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Transdisciplinare
Intercultura
Milano - A colloquio con una facilitatrice d'apprendimento della scuola Trotter

Lingua: Italiana
Destinatari: Insegnanti, Formazione post diploma
Tipologia: Materiale per autoaggiornamento

Abstract:

L'emergenza che cambia il punto di vista
intervista di Marcello Andreetti

A colloquio con una facilitatrice d'apprendimento della scuola Trotter: non soltanto un aiuto indispensabile per far imparare l'italiano ai bambini stranieri, ma anche l'occasione per creare momenti di integrazione vera e reciproca conoscenza tra i bambini, le famiglie, le culture. Anche per Mirella, il confronto vero con l'altro, il confronto drammatico che scaturisce da una situazione d'emergenza, diventa l'occasione per migliorare complessivamente un sistema - la scuola - a beneficio di tutti.

Quando e perché nasce il "progetto stranieri" di questa scuola?
Il primo progetto di Milano sugli stranieri è stato quello della scuola di via Giusti, situata in zona Paolo Sarpi, da sempre ad alta densità di immigrazione cinese; in seguito una parte di cinesi si è spostata nelle periferie, e soprattutto nella zona dove sorge la scuola, tra via Padova e viale Monza, dove sono situate le loro case-laboratorio, ecco che alla fine degli anni '80 al Trotter iniziano ad arrivare molti stranieri. A questo punto è nata l'esigenza contingente di adottare un progetto specifico, e con essa viene creata la particolare e nuovissima figura del facilitatore d'apprendimento, rivolta alla mediazione culturale.

Come è strutturato esattamente il progetto stranieri di questa scuola?
Nel '95, quando è nato il progetto stranieri, questo istituto non era "comprensivo", era composto da scuola elementare e scuola media, separate, da quel momento c'è stato l'accorpamento, con un unico dirigente.
Il progetto nelle elementari, in realtà, è nato verso la fine degli anni '80, mentre poi con l'unificazione, anche il progetto è diventato comune.
Su questo programma oltre agli insegnanti di classe lavoriamo noi facilitatori d'apprendimento: siamo insegnanti staccati dalla classe, che si fanno carico dell'alfabetizzazione dei bambini, dell'accoglienza, dell'inserimento e dell'integrazione sociale e scolastica.
I gruppi di bambini, omogenei per livello, lavorano nel laboratorio linguistico, all'esterno della classe. Più precisamente lavoriamo su tre livelli distinti: il livello 0, costituito dai bambini appena arrivati che non conoscono affatto la lingua italiana; il livello 1, con i bambini che hanno competenze linguistico-comunicative di base; il livello 2, con bambini che hanno buone competenze, ma che devono consolidare l'italiano cosiddetto dello studio; quest'ultimo è lo scoglio più difficile da superare, perché i libri di testo non sempre sono facilissimi da comprendere.
Per poter acquisire una buona capacità di apprendimento, questi bambini necessitano quindi di un supporto mirato, magari con testi semplificati ad hoc da noi insegnanti, non esistendone di specifici.
Si lavora dunque solo con bambini stranieri, suddivisi non per etnia ma per gruppi di livello omogeneo.

Qual è la percentuale di bambini stranieri?
Il 25% dei 715 alunni sono stranieri: per la maggior parte cinesi e nordafricani, ma dallo scorso anno abbiamo assistito ad un aumento di filippini, singalesi, e anche di bambini provenienti dall'Europa dell'est: Bulgaria, Turchia e Romania; per la prima volta si è inoltre fermata la crescita dell'utenza cinese.

Puoi spiegare meglio che tipo di lavoro svolgete?
Oltre a lavorare sull'accoglienza e sul laboratorio, lavoriamo anche sull'intercultura. Sui progetti interculturali non si lavora più soltanto con i bambini stranieri, ma con tutta la classe, coinvolgendo anche l'insegnante "tradizionale". Come esempio posso citare il progetto "conoscersi con i libri", di qualche tempo fa, per il quale abbiamo allestito una biblioteca interculturale su uno spazio di 700 mq, dove sono stati anche esposti libri realizzati dagli alunni e manufatti costruiti da tutti i bambini dell'Istituto. Questo spazio multiculturale è stato poi animato da performance musicali e teatrali, sia interne che esterne, con dibattiti e incontri ai quali hanno partecipato diverse associazioni culturali e alcuni artisti africani. Questa manifestazione ha avuto un enorme successo, ma è solo un esempio, poi tutti gli anni ci sono rappresentazioni teatrali organizzate nell'ambito antropologico e dell'identità, cioè relativamente alla conoscenza di sé e dell'altro; si vanno a trovare analogie e differenze sia fisiche che emozionali, senza nascondere la diversità, e anzi renderla il più manifesta possibile: questo permette ai bambini italiani di avere una conoscenza diretta dell'"altro", e a quelli stranieri di vedere valorizzata la propria cultura.
Un altro progetto che curo personalmente è quello della storia del proprio nome e del suo significato: qui vengono coinvolti anche i genitori, invitandoli a scrivere una lettera simbolica al proprio figlio. Molto interessante diventa così il momento della lettura comune delle lettere di ciascun bambino, dove il papà e la mamma raccontano perché hanno scelto quel nome, e qual'è il suo significato. Tutto ciò suscita nei ragazzi molta emozione.

