Sedici febbraio 2005: una data che i nostri nipoti potrebbero studiare a scuola come data storica. L’evento di straordinaria importanza è l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, il primo accordo tra i governi del mondo per darsi regole cogenti contro l’inquinamento atmosferico.
Dal 16 febbraio il Protocollo vige per ben 132 paesi (pari al 61 per cento delle emissioni mondiali), e inizia a imporre un cambiamento nel modello di sviluppo. Non tutti hanno consapevolezza dell’importanza della sostenibilità, e non tutti hanno pari determinazione nel perseguire tale obiettivo.
Tra questi vi è il governo italiano, che forse come altri ha confidato fino all’ultimo nella volontà russa di non sottoscrivere il protocollo, e che oggi punta più sull’acquisto di quote di emissione che sulla riduzione effettiva. Che non può essere poca: tra il 2008 e il 2012 dovremo ridurre le emissioni italiane di 6 gas del 6,5 per cento rispetto a quelle del 1990, che nel frattempo sono aumentate dell’8,8 per cento, con punte del 23 per cento nel termoelettrico. Acquistare quote di emissione costerà all’Italia circa 400 milioni di euro l’anno: due terzi della cifra che il governo vuole investire per la competitività: saranno detratti? È questa la strada? Crediamo proprio di no.
Uno sviluppo di qualità, sostenibile anche sul piano sociale e ambientale, richiede un cambiamento di strategia sia nel modello di sviluppo, a partire da una diversa politica energetica, sia nei consumi. Il governo Berlusconi ha perso anni preziosi, sviluppando una politica energetica arretrata, sempre più basata sui combustibili fossili - con l’esposizione all’aumento vertiginoso dei prezzi, visto che dipendiamo dall’estero -, con grave arretramento e ritardo sulle fonti rinnovabili (la fredda e piovosa Germania ha più energia solare della solare Italia), sulla ricerca di fonti alternative (idrogeno) e sull’innovazione tecnologica che permetta un impatto ambientale ridotto. Ma il ritardo è anche sulle misure di risparmio energetico. Anziché ridurre le tasse ai ricchi, sarebbe stato opportuno investire in risparmio, ricerca e innovazione, avvicinandosi agli obiettivi di Kyoto e creando nuova occupazione.
Non pagare la materia prima nelle fonti rinnovabili di energia è un guadagno per la collettività e per i singoli utenti, ma certo non per i produttori di energia che lucrano sulle intermediazioni. Non a caso i grandi produttori, Enel in testa, hanno fatto guadagni enormi in questi ultimi anni, senza reinvestirli nelle energie rinnovabili. Ma energie rinnovabili significa anche più occupazione per unità di energia prodotta, più ricerca e innovazione sia nelle singole abitazioni che nei siti industriali che nelle reti collettive. Esempi positivi, e che dimostrano la piena attuabilità, sono la produzione "casalinga" di energia che soddisfa le esigenze familiari e che può essere rivenduta, per la parte eccedente, alla rete pubblica; così come la scelta lungimirante dell’acciaieria Isp di investire in ricerca e innovazione, mettendosi così in condizione di produrre oggi acciaio con un risparmio energetico tra il 40 e il 60 per cento per kg prodotto; così come la decisione di alcuni Comuni di illuminare strade e uffici con lampade a risparmio energetico e/o a ricarica solare. Altro che nucleare, che lascia ai posteri problemi gravi quanto l’effetto serra, e i cui costi anche economici sono altissimi, specie se si tiene conto di quelli pubblici.
Si può fare anche altro investendo poco denaro (con programmazione democratica pubblica) e ottenendo molto. Attuare la raccolta differenziata dei rifiuti riduce le discariche che producono metano (uno dei sei gas da ridurre). Ridurre l’uso dei concimi chimici fa bene alla salute (con risparmi in ricerca, cura e medicinali) e riduce la produzione di protossido d’azoto. Costruire e ristrutturare edifici con criteri ecologici fa risparmiare quantità enormi di energia (per l’illuminazione, per il riscaldamento e la refrigerazione). Dotarsi di tram e bus ecologici fa bene alle città, alla salute e alla nostra industria. Costa un po’? Sì, ma è un investimento per risparmi futuri. Il governo faccia la sua parte, anche con una diversa politica fiscale. Il mondo delle imprese può essere stimolato a un modo di produzione sostenibile ed ecologicamente avanzato. Per farlo devono collocarsi nella fascia alta della produzione internazionale, rendendosi disponibili ad accordi avanzati e al superamento del nanismo produttivo e della tendenza alla rendita. Anche noi continueremo a fare la nostra parte con campagne informative che promuovano l’uso di fonti energetiche rinnovabili e con l’elaborazione di proposte nelle singole situazioni di settore, territorio e azienda. |