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Tecnologia
Scienze naturali
Tecnica e ambiente: dalle origini al 2000 - La tecnica è destinata ad avere un ruolo fondamentale nella sfida fra i mezzi per soddisfare i bisogni della popolazione e le risorse limitate. Di Giorgio Nebbia


Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma, Formazione permanente
Tipologia: Materiale di studio

Abstract:

Tecnica e ambiente: dalle origini al 2000
La tecnica è destinata ad avere un ruolo fondamentale nella sfida fra i mezzi per soddisfare i bisogni della popolazione e le risorse limitate

di Giorgio Nebbia

La lunga notte prima della comparsa dell'uomo


Molte delle manifestazioni del degrado ambientale davanti ai nostri occhi derivano dal modo in cui, con la tecnica, le risorse naturali vengono trasformate in merci, in cose utili, e queste, dopo l'uso, tornano alla natura sotto forma di scorie, di rifiuti.

Il degrado ambientale, quindi, non dipende dal fatto che gli esseri umani, nella logica della natura, sono peggiori dei loro coabitanti, vegetali e animali, ma dal fatto che gli umani, in quanto animali speciali, sono venuti ad usare le risorse della natura in maniera violenta, con un comportamento di rapina, i cui effetti ricadono, prima o dopo, sugli stessi esseri umani.

Tutta la natura “funziona“ secondo cicli che partono dalla natura e dalle sue risorse inorganiche, inanimate - aria, acqua, suolo - passano attraverso complicate catene di esseri viventi vegetali e animali; i prodotti finali del flusso di materia e di energia attraverso gli esseri viventi (del flusso della vita) ritornano alla natura sotto forma di energia e di materia, inorganica e organica. Materia che rientra nei grandi cicli biogeochimici.

I cicli della natura si possono considerare “chiusi“ e sono alimentati da una sola fonte di energia esterna, la radiazione solare.

Il fatto che i cicli naturali siano chiusi non significa che la vita sia facile o indolore o priva di violenza.La vita animale utilizza la materia vegetale e si propaga attraverso catene alimentari in cui alcuni animali si nutrono di altri, combattono per la conquista di cibo e di spazio, sono esposti alla morte. Alla fine della loro vita utile, vegetali e animali restituiscono la materia di cui sono fatti ai corpi riceventi naturali che trasformano le molecole in sostanze utili per altre forme di vita. “Utile“ inteso come utile alla prosecuzione della vita sul nostro pianeta.

I grandi cicli naturali sono regolati da alcune “leggi“, così come le chiamiamo noi umani, che tengono conto della dimensione limitata del pianeta, di molti suoi spazi, delle sue risorse.

Quando una popolazione vegetale o animale non trova sufficiente spazio per espandersi, o cibo, alcuni vegetali e animali non crescono più, o muoiono (nel senso detto prima di restituzione della loro materia ai cicli naturali) o migrano in altri territori.

La principale legge dei cicli naturali riconosce che ogni spazio in cui può manifestarsi la vita ha una sua capacità di accogliere o sopportare la vita, una carrying capacity, limitata che dipende dalla disponibilità di cibo, dalla temperatura, dalla presenza di altre forme viventi.

La vita è andata avanti così a cominciare da circa 3000 milioni di anni fa per migliaia di milioni di anni. Soltanto circa un paio di milioni di anni fa fra i mammiferi alcuni hanno cominciato a manifestare capacità di osservazione e di comunicare i risultati delle proprie osservazioni, in maniera diversa rispetto a qualsiasi altro essere vivente.


L'alba dell'uomo


Il genere Homo che è così apparso sulla superficie della Terra è stato, per oltre un milione di anni, abbastanza simile come comportamento agli altri mammiferi. Questi nostri antichissimi progenitori hanno tratto il cibo dalle bacche, dai semi e dalle radici dei vegetali e dagli animali catturati con la caccia e la pesca, più o meno come fanno gli altri animali. E così sono andati avanti per migliaia di secoli, probabilmente unendosi in piccole comunità, migrando per sfuggire all'avanzata dei ghiacci o alle lunghe stagioni aride, imparando lentamente alcuni gesti, segnali, comportamenti.

In questa lunga preistoria gli esseri umani hanno imparato ad usare, soprattutto per la caccia e la difesa, alcuni oggetti di pietra; il periodo che va da circa 500.000 a circa 10.000 anni fa e' stato denominato Paleolitico, o antica età della pietra o età della pietra grezza, per indicare lo stato rudimentale degli strumenti disponibili. Probabilmente all'inizio di tale periodo Paleolitico è avvenuta la scoperta del fuoco che è stato impiegato per centinaia di secoli, per illuminare le caverne, forse per modificare alcune pietre, forse per cuocere le carni.

Ciascuna di queste scoperte - che potremmo già chiamare “tecniche“ - ha innescato un processo che ha accelerato anche la modificazione della struttura del corpo dei nostri predecessori.


