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Transdisciplinare
Filosofia
Aldo Capitini: Teoria della nonviolenza

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia: Ipermedia

Abstract:

Quaderno 3. Aldo Capitini, Teoria della nonviolenza


"Tanto dilagheranno violenza e materialismo che ne verra’ stanchezza e disgusto; e dalle gocce di sangue che colano dai ceppi della decapitazione salira’ l’ansia appassionata di sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’errore..."
domenica 10 aprile 2005, di Peppe Sini -

Corso di educazione alla pace presso il liceo scientifico di Orte, anno scolastico 2004-2005

Materiali per la riflessione. 3

ALDO CAPITINI TEORIA DELLA NONVIOLENZA

Testo estratto da "La nonviolenza è in cammino"

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Premessa

Il testo seguente è estratto dai nn. 771-772 dell’8-9 gennaio 2004 del notiziario telematico quotidiano "La nonviolenza è in cammino", edito dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo. Esso riproduce l’opuscolo che riporta alcuni testi di Aldo Capitini, Teoria della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1980 (richiedibile presso la redazione di "Azione nonviolenta", e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org). Aldo Capitini e’ nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato, docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per la nonviolenza e la pace. E’ morto a Perugia nel 1968. E’ stato il piu’ grande pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini: la miglior antologia degli scritti e’ (a cura di Giovanni Cacioppo e vari collaboratori), Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche’ integrale - ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell’epoca - bibliografia degli scritti di Capitini); recentemente e’ stato ripubblicato il saggio Le tecniche della nonviolenza, Linea d’ombra, Milano 1989; una raccolta di scritti autobiografici, Opposizione e liberazione, Linea d’ombra, Milano 1991, nuova edizione presso L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2003; e gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996; segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta. Carteggio con Sara Melauri, Edizioni Associate, Roma 1991. Presso la redazione di "Azione nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org) sono disponibili e possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di Capitini non piu’ reperibili in libreria (tra cui i fondamentali Elementi di un’esperienza religiosa, 1937, e Il potere di tutti, 1969). Negli anni ’90 e’ iniziata la pubblicazione di una edizione di opere scelte: sono fin qui apparsi un volume di Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un volume di Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, seconda edizione ampliata, Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998. Opere su Aldo Capitini: oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno: Giacomo Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di), Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988; Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini. Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi Aldo Capitini", Elementi dell’esperienza religiosa contemporanea, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume monografico de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante, La realta’ liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999; Pietro Polito, L’eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta 2001; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in Angelo d’Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001; per una bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro di Pietro Polito citato; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini sono nel sito dell’Associazione nazionale amici di Aldo Capitini: www.cosinrete.it Per contattare il Centro di ricerca per la pace di Viterbo: recapito postale: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo; recapito telefonico: 0761353532; recapito di posta elettronica: nbawac@tin.it Il responsabile del centro, e direttore responsabile del notiziario da cui è estratto il testo di seguito presentato, è il coordinatore del corso di educazione alla pace che si svolge presso il liceo scientifico di Orte.

Orte, 13 dicembre 2004

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ALDO CAPITINI: TEORIA DELLA NONVIOLENZA

