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Educazione linguistica Italiano
Intorno alla verità senza luogo né perché - Luzi insegnò letteratura francese, cercandovi risonanze per i suoi versi. Ma non si allontanò mai dalla sua culla toscana, che traspare in filigrana anche nei momenti della sua maggiore universalità


Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione permanente, Formazione post diploma
Tipologia: Documentazione

Abstract: Intorno alla verità senza luogo né perché
Insegnò letteratura francese, cercandovi risonanze per i suoi versi. Ma non si allontanò mai dalla sua culla toscana, che traspare in filigrana anche nei momenti della sua maggiore universalità
RAFFAELE MANICA
Da tempo era giunto il momento di scoprire un senso nuovo per l'epigramma che gli aveva scagliato contro Pasolini, nelle Ceneri di Gramsci. Perché quell'epigramma era nato in un'altra Italia, mezzo secolo fa. Diceva: «Questi servi (neanche pagati) che ti circondano, / chi sono? A che vera necessità rispondono? / Tu taci, dietro a loro, con la faccia di chi fa poesie: / ma essi non sono i tuoi apostoli, sono le tue spie». Nella sua breve vita da senatore, a proposito del clima civile italiano qualche parola da suscitare il fuoco della controversia (come suonava un suo titolo celebre) Luzi l'aveva pronunciata. Spie o apostoli che fossero, se ancora c'erano, stavano lì a far risaltare una forma di solitudine, quella che gli anni e le altezze raggiunte inevitabilmente portano. Ma se si è ricordato l'epigramma di Pasolini è perché porta con sé un tratto tuttora persistente, o almeno fino a ieri visibile; un tratto diagnostico, da mostrare il destino incarnato in un corpo; un tratto da fisionomista, che in quella faccia circonfusa di silenzio, vedeva «la faccia di chi fa poesie». Allora era una malignità aggiunta, perché la faccia di chi fa poesie non è una faccia da poeta, e anzi far poesie è l'esatto opposto dell'essere poeta. Ma oggi che di facce così, anche semplicemente di chi fa poesie, non se ne vedono troppe in giro, anche quella malignità aggiunta può essere letta come un elogio. Luzi ha consumato la sua lunga vita di poeta senza, si può dire, mai allontanarsi dalla sua culla toscana, anzi da quella fiorentinità che in filigrana gli si scorge anche nei momenti di universalità maggiore. La cerchia fiorentina si identifica con l'esperienza ermetica dei suoi coetanei Bigongiari e Parronchi e del critico d'elezione, Carlo Bo; gli anni trenta con riviste come «Frontespizio» e «Campo di Marte». Sono anni contraddistinti da un fervore che faceva passare molti per Firenze, se dalla Puglia vi arrivava con una valigia di cartone Oreste Macrì e dalla Ciociaria, chissà come, Tommaso Landolfi. L'ermetismo era il fenomeno maggiore, però dovette trattarsi anche di una specie di spartizione del mondo da conoscere. Luzi scelse la Francia e la sua letteratura, che insegnò all'Università dal 1955: ma i suoi saggi sulla letteratura francese erano dedicati piuttosto alla ricerca di radici e affinità poetiche che ad altro, sicché al suo cristianesimo diede sostanza aggiunta il pensiero cattolico d'oltralpe. Saggi che, dunque, trovavano una solco di indagine originale, sicché quel movimento poetico che sembrava tanto astratto, e ultimo episodio, forse, della celebrazione piena dell'io, pur rosicchiato da infinite incertezze, poggiava in realtà su accertamenti in presa diretta, utili anche a una nuova prospettiva nella lettura dei classici: secondo la lezione inaugurata dal maestro di tutti, Ungaretti. Il clima dell'esordio (La barca, 1935) fu questo. E in una poesia di quelle che si definiscono programmatiche («L'immensità dell'attimo») si leggeva: «Sulla terra accadono senza luogo, / senza perché le indelebili / verità». La poesia di Luzi, nel suo séguito, e fino al libro dell'anno scorso, Dottrina dell'estremo principiante, è stata un ininterrotto arrovellarsi intorno all'accadere senza luogo e senza perché della verità; ma lo è stata crescendo in intensità e in rarefazione col mutarsi del colore del tempo, e man mano che si lasciava alle spalle la prima stagione ermetica per svolgere il suo cantico spirituale, toccato da Mallarmé e da Campana. A ripercorrerlo c'è un «Meridiano» del 1998 (al quale vanno aggiunti almeno tre libri: Sotto specie umana, 1999, Poesie ritrovate, 2003 e il citato Dottrina) che chiaramente ne scandisce l'opera in tre grandi cicli, secondo un indice stabilito dall'autore: Il giusto della vita, dagli esordi a Onore del vero (1957); Nell'opera del mondo, che va dal 1965 (Dal fondo delle campagne) al 1978 (Al fuoco della controversia); Frasi nella luce nascente, che tiene insieme le ultime celebrate raccolte: Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985; Frasi e incisi di un canto salutare, 1990; Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994.

Un punto di condensazione, che abbandonava anche il troppo di raffinato riscontrato dalla critica nella prima stagione, fu nel Luzi di mezzo, tra l'ultima parte del Giusto della vita e la prima di Nell'opera del mondo: un tratto poetico filosoficamente contraddistinto, ora, più dall'indagine sull'essere che dall'esperienza, per quanto alta, dell'io. Quella impostazione non venne più abbandonata, bensì risolta in una concretezza dai colori autunnali, brunita come nell'annuncio della sera. Il poeta era sempre nella sua posa scrutante l'accadere senza luogo e senza perché della verità; ma se aveva scritto: «Amici dalla barca si vede il mondo», ora sbarcava, tornava nella terra senese dove aveva speso parte della giovinezza («Ascolta tu pure: è il verbo stesso che ti grida di tornare» era l'epigrafe scelta, dalle Confessioni di Agostino) e stava sulle tracce di Simone Martini, del quale già Petrarca aveva sospettato un viaggio in paradiso. Si fingeva una carovana che rispondeva al richiamo di Siena, perché il pittore non morisse ad Avignone. Un percorso lungo e faticoso in compagnia di uno studente di teologia. Così la disputa sull'essere giunge a un inquieto canto di ringraziamento e di domanda, cercando parole capaci di rinverdirsi per nuova intonazione, secondo la lezione della terza cantica dantesca, con un diapason che si colloca, però rovesciandone il senso, tra il nichilismo dell'ultimo Caproni e lo Zanzotto heideggeriano e lacaniano: «È, l'essere. È. / Intero, / inconsumato, / pari a sé. / Come è / diviene. / Senza fine, / infinitamente è / e diviene, / diviene / se stesso / altro da sé. / Come è / appare. / Niente / di ciò che è nascosto / lo nasconde». Per domandarsi, infine - al modo in cui Montale s'era chiesto: «Il varco è qui?», ma con altra fede -: «È forse il paradiso / questo?»..



http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/01-Marzo-2005/art99.html



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