L'alba della tecnica


L'impatto sulle risorse naturali di questi antichi esseri umani è stato certamente limitato, anzi irrilevante. La vera grande svolta nelle capacità degli umani di modificare la natura si ha circa 10.000 anni fa, nella transizione dal Paleolitico al Neolitico, quando alcune comunità hanno scoperto che, fra tutte le piante offerte dal regno vegetale, alcune potevano essere riprodotte e coltivate e modificate in modo da trarne cibo, e che alcuni animali potevano essere addomesticati e allevati e potevano essere fonte di cibo e di altri materiali, come peli e pelle.

E' a questo punto che si può riconoscere l'inizio della diffusione di azioni tecniche intenzionali, risultato di un progetto, la nascita della tecnica in senso moderno, e l'inizio di una serie di modificazioni della natura.

Il passaggio da piccole comunità di raccoglitori-cacciatori a comunità di coltivatori-allevatori ha comportato profondi mutamenti. Innanzitutto comincia la necessità di avere un “proprio“ spazio e nasce il principio della proprietà, collettiva o privata che fosse.

In secondo luogo le comunità hanno avuto bisogno di aumentare di numero per avere più braccia capaci di assolvere alle mansioni imposte dalla coltivazione e dall'allevamento. Finita l'epoca delle grandi migrazioni attraverso foreste e praterie, le comunità diventarono sedentarie e ebbero bisogno di “case“, cioè di rifugi stabili. È probabilmente così cominciato il trasferimento dai rifugi naturali come le grotte, in rifugi artificiali costruiti utilizzando le pietre presenti in natura, eventualmente modificate e rese più durature col fuoco.  La nascita di queste prime “case“ fu seguita ben presto dalla nascita del villaggio, di un insieme di case.

La vita delle comunità di coltivatori-allevatori venne a dipendere, più di quanto fosse successo prima, dai cicli naturali. Nel loro vagare attraverso i grandi spazi, in qualsiasi stagione i raccoglitori-cacciatori trovavano frutta o semi o radici o animali. I coltivatori dipendevano invece da cicli relativamente corti: i semi dei cereali sono disponibili soltanto in alcuni mesi dell'anno; i neonati degli animali e il latte dei mammiferi dipendono da altri cicli stagionali.

In queste condizioni i raccolti e la carne dovevano essere conservati per essere utilizzati nelle stagioni meno feconde. Fu probabilmente allora scoperto il potere essiccante del fuoco e la sua importanza per la conservazione degli alimenti, la possibilità di conservare e propagare il fuoco, l'uso della legna come fonte di energia. Il fuoco serviva anche ad illuminare le notti durante le quali aumentavano le occasioni per comunicare e scambiarsi esperienze e osservazioni, a tenere lontani gli animali predatori, a cuocere alcune forme di terra.
 
E' molto probabile che sia cominciata cosi' una lenta opera di diboscamento per trarre legna da ardere e per fare spazio alle nuove coltivazioni. Così come e' probabile che soltanto alcuni individui siano stati capaci di accudire alla funzione indispensabile del fuoco e che sia cosi' nata una qualche forma di casta o classe - sacerdotale o tecnica o specialistica - al di sopra della massa degli individui.

Dal freddo dell'inverno ci si poteva difendere, oltre che col calore del fuoco ottenuto bruciando la legna, anche coprendo il corpo con pelli o con indumenti ottenuti da alcuni vegetali fibrosi o dalla pelle o dal pelo di animali. Le prime comunità stanziali ben presto scoprirono che il sale addizionato alla carne o al pesce consentiva, altrettanto bene come il fuoco, la loro conservazione anche per mesi. Altri scoprirono che col sale era possibile fermare la putrefazione delle pelli di animali, dovuta all'umidità e ai microrganismi, e ottenere le prime rudimentali forme di indumento.

Il sale era pero' una merce rara: solo pochi luoghi della Terra - per esempio la zona intorno al Mar Morto in Palestina - avevano dei giacimenti di sale, formatisi per evaporazione di antichi mari. Qualcuno scopri' che il sale si poteva ricuperare facendo evaporare l'acqua del mare col fuoco e o col calore solare e nacque cosi', in alcune zone costiere, una prima vera industria chimica. Il sale divento' il primo materiale importante, “estratto“ dalla natura, utile alle nuove comunità e richiesto: gli abitanti delle località in cui esistevano giacimenti o depositi di sale o che sapevano trarlo dal mare potevano cedere ad altri la preziosa materia in cambio di altre cose utili.


L'alba dei commerci


Con il sale nasce il commercio, probabilmente sotto forma di baratto: ancora più importante nasce una funzione sociale specifica associata alla capacita' di affrontare lunghi viaggi, di trattare con comunità di lingue a abitudini diverse, di regolare gli scambi con vantaggio per il proprio popolo.

L'importanza dei commerci nell'avanzata della tecnica, sta nel fatto che nei lunghi viaggi alla ricerca delle materie da acquistare e nel trasporto delle materie da scambiare i commercianti venivano a contatto con altre terre, con altre vegetazioni e animali e con altre comunità che coltivavano piante e allevavano animali diversi da quelli del loro paese di origine. I traffici hanno avuto un effetto rivoluzionario non tanto ai fini di un allargamento dei beni posseduti, ma soprattutto al fine della diffusione di conoscenze. I commercianti occupano cosi' una posizione importante nelle comunità: possono raccontare di terre lontane e di oggetti sconosciuti. Alla classe dei sacerdoti si affianca cosi' la classe dei commercianti e ben presto aumenta la specializzazione nell'ambito di ciascuna delle piccole comunità primitive. Alcuni, impegnati negli scambi, possiedono più terreno da coltivare e raccolgono maggiori quantità di alimenti e possono allevare un maggior numero di animali.