Principi di nonviolenza La nonviolenza risulta dall’insoddisfazione verso cio’ che, nella natura, nella societa’, nell’umanita’, si costituisce o si e’ costituito con la violenza; e dall’impegno a stabilire dal nostro intimo, unita’ amore con gli esseri umani e non umani, vicini e lontani. La manifestazione piu’ concreta ed anche piu’ evidente di questa unita’ amore e’ l’atto di non uccidere questi esseri e di non operare su di loro mediante l’oppressione e la tortura. Questo impegno non e’ che un punto di partenza (come nessuno nella poesia, nella musica, puo’ pretendere di esaurirle), e le imperfezioni del nostro atto di unita’ amore non possono essere compensate che dal proposito di essere attivissimi in essa, nel tu che diciamo agli esseri nella loro singola individualita’, mai dicendo che basta. La nonviolenza non e’ l’esecuzione di un ordine, ma e’ una persuasione che pervade mente, cuore ed agire, ed e’ un centro aperto: il che significa che ognuno prende l’iniziativa di unita’ amore senza aspettare che prima tutti si innamorino, e la concreta in modi particolari che egli decide con sincerita’, e con dolore per ogni limite e impedimento che lo stato attuale della realta’-societa’-umanita’ ancora mette a sviluppare pienamente questa unita’ con tutti. Vi sono, dunque, tanti gradi e tante espressioni della nonviolenza, ma, al punto in cui siamo, esse si concentrano in un modo fondamentale, che e’ di non uccidere esseri umani. Mentre si sta stabilendo, oggi piu’ che mai, anche economicamente politicamente culturalmente, l’unita’ mondiale dell’umanita’, l’atto di affetto all’esistenza di ogni essere umano ci porta al punto di questa unita’ umana. Verso gli altri esseri viventi ma non umani, come gli animali e le piante, tutto cio’ che e’ fatto nell’affetto e rispetto alla loro esistenza, apre l’unita’ amore anche a loro e abitua a sentire, di riflesso, il valore del non uccidere esseri piu’ complessi e piu’ simili a noi, come sono gli uomini. La prassi del vegetarianesimo ha percio’ grande importanza. La nonviolenza non e’ soltanto contro la violenza del presente, ma anche contro quelle del passato; e percio’ tende a un rinnovamento della realta’ dove il pesce grande mangia il pesce piccolo, della societa’ dove esiste l’oppressione e lo sfruttamento, dell’umanita’ nella sua chiusura egoistica e nelle sue abitudini conformistiche e gusto della potenza. Ma finche’ diamo col pensiero e con l’atto la morte, non possiamo protestare contro la realta’ che da’ la morte. E perche’ la societa’ non torni sempre oppressiva sotto un nome od un altro, deve cambiare l’uomo e il suo modo di sentire il rapporto con gli altri: la nonviolenza e’ impegno alla trasformazione piu’ profonda, dalla quale derivano tutte le altre; e percio’ non si colloca nella realta’ pensando che tutto resti com’e’, ma sentendo che tutto puo’ cambiare, e che com’e’ stata finora la realta’ societa’ umanita’ non era che un tentativo secondo i modi della potenza e della distruzione, e che vien dato un nuovo corso alla vita con i modi dell’unita’ amore e della compresenza di tutti. La nonviolenza e’ in una continua lotta, con le tendenze dell’animo e del corpo e dell’istinto e la paura e la difesa, con la realta’ dura, insensibile, crudele, con la societa’, con l’umanita’ nelle sue attuali abitudini psichiche: non puo’ fare compromessi con questo mondo cosi com’e’, e percio’ il suo amore e’ profondo, ma severo; ama svegliando alla liberazione e sveglia alla liberazione amando; quindi distingue nettamente tra le persone e gli esseri tutti che unisce nell’amore, tutti avviati alla liberazione, e le loro azioni, delitti, peccati, stoltezze, assumendo il compito di aiutare questi esseri ad accorgersi del male, e, se proprio non e’ possibile altro, contribuendo a liberarli dando, piu’ che e’ possibile, il bene. La nonviolenza e’ attivissima, per conoscere gli aspetti della violenza e smascherarli impavidamente; per supplire all’efficacia dei mezzi violenti col moltipllcare i mezzi nonviolenti, facendo percio’ come le bestie piccole che sono piu’ prolifiche delle grandi; per vincere l’accusa e il pericolo intimo che essa sia scelta perche’ meno faticosa e meno rischiosa; per dare effettivamente un contributo alla societa’, che ci da’, in altri modi. altri contributi. Proprio in questo tempo la nonviolenza ha il suo preciso posto nell’indicare una svolta decisiva e nell’inserire il fatto nuovo. Che non si veda un altro impero romano e un altro impero barbarico, e sempre oppressioni e rivolte, nascere e uccidere e morire, e l’uomo dolorante e illusoriamente lieto, perche’ ancora non ha imparato a fondo quanto dinamismo rinnovatore hanno l’interiorita’, la liberta’, l’amore. Proprio appassionandoci per l’esistenza degli esseri viventi, rispettandoli piu’ che si puo’, e dolendoci della loro morte, noi impariamo a sentire immortali i morti e uniti all’intima presenza. Chi e’ nonviolento e’ portato ad avere simpatia particolare con le vittime della realta’ attuale, i colpiti dalle ingiustizie, dalle malattie, dalla morte, gli umiliati, gli offesi, gli storpiati, i miti e i silenziosi, e percio’ tende a compensare queste persone ed esseri (anche il gatto malato e sfuggito) con maggiore attenzione e affetto, contro la falsa armonia del mondo ottenuta buttando via le vittime. La nonviolenza e’ impegnata a parlare apertamente su cio’ che e’ male, costi quello che costi, non cedendo mai su questa liberta’, e rivendicandola per tutti; e a non associarsi mai a compiere cio’ che ritiene il male. Contro imperialismo, tirannia, sfruttamento, invasione, il metodo della nonviolenza e’ di non collaborare al male; e di creare difficolta’ all’esplicazione di quei modi, senza sospendere mai l’amore per le singole persone, anche autrici di quei mali, ma non esaurentisi in essi; cosi’ si riconosce di avere un alleato alla solidarieta’ che si stabilisce tra gli oppressi, nell’intimo stesso degli oppressori. Chi e’ persuaso della nonviolenza tende alla comunita’ aperta, e percio’ a mettere in comune il piu’ largamente le sue iniziative di lavoro, la proprieta’, non sfruttatrice, che egli possiede, la cultura (partecipando e celebrando i valori culturali con altre persone), la liberta’ (favorendola con altri in assemblee nonviolente per il controllo e lo sviluppo amministrativo della vita). (Principi elaborati per il Centro di Perugia per la Nonviolenza costituito nel 1952)