Com'è l'integrazione fra bambini o famiglie di etnie differenti all'interno e all'esterno della scuola? Ci sono amicizie miste?
All'interno della scuola i bambini, soprattutto alle elementari, sono abbastanza integrati, e non abbiamo mai avuto nessun problema, mentre ho notato che nella fascia delle medie i ragazzi tendono a trovarsi più facilmente con "i pari", e credo che un'integrazione sociale vera e propria non ci sia ancora.
Dal canto loro la maggior parte dei genitori italiani del Trotter hanno una certa apertura mentale, quindi appoggiano e incoraggiano i nostri progetti, partecipandovi anche attivamente.
Per gli stranieri dipende dal Paese di provenienza. I cinesi sono molto chiusi, ma hanno anche un'estrema fiducia nei confronti della scuola, per cui delegano molto; poi sono in pochi a conoscere l'italiano, e sono più che altro i loro figli a fare da interpreti. Queste famiglie difficilmente partecipano alle attività scolastiche: vengono a scuola esclusivamente in occasione dei colloqui, e soltanto quando mandiamo un invito scritto che assicura la presenza di una mediatrice cinese. Ci vuole insomma un'ufficialità per farli venire.

Che cosa fate per cercare di rompere le barriere culturali più tenaci?
Essendo quella cinese l'etnia più difficile, in questi anni abbiamo fatto molte cose per loro: abbiamo portato avanti per un anno un progetto di visita alle famiglie, (in Cina è l'insegnante ad andare a casa dei genitori per parlargli), nel quale, insieme ad un mediatore culturale di italiano che conosce il cinese, siamo andati nelle case a visitare le famiglie, per cercare di conoscere meglio la loro realtà, sincerandoci di eventuali necessità, perché la scuola potesse diventare punto di riferimento anche per altre cose all'infuori dello studio.
Sempre per rompere la barriera linguistica con i cinesi, creando un ponte scuola-famiglia, abbiamo un progetto con una mediatrice cinese, che in qualunque momento è a disposizione per comunicare con le famiglie. Per gli stessi bambini cinesi abbiamo inoltre organizzato dei corsi di lingua cinese perché tra le varie ricerche effettuate, si è appurato che è più facile apprendere una lingua se si mantiene la conoscenza della propria.
L'anno scorso abbiamo celebrato poi le "altre festività", tra cui la "Festa delle Lanterne", che chiude il capodanno cinese, e abbiamo organizzato alcuni laboratori sempre sulla cultura cinese, e poi la sera c'è stata la sfilata di tutti i bambini con le lanterne.

È ripetibile in altre scuole il modello del Trotter?
Le esigenze del territorio su cui operiamo non devono nascondere il fatto che tutte le scuole dovrebbero, e forse in futuro lo faranno, lavorare nella maniera in cui lo stiamo facendo noi, perché la scuola deve dare una risposta al fenomeno sempre crescente dei flussi migratori, e poi questo è un modo di dare una connotazione positiva alla tanto discussa globalizzazione.
Speriamo soltanto, vista la situazione politica attuale, che i progetti non subiscano tagli ai finanziamenti. Cosa che parzialmente è già avvenuta per le risorse, visto che il numero dei facilitatori è stato ridotto quest'anno da cinque a tre, mentre gli alunni stranieri sono sempre più numerosi.
Non si può pensare che un insegnante normale possa farsi carico di tutte le peculiarità legate agli alunni stranieri, per cui bisogna chiarire che senza i facilitatori, la "didattica dell'integrazione" diventa irrealizzabile, a causa dei troppi e diversi bisogni.

Da quanto fai questo lavoro? E qual è la tua formazione?
Lo faccio da sette anni. Sono maestra elementare; avevo lavorato in passato sul progetto nomadi, così quando sono arrivata qui sono stata assegnata al progetto stranieri.
È stata un'esperienza bellissima e di grande ricchezza, che mi ha rimesso per così dire in discussione, e che tuttora non considero esaurita.
Lavorando con i bambini stranieri mi sono trovata a pormi per la prima volta alcuni interrogativi; io ad esempio sono sarda, ma non mi ero mai fermata a riflettere sulla mia origine e sulle peculiarità culturali della mia terra.
Mi ricordo che agli inizi degli anni '80 mi trovai di fronte per la prima volta un alunno straniero: fu inserito in classe e si pretendeva che facesse esattamente quello che facevano gli altri: non ci si pose nemmeno il problema della diversità, puntando sulla cultura dell'assimilazione. Penso che in questo modo diventi davvero difficile integrarsi. Un esempio: una volta si suggeriva di parlare l'italiano anche a casa, adesso consigliamo invece di continuare ad usare la propria lingua per non perderla. Posso dire che è stata l'emergenza a farci cambiare punto di vista.

http://www.casadellacultura.it/cec/01_milano_vostri_occhi/03_melting_pot/003_trotter.php



http://www.lascuolasiamonoi.org/articolo.php?id_art=77



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