La maggior parte dei membri di ciascuna comunità ha pero' in genere poco e insufficiente terreno da coltivare e cibo e si deve procacciare il cibo mancante lavorando per conto di altri.

Una volta avvenuta la prima stratificazione di classe sulla base della quantità di beni posseduti, si innesca anche una stratificazione nella qualità di tali beni. Gli appartenenti alle classi più elevate - sacerdoti, proprietari, commercianti - hanno bisogno di dare un segnale del proprio privilegio costruendo e abitando edifici più grandi.

I villaggi primitivi diventano città, con strade, acquedotti, luoghi di culto e di governo, eccetera. Nel periodo che va da circa 10.000 a circa 6.000 anni fa, quando cominciano a prendere corpo le testimonianze delle società egiziane, mesopotamiche, indiane, il cammino della tecnica si e' fatto sempre più rapido, lasciando le prime ferite nel territorio e nella natura.

Si può dire che inizia una reazione a catena: nei primi tempi del Neolitico il taglio degli alberi e l'escavazione delle pietre può essere fatto soltanto con oggetti di pietra dura e levigata. Ben presto qualcuno deve avere scoperto che col fuoco era possibile cuocere l'argilla e ottenere recipienti in cui mettere i cibi e anche mattoni con cui costruire case più resistenti e comode.

Altri devono avere scoperto che da alcune rocce o terre, sempre con l'aiuto del fuoco, era possibile liberare dei materiali ancora più duri delle pietre, come i metalli. Il rame e poi le sue leghe come il bronzo, hanno offerto, a partire da 8000 anni fa, oggetti capaci di staccare e scalfire le pietre in modo molto migliore di prima e hanno permesso di accelerare il taglio di alberi e dei materiali da costruzione. All'età del rame (fra 6000 e 4500 anni fa, a seconda delle aree) e a quella del bronzo (fra 5000 e 3500 anni fa), segue, fra 3500 e 3000 anni fa, l'età del ferro.

La disponibilità di strumenti metallici consente di tagliare e modificare pezzi di pietre più grandi, di tagliare alberi più alti. È cosi' possibile costruire navi abbastanza grandi da affrontare i viaggi attraverso mari più vasti, addirittura dalle isole britanniche al Mediterraneo, dal Mediterraneo alle coste asiatiche.

Lewis Mumford, nel suo libro “Tecnica e cultura“ del 1934, ha chiamato questa alba della tecnica moderna come periodo eotecnico: i materiali da costruzione erano le pietre, i metalli, il legname; le fonti di energia erano quella del Sole, quella del vento, che spingeva le vele delle navi, e quella del moto delle acque che azionava i primi rudimentali mulini.

Sale, pelle, cuoio, cibo, ceramiche, minerali, metalli, potevano essere scambiati con altri prodotti, anche attraverso grandi distanze e a tali scambi bastava che si dedicassero alcuni membri della comunità.

L'alba della tecnica, insomma, e' accompagnata dall'inizio della proprietà privata - dei luoghi, delle mandrie, dei campi, dei fiumi, dei minerali e di tutti gli oggetti che se ne possono ricavare; dalla divisione delle comunità in classi, quella di coloro che possedevano i beni materiali e quella di coloro che ne erano privi e che dovevano ottenerli con il lavoro; da sempre più rapide modificazioni della natura per adattarla alle nuove esigenze.

Per millenni, comunque, la natura, in quanto fonte di acqua, di alimenti e oggetti, e' stata considerata con rispetto, tanto che le civiltà più antiche assegnavano a speciali ambiti naturali - le sorgenti, i boschi, gli alberi, i campi - un carattere quasi sacro e divino. Si invocava l'amicizia e la pazienza del dio del luogo - il genius loci - prima di intraprendere il taglio degli alberi o la coltivazione dei campi.

La rivoluzione produttiva e merceologica iniziata circa seimila anni fa ha messo anche in moto nuovi rapporti fra i popoli e le comunità. Alcuni popoli possedevano materie prime o tecniche per trasformarle in oggetti utili, in merci; altri popoli, quando non riuscivano ad ottenerli con gli scambi - pelli contro sale; cereali contro metalli; schiavi (cioè lavoro) contro materiali da costruzione - cercavano di conquistarli con la forza e la guerra.


Imperialismo e materie prime


Intorno a questa rivoluzione sono nati i primi centri di potere politico ed economico che andavano da piccoli stati a potenti imperi in guerra fra loro, con alterne vicende, le prime manifestazioni dell'imperialismo. La guerra per la conquista di Sodoma e Gomorra, le città sul Mar Morto che detenevano il monopolio o quasi del commercio del sale, e' un esempio della lotta violenta per impossessarsi di tale materia essenziale.

