiega che la fortezza è, quasi universalmente, il simbolo del rifugio interiore dell’uomo, del luogo di comunicazione privilegiato fra l’anima e l’Assoluto; nella roccaforte è protetta alla concentrazione interiore.
Le nostre metropoli sono assordanti, maleodoranti, colme di spazzatura, delle luci e delle merci accecanti delle vetrine, ed è difficile pensare alla vita, al senso di essa.
Vi sono tuttavia i libri che possono condurci nuovamente a valutare che non siamo nati a viver come bruti, ma per seguir virtude e conoscenza.
Nei libri inevitabiliè il segreto della nostra esistenza. La letteratura non dà risposte e non cerca di darle, non è questo il suo compito, al contrario essa pone incessantemente domande e induce noi stessi a porle e a porcele.
Giovinezza, maturità, serenità: anche questo è la Commedia dantesca.
2 dicembre 2003
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