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La nonviolenza nella prospettiva individuale e in quella sociale

La nonviolenza e’ lotta Agli uomini usciti dalle guerre, agli animi che sentono il peso di un’immensa stanchezza e il bisogno di un riposo che talvolta e’ perfino sogno di annullamento e piu’ spesso e’ idoleggiamento di uno stato lento, comodo, col gusto di piaceri che non vengano tolti; prospettare l’idea e le conseguenze della nonviolenza produce un urto doloroso; ed essi domandano tra stizziti e allarmati: "ma e’ cosi difficile ricomporre una vita tranquilla, una casa, un orario giornaliero, e la fruizione dei beni della terra; e bisogna invece affrontare un problema cosi sconcertante e paradossale? Noi vogliamo la pace, l’umanita’ vuole, merita la pace". Penso che questa gente abbia una sensazione esatta. E’ un errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo, matrimoni e figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna ammaccatura nel proprio corpo. La nonviolenza non e’ l’antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui tutto infranto, li’ tutto intatto. La nonviolenza e’ guerra anch’essa, o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata. La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa. La nonviolenza fa bene a non promettere nulla del mondo, tranne la croce. E quegli uomini che dicevo prima non vogliono la croce: disfatti o disorientati preferirebbero ritagliarsi una parte anonima della vita, con uno stipendio immancabile, e frequenti "bicchierini" per tirare avanti. Gli uomini, la civilta’ infine del "bicchierino" per reggere; e il bicchierino puo’ essere liquore, fumo, vincita di lotteria, vita sensuale, un appoggio insomma che ci sia realmente, un qualche cosa di sensibile, che dica all’uomo attraverso un piacere: tu sei. Questi uomini furono ingannati perfettamente dal fascismo, il quale di rado era scomodo, ma nell’insieme ordinato e piacevole; e quando divenne pieno di punte problematiche quegli uomini gli si ribellarono contro con una sincerita’ tale come se gli fossero stati avversi dall’inizio. Per scoprire l’inganno del fascismo sarebbe bisognato non prendere l’ordine per cosa assoluta; e per reagire sarebbe bisognato non prendere per cosa assoluta il comodo proprio e circostante. I regimi politici che assicurano comunque un ordine trovano sempre moltissimi che li accettano, senza badare se l’ordine esterno non e’ tradito potenzialmente da una mentalita’ sopraffattrice e avventuriera. Si diceva durante il fascismo: "Nel ’21 c’era il disordine, scioperi, i treni non partivano; il fascismo ha stabilito l’ordine, la concordia tra capitale e lavoro". E si diceva cosa insulsa; perche’ il fascismo non risolse i problemi del dopoguerra, quelli che generavano il "disordine"; e se delle due fazioni avesse invece trionfato la socialista, avrebbe essa stabilito il suo ordine; e allora e’ da discutere sull’essenza, sulla qualificazione dell’ordine: ordine fascista o ordine socialista? Che cosa fosse l’ordine fascista si poteva intrinsecamente gia’ vedere con l’occhio alla sua sostanza morale; ma si vide nel fatto: partirono, si’, i treni, ma sono partite poi anche le stazioni.