Tutte le grandi guerre degli imperi passati - Egitto, Mesopotamia, Roma, Cina - possono essere lette alla luce della volontà di conquistare terre fertili, o ricchezze minerarie o materie prime. Gli imperi non potevano accontentarsi di villaggi: avevano bisogno di città, abbastanza solide da resistere all'attacco e all'avidità dei popoli vicini; la costruzione delle città accelero' l'estrazione di minerali e pietre e comincio' ad estendersi l'intervento degli esseri umani sulla natura. Il miglioramento delle condizioni di vita richiedeva un maggior numero di oggetti domestici di terracotta, ottenibili con una vera struttura industriale, con imprenditori e operai.

La difesa e la conquista dei territori e delle risorse naturali richiedeva armi resistenti che potevano essere ottenute soltanto con metalli di cui aumentò rapidamente la richiesta e la produzione, ancora una volta a spese di minerali e di legname che forniva il combustibile per i forni, con conseguenti modifiche del territorio. Il diboscamento ha lasciato sempre più vaste superfici di terre nude ed esposte all'azione erosiva delle piogge; i detriti dell'erosione, trascinati nei fiumi di pianura, hanno fatto variare i profili degli alvei per cui sempre più spesso le piene hanno dato luogo a spaventose alluvioni.

A partire da 3000 anni fa si cominciano a vedere gli effetti ambientali del possesso crescente di beni materiali: le attività minerarie degli Etruschi in Toscana lasciano terre diboscate e montagne di scorie; l'estrazione di argento dalle miniere dell'Attica porta la distruzione di boschi al cui posto restano terre esposte all'erosione; lo sfruttamento delle campagne del Nord Africa porta all'avanzata del deserto dall'interno verso il mare; l'estrazione delle zolfo dalle miniere siciliane lascia i segni sulle campagne rese sterili dai fumi corrosivi.

I perfezionamenti dell'aratro, che risalgono intorno al Mille, hanno contribuito ad un più profondo attacco del terreno nel corso delle operazioni agricole e hanno provocato modifiche ancora più profonde della superficie della Terra.

Un esempio dell'attitudine dell'uomo del periodo eotecnico nei confronti della natura e' offerto dall'attività mineraria, l'attività di rapina per eccellenza nel mondo della tecnica. Di questo si accorsero già gli uomini del 1500 e Geogr. Bare, detto Agricola, nel suo trattato di tecnologia mineraria (1556), offre una risposta, a dire il vero abbastanza zoppicante, a coloro che denunciavano tale attività come responsabile dell'inquinamento dei fiumi, dell'inaridimento dei campi, della scomparsa degli animali, della distruzione dei boschi.

L'impoverimento delle risorse forestali spinse l'utilizzazione in quantità crescenti, soprattutto in Inghilterra, del carbone. Dapprima si tratto' di utilizzazioni occasionali, anche se già nel XIII secolo la quantità di carbone bruciata a Londra era abbastanza rilevante, tanto da provocare un grave inquinamento dell'aria e da costringere le autorità ad intervenire. Nel 1273 l'uso del carbone fossile come combustibile fu proibito a Londra in quanto “pregiudizievole alla salute“; nel 1306 un proclama reale vietava l'uso del carbone nei forni e si ha notizie che in quell'anno un fornaio fu condannato a morte per non avere rispettato il divieto. Nel 1307 fu nominata, sempre in Inghilterra, una commissione d'inchiesta per scoprire coloro che usavano il carbone a Londra e nelle adiacenze; la prima volta in cui costoro venivano sorpresi erano condannati a gravi multe; se recidivi venivano distrutti i loro forni.

Leggi e divieti si fecero sempre più frequenti per evitare lo scarico delle fogne nelle strade, l'inquinamento dei fiumi, la distruzione dei boschi. Nella metà del 1600 John Evelyn fece presente che si poteva combattere l'inquinamento dell'aria a Londra circondando la città con filari di alberi, il cui legname sarebbe stato anzi utile per la costruzione delle navi di sua maestà; secondo questo ingegnoso portavoce dell'alta borghesia, le classi agiate potevano cosi' vivere nelle periferie delle città, non toccate dall'aria mefitica dei centri urbani nei quali, tanto, vivevano le classi povere.

Ma altre voci premevano sulla strada del “progresso“ e preparavano le basi teoriche di una rivoluzione tecnico-scientifica che avrebbe compromesso sempre più la natura e le sue risorse. I filosofi della società industriale, Cartesio e Francesco Bacone, gettavano le basi del credo che le conoscenze scientifiche sono al servizio delle invenzioni e delle manifatture e si identificano con il “dominio“ della tecnica sulla natura.


La rivoluzione industriale


Con queste premesse culturali e in seguito a nuove scoperte scientifiche nacque, fra la fine del 1600 e l'inizio del 1700, la rivoluzione industriale - come la chiamò Engels nel 1844 - basata su nuovi materiali economici come il ferro e il carbone e caratterizzata dai processi di meccanizzazione.

Con la rivoluzione industriale finisce la maniera artigianale di produzione e nascono nuovi soggetti sociali: l'operaio dipendente e l'imprenditore capitalistico. Con la crescente importanza della macchina, infatti, le attività produttive non erano più basate sull'abilità del lavoratore, ma sul capitale che consentiva l'acquisto delle macchine: insieme al capitalista nasceva una nuova era destinata a segnare profondamente la storia sociale della tecnica e della natura, quella che Mumford chiamo' l'era paleotecnica.

La grande svolta si può far coincidere con l'invenzione dei perfezionamenti della macchina a vapore da parte di Watt nel 1769; il carbone venne cosi' ad assumere crescente importanza, ne aumentò la richiesta, come aumento' la richiesta di ferro e acciaio di migliore qualità, la cui produzione fu resa possibile dall'invenzione, nel corso del 1700, dell'altoforno e dalla scoperta delle proprietà del carbone coke, col che prese forma, nella sua struttura moderna, la siderurgia.

L'aumento della richiesta di ferro e carbone determino', a sua volta, l'espansione delle attività minerarie, tipiche attività di rapina in quanto il padrone della miniera non fa che consumare costantemente il proprio capitale e, quando gli strati superficiali sono esauriti e il costo di estrazione diventa troppo alto, le miniere vengono chiuse e quanto rimane sono detriti, capannoni e case abbandonate, sporcizia e squallore.

La disponibilità di ferro e acciaio di migliore qualità permise la meccanizzazione della produzione tessile con l'introduzione di macchine per filare e per tessere. L'aumento della produzione di filati e tessuti richiese sostanze chimiche per il lavaggio e la tintura e diede l'avvio all'industria chimica, la quale contribuì, a partire dal 1800, ad arrecare nuovi danni all'ambiente   scaricando nell'aria e nelle acque veleni, acidi, fumi, rifiuti.

L'estrazione dello zolfo in Sicilia era accompagnata dalla diffusione nell'atmosfera di anidride solforosa che rendeva sterili i campi vicini; la produzione di carbonato sodico immetteva nell'atmosfera il corrosivo acido cloridrico e lasciava scorie di solfuri da cui si liberava idrogeno solforato.

Le prime leggi contro l'inquinamento dell'aria nascono in Inghilterra come tentativo di arginare i danni dell'industria chimica   e   della   produzione   di   acidi   e    sostanze alcaline.

D'altra parte i perfezionamenti delle macchine furono possibili dall'assurgere del consumo a ideale dell'uomo; partito dalle corti e dai cortigiani del 1700, questo ideale fu rapidamente assorbito dal ceto borghese. I beni erano rispettabili e desiderabili indipendentemente dalle necessità di vita che potevano soddisfare. Le nuove teorie economiche e filosofiche spiegavano che libertà significava libertà dalla restrizioni per gli investimenti privati, libertà di profitto e di accumulazione privata.

Non c'è da meravigliarsi che per gli economisti del tempo non esistesse un problema di usura delle risorse naturali né di inquinamento; le risorse della natura erano considerate ricchezze a cui l'uomo può attingere per il proprio progresso, gratuite e illimitate. E quando le risorse di un territorio avessero rischiato di impoverirsi c'era sempre un altro territorio - le colonie sud-americane, africane o asiatiche, o l'ovest americano - a cui attingere.

Sfruttamento della natura significava anche sfruttamento degli esseri umani; l'imprenditore aveva bisogno di avere mano d'opera abbondante a basso prezzo - uomini, donne, bambini - sotto mano, vicino alle fabbriche, le quali nacquero e si insediarono all'interno del tessuto urbano; la città diventò quindi sede di fabbriche inquinanti e centro di raccolta del proletariato, ammassato in case sudicie, malsane e costose.

Il risultato fu l'“impero del disordine“, la società della bruttura e della sporcizia. “La città industriale (che e' condizione fondamentale per la produzione capitalistica) trasforma - come scrisse Engels - qualsiasi acqua in fetido liquame di scolo“.


La rottura del ricambio organico fra uomo e terra


Al sorgere dalla società paleotecnica e al consolidarsi dei rapporti di produzione capitalistici, con la loro azione cieca, violenta, distruttiva, può essere fatto risalire lo sradicamento su larga scala dell'uomo dall'ambiente naturale.

Con l'immigrazione del proletariato nelle città industriali le terre agricole meno produttive restarono abbandonate, esposte all'erosione; lo sfruttamento intensivo venne trasferito all'agricoltura, con conseguente impoverimento della fertilità del suolo.

Come scrive Marx ne “Il Capitale“, “il modo di produzione capitalistico porta a compimento la rottura dell'originario vincolo di parentela che legava agricoltura e manifattura. Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri essa turba il ricambio organico fra uomo e terra, l'eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo“.

Marx era contemporaneo di Darwin, di Liebig, che aveva spiegato l'impoverimento del suolo in seguito alle colture intensive, di Haeckel che nel 1866 aveva introdotto il concetto e il termine di “ecologia“, di George Marsh che nel 1864, col suo libro “L'uomo e la natura, ossia la superficie terrestre modificata per opera dell'uomo“, aveva denunciato i pericoli dello sfruttamento imprudente della natura.

La fine del secolo scorso e l'inizio del XX secolo furono segnati da numerosi eventi di “progresso“ tecnico ed economico accompagnati da effetti disastrosi sulla natura e sull'ambiente.

La “corsa all'ovest“ nell'America settentrionale ebbe effetti così gravi sulle risorse naturali, sulla fertilità dei pascoli, che spinse i governanti a creare i primi parchi nazionali e ad avviare, già nei primi anni del XX secolo, iniziative per la conservazione della natura e delle sue risorse.

Nacquero, ma trovarono ben poca applicazione, le prime idee di nuove città, di un diverso rapporto fra città e campagna. Si ebbero i primi segnali di scarsità delle risorse naturali: l'economista Jevons avvertì (nel 1865) che le miniere inglesi di carbone si sarebbero esaurite se fosse continuato il ritmo di sfruttamento; i giacimenti cileni di nitrato di sodio mostrarono, all'inizio del 1900, i primi segni di impoverimento; le foreste brasiliane di piante della gomma, sfruttate irrazionalmente, indicarono che la gomma avrebbe potuto scarseggiare.

La grande crisi del 1929-1933, l'avvento dei fascismi in Italia, Germania, Spagna, Giappone, le difficoltà della società sovietica furono eventi così gravi da lasciare in secondo piano l'attenzione per le risorse naturali. Anche le buone idee furono spazzate via dalla grande tragedia della seconda guerra mondiale (1939-1945) che si chiuse con l'invenzione dell'energia atomica e la prima grande paura sul destino dell'umanità.

La fabbricazione della bomba atomica fu l'evento che diede per la prima volta agli esseri umani la sensazione che le forze che potevano essere scatenate con la tecnica avevano dimensioni e potenza senza precedenti: le bombe atomiche potevano realizzare la distruzione dell'umanità a milioni di persone per volta e i residui radioattivi potevano disperdersi nell'intera biosfera raggiungendo livelli di pericolosità tali da compromettere la stessa sopravvivenza dell'intera umanità.

Già dopo le esplosioni delle prime bombe atomiche nel 1945 sorse violenta la polemica sulla moralità, anche ecologica, delle nuove armi; tale polemica si fece ancora più accesa negli anni successivi quando le esplosioni sperimentali di bombe atomiche nell'atmosfera dimostrarono come l'aumento del livello di radioattività nella biosfera stesse superando i limiti considerati di sicurezza.

Si ebbe cosi' la prima presa di coscienza collettiva che agli effetti delle nuove tecniche non potevano fare da freno i confini politici; le sostanze contaminanti superavano gli oceani e i continenti e addirittura le conseguenze biologiche negative degli atomi radioattivi “liberati“ nell'ambiente dalle reazioni nucleari potevano farsi sentire per secoli e millenni, coinvolgendo le generazioni future.

Il perfezionamento dei metodi di indagine sperimentale permise identificare altre conseguenze planetarie delle attività tecniche. Uno dei casi più clamorosi fu offerto dall'uso indiscriminato dei pesticidi. Già nel 1950 si era osservato, ad esempio, che il DDT si accumulava nel grasso degli animali e che poteva costituire, a lungo andare, un pericolo grave per la salute umana.

L'attenzione dell'opinione pubblica fu richiamata su questo problema dal libro di Rachel Carson “Primavera silenziosa“ (1962) che mise in evidenza che alcuni paesi riuscivano a liberarsi dei parassiti delle loro coltivazioni agricole mettendo in circolazione nell'intero pianeta delle sostanze tossiche che compromettevano la sopravvivenza di molte specie viventi dalle quali dipende la sopravvivenza della specie umana.

Il vantaggio economico di alcuni era ed e', quindi, pagato dalla comunità umana, anche da quelli che sono esclusi dai “benefici“ agricoli dell'uso dei pesticidi.  Per la prima volta in modo esplicito ci si e' resi conto che la salvezza dai pericoli di un uso irrazionale della tecnica risiede nel “coraggio di dire 'no'“ a tale uso.

Nei primi anni sessanta fu vietato l'uso dei pesticidi non biodegradabili e nel 1962 si arrivo' ad un accordo internazionale che vietava l'uso delle esplosioni sperimentali di bombe atomiche nell'atmosfera.

A partire dagli anni sessanta una maggiore sensibilità dell'opinione pubblica ha cominciato a prestare maggiore attenzione ai segni e ai guasti di un uso imprevidente della tecnica, sollecitato da una disordinata e paleotecnica crescita economica e merceologica.

Incidenti a fabbriche, esplosioni di centrali nucleari, contaminazione delle acque, proliferazione eccessiva di alghe nei mari, impoverimento delle risorse idriche, erosione del suolo, distruzione delle foreste, congestione e inquinamento delle città, perdite di petrolio nel mare, furono soltanto alcuni di tali segni.

Nel 1966 e' stato introdotto il concetto nuovo di considerare la Terra come una navicella spaziale: Spaceship Earth. Ci si e' resi conto che questo nostro pianeta e' l'unica casa che abbiamo nello spazio, una casa comune a tutti. Le nostre risorse possono essere tratte tutte e soltanto da questa navicella spaziale e tutte le scorie, i sottoprodotti e i rifiuti restano dentro il nostro pianeta. Non ci si può illudere di prendere risorse da altri corpi celesti o di smaltire i nostri rifiuti negli spazi interplanetari.

Per comprendere il significato delle lotte ecologiche degli anni settanta del Novecento non si deve dimenticare che nel corso dei precedenti anni sessanta una protesta “ecologica“ (anche se non si chiamava cosi') e' cominciata già fra i lavoratori, nelle fabbriche.

Il movimento operaio ha cominciato ad analizzare le condizioni di lavoro, il pericolo costituito dal contatto con sostanze sempre più dannose.

Il miracolo economico italiano - ma in generale dei paesi industrializzati - e' stato possibile attraverso un maggiore sfruttamento dei lavoratori che venivano avvelenati nelle fabbriche, proprio come i loro familiari venivano avvelenati fuori dalle fabbriche.

Si tratta di una pagina delle lotte ecologiche tutta da scrivere e che ha portato gli operai ad introdurre delle considerazioni “ambientali“ nei contratti di lavoro, a chiedere che la concentrazione delle sostanze tossiche nell'aria delle fabbriche non superasse dei limiti di sicurezza - le massime concentrazioni ammissibili (o MAC).


Gli anni settanta del secolo scorso


La prima grande ondata di “contestazione ecologica“ che ha coinvolto l'opinione pubblica si e' avuta fra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta di questo secolo. Sull'onda di una contestazione giovanile cresciuta nella costa occidentale degli Stati Uniti, ben presto in tutto il mondo si e' come scoperto che, nel nome della tecnica, divinizzata come liberatoria, le città diventavano congestionate e inquinate, l'aria delle fabbriche era irrespirabile, l'acqua dei fiumi e del mare era contaminata, i cibi contenevano residui di pesticidi.

Alcuni denunciarono che tali distorsioni non erano dovute alla tecnica in se', ma all'uso della tecnica fatto nel nome del profitto.

L'ecologia divenne così la bandiera di una protesta “di sinistra“ che metteva in discussione le radici stesse della società capitalistica. Ben presto i governi e le forze economiche si adoprarono per arginare la protesta e per riportarla nella “normalità“.  I fumi tossici potevano essere filtrati, si potevano inventare pesticidi meno velenosi, le acque potevano essere trattate e depurate.

La scienza economica capitalistica sapeva offrire adeguati strumenti - imposte, sovvenzioni, divieti - per ridurre i danni ambientali senza bisogno di fermare la corsa verso il “progresso“, inteso come aumento dei consumi e degli sprechi delle risorse naturali scarse.

Sfortunatamente non e' stata ancora scritta una storia di questa prima importante fase della contestazione ecologica, di quella che si potrebbe chiamare la “primavera dell'ecologia“.

Nel 1972 si tenne a Stoccolma la Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente umano nel corso della quale furono firmati documenti di alto contenuto etico, ma ben poco efficaci come norme per nuovi comportamenti. Nello stesso 1972 fu pubblicato un celebre libro intitolato: “I limiti alla crescita“, nel quale fu spiegato che se non si fosse posto un limite all'uso irrazionale delle risorse naturali, se non si fosse cambiata la tecnica di produzione e di uso delle merci, se non si fosse rallentato o fermato l'aumento della popolazione mondiale, l'umanità in pochi decenni sarebbe andata incontro a epidemie, guerre, fame.

Un segno della fondatezza dell'allarme fu rappresentato dalla prima crisi petrolifera del 1974-1980; davanti al pericolo di un esaurimento delle proprie riserve di petrolio, i paesi esportatori imposero un aumento del prezzo di questa materia essenziale.

Per alcuni anni furono proposte nuove vie di austerità nell'uso delle risorse naturali, ma si tratto' di una breve stagione; le grandi “potenze“ riuscirono a mettere in guerra fra loro i paesi petroliferi, a rompere la loro solidarietà e ben presto i prezzi del petrolio tornarono bassi, col che si ebbe una nuova espansione della produzione e dei consumi: i ruggenti anni ottanta.

Contemporaneamente si moltiplicarono i segni delle conseguenze di una tecnica “economica“ ma imprevidente. Incidenti a fabbriche chimiche (quello di Seveso fece, più di altri, impressione sull'opinione pubblica), incidenti ai reattori nucleari, perdita in mare di petrolio, frane e alluvioni, inquinamento e congestione urbana.


Uno sviluppo sostenibile ?


L'ultimo decennio del ventesimo secolo e' stato caratterizzato da un crescente interesse per l'edificazione di una società sostenibile, capace cioè di soddisfare i bisogni della nostra generazione lasciando alle generazioni future risorse in quantità sufficiente per soddisfare le loro.

Al tema della società sostenibile e' stata dedicata la Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992 e conclusasi con alcune generiche dichiarazioni di buona volontà, ma con nessun serio impegno di cambiamento.

Ci si rende conto che l'aumento del consumo di combustibili fossili fa aumentare la concentrazione dell'anidride carbonica nell'atmosfera con modificazioni del clima futuro; che certe merci considerate brillanti soluzioni tecniche modificano il flusso di radiazione solare sulla Terra, gli equilibri dell'intero pianeta; che molte soluzioni tecniche apparentemente brillanti fanno uscire da una trappola tecnologica per farci cadere in un'altra.

Ma manca il coraggio di chiedere ai paesi ricchi di limitare i loro consumi e i loro sprechi, di trasferire nei paesi poveri conoscenze tecnico-scientifiche che li aiutino ad avviarsi sulla strada di un reale sviluppo umano.

Ciascuna di queste azioni radicali metterebbe, infatti, in discussione le regole di base della attuale società capitalistica, del libero mercato, che e' dominante oggi anche nei paesi che in passato avevano prestato attenzione alla pianificazione e ad un contenuto socialista, nell'interesse collettivo, dello sviluppo.

Ebbene il nostro attuale modello di crescita merceologica e' insostenibile. Occorre cercarne un altro.


Alla ricerca di una società neotecnica


Già nella prima meta' del XX secolo alcuni pensatori - Geddes nel 1914, Mumford nel 1934 - avevano riconosciuto che dalle trappole tecnologiche sarebbe stato possibile uscire soltanto con un cambiamento di qualità della tecnica stessa e avevano auspicato il passaggio dalla società paleotecnica del loro - e del nostro - tempo, ad una società neotecnica.

Le risorse del pianeta sono sufficienti a soddisfare i bisogni fondamentali della popolazione attuale e anche di una popolazione un po' (ma non troppo) superiore purché si faccia ricorso a materie prime, a merci e servizi ben diversi dagli attuali, anche se forniti dalla tecnica. Ma le soluzioni tecniche non bastano. L'analisi delle varie crisi delle risorse naturali mostra che esse sono dovute allo scontro fra interessi privati e beni collettivi; allo sfruttamento privato di risorse, come l'aria o l'acqua o i prodotti del suolo, che a rigore non hanno un padrone.

La crisi ecologica e' sostanzialmente crisi dei beni collettivi; alcuni hanno benefici senza alcun costo; tengono, per esempio, calda la propria casa, il proprio oikos, scaricando i rifiuti all'esterno, nell'ambiente, in una più vasta casa d'altri; alcuni costruiscono la propria casa tagliando i boschi, la cui perdita provocherà frane e alluvioni da cui saranno travolti loro stessi e altri, e così via.

Nelle nostre leggi e' ben identificato il furto compiuto da una persona ai danni di un'altra, ma nessuna legge punisce chi si appropria dei, o sporca i, beni “di tutti“, collettivi.

Nel tentare di descrivere una società neotecnica Lewis Mumford ha parlato della necessita' di una pianificazione dei mezzi con cui soddisfare i bisogni fondamentali e dei processi tecnici per ottenerli, del potenziamento dei servizi e dei beni collettivi anche alla luce della necessità di limitare lo sfruttamento delle risorse naturali.

La soluzione può essere cercata in quello che Mumford chiama “comunismo di base“, ben diverso dal comunismo burocratico e assolutista dei paesi del socialismo “realizzato“.

Mumford propone un “comunismo di fondo, che implichi l'obbligo di partecipare al lavoro della comunità“, che consenta di soddisfare i bisogni fondamentali con una pianificazione della produzione e del consumo.

“La sola alternativa a questo comunismo - continua Mumford - e' l'accettazione del caos: le periodiche chiusure degli stabilimenti e le distruzioni, eufemisticamente denominate 'valorizzazioni', dei beni di alto valore, lo sforzo continuo per conseguire, attraverso l'imperialismo, la conquista dei mercati stranieri. Se vogliamo conservare i benefici della macchina non possiamo permetterci il lusso di continuare a rifiutare la sua conseguenza sociale, ossia l'inevitabilità di un comunismo di base.

“Questa prospettiva appare ingrata all'operatore economico di stampo classico, ma sul piano umano non può non rappresentare un enorme progresso“.

La tecnica e' destinata ad avere un ruolo fondamentale nella gigantesca sfida fra i mezzi per soddisfare, secondo giustizia, i bisogni di una popolazione mondiale che aumenta in ragione di 1000 milioni al decennio e un mondo di risorse limitate, esposto a violenza attraverso gli inquinamenti, la contaminazione ecologica, l'impoverimento delle foreste e delle riserve di acqua dolce.

In questo inizio del XXI secolo appare che il tempo per avviarsi verso la scoperta di una “nuova tecnica“, di una “neotecnica“ e' poco, tanto più che non vi sono segni di una svolta nelle fabbriche, nei laboratori universitari, nella mentalità delle persone.

Chi può deve avvertire l'opinione pubblica - nelle scuole, nelle chiese, nei partiti - della necessita' di un cambiamento. Chi non vuole ascoltare deve essere avvertito che, se non con le buone, il cambiamento ci sarà, comunque, imposto con la violenza, da altre guerre e conflitti per la conquista o la difesa delle risorse naturali o dalla ribellione della stessa natura.



http://www.fondazionemicheletti.it/magazine.asp?id_call=476&articolo=y&id_sezione=13



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