La nonviolenza non e’ appoggio all’ingiustizia Ma oltre l’equivoco della nonviolenza come pace, io vorrei chiarire e dissip are un altro equivoco, che e’ ancor piu’ insinuante e pericoloso. Nella lotta politica e sociale, necessaria in una societa’ di ingiustizia e di privilegi, la nonviolenza fa tirare un sospiro di sollievo ai tiranni di ogni specie; e questo sospiro di sollievo e’ per noi oltremodo tormentoso. Se la nonviolenza dovesse essere interpretata, o comunque risolversi in un’acquiescenza all’ingiustizia, a quella violenza di secoli cristallizzata in potere e in privilegi decorati ora di una apparente legittimita’, non ci sarebbe una piu’ tentatrice sollecitazione a metterla in dubbio ed abbandonarla. La nonviolenza non e’ soltanto rifiuto della violenza attuale, ma e’ diffidenza contro il risultato ingiusto di una violenza passata. Di quanto piu’ di violenza e’ carico un regime capitalistico o tirannico, tanto piu’ il nonviolento entra in stato di diffidenza verso di esso. Bisogna aver ben chiaro che la nonviolenza non colloca dalla parte dei conservatori e dei carabinieri, ma proprio dalla parte dei propagatori di una societa’ migliore, portando qui il suo metodo e la sua realta’. Il nonviolento che si fa cortigiano e’ disgustoso: migliore e’ allora il tirannicida, Armodio, Aristogitone, Bruto. Due grandi nonviolenti come Gesu’ Cristo e San Francesco si collocarono dalla parte degli umiliati e degli offesi. La nonviolenza e’ il punto della tensione piu’ profonda del sovvertimento di una societa’ inadeguata.

La nonviolenza e’ attiva e modesta Percio’, e cosi chiariamo il terzo equivoco, la nonviolenza e’ attivissima. La nonviolenza e’ prova di sovrabbondanza interiore, per cui all’uso della violenza che sarebbe ovvio, naturale, possibilissimo, viene sostituita, per ulteriore ricerca e sforzo, la nonviolenza. Sarebbe anche qui falsificazione intendere il nonviolento come un pedante occupato esclusivamente a torcere il volto davanti ad ogni menomo atto violento, senza addentrarsi nella vita e nei suoi motivi. Tra il nonviolento inerte e il soldato che si esercita faticosamente ed arrischia, la possibilita’ di un valore morale e’ piu’ nel secondo che nel primo. Il nonviolento deve essere attivissimo sia per conoscere le ragioni della violenza, per individuare la violenza implicita che si ammanta di legalita’ e smascherarla impavidamente; sia per supplire all’efficacia dei mezzi violenti con il moltipllcarsi dei mezzi nonviolenti, facendo come le bestie piccole che sono piu’ prolifiche (e anche sopravvivono alle specie delle bestie grandi); sia per vincere l’accusa e il pericolo intimo che la nonviolenza venga scelta perche’ meno faticosa e meno rischiosa: il nonviolento deve portarsi alla punta di ogni azione, di ogni causa giusta, appunto per curare il proprio sentimento che potrebbe stagnare e per farsi perdonare dalla societa’ la propria singolarita’. E’ noto che gli obbiettori di coscienza (cioe’ coloro che non hanno voluto collaborare alla coscrizione) sono stati uccisi a migliaia dai governi totalitari; e dove sono stati tollerati, hanno chiesto spesso servizi rischiosi e dolorosi, per esempio di sottoporsi agli esperimenti medici o di raccogliere i feriti nelle prime linee. E infine sara’ opportuno chiarire anche un quarto equivoco, che cioe’ il nonviolento pretenda essere superiore per il suo atto di nonviolenza. Non e’ l’atto di nonviolenza per se stesso, ma tutto cio’ che sta con esso e all’origine di esso, che puo’ costituire un valore. L’animo, l’intenzione, l’amore, gli sforzi fatti, quanto di proprio sacrificio ci sia stato messo: qui e’ il valore sia dell’atto di violenza che dell’atto di nonviolenza. E’ evidentissimo che tra colui che per evitare l’uccisione di un bambino si slanciasse con l’arma in mano a difenderlo a rischio di essere ucciso egli stesso, e il nonviolento che se ne stesse ben lontano e inerte, avrebbe maggior valore il primo, quando il secondo non si fosse gettato tra l’uccisore e il bambino a persuadere ed anche a offrire il suo corpo, avanti a quello del bambino, al colpo mortale.

Concetti e modi della nonviolenza Chiariti e dissolti questi equivoci, sara’ bene ora prender contatto con il concetto stesso della nonviolenza. Violenza e’ un concetto relativo all’oggetto sul quale si esercita una certa azione. Quanto meno io considero quell’oggetto in cio’ che esso e’ per se stesso, tanto piu’ mi avvio alla violenza contro di esso. La nonviolenza e’ una presa di contatto col mondo circostante nella sua varieta’ di cose, di esseri subumani, e di esseri umani, e’ un destarsi di attenzione alle singole individualita’ di tutti questi oggetti circostanti per porsi un problema: "che cosa e’ questo singolo oggetto? qual e’ la sua caratteristica, la sua vita, la sua liberta’, il suo formarsi dal di dentro?". E’ la sospensione dell’attivismo che consideri tutto, senza eccezione, come mezzo, fino a quei casi tipici che sono come il lusso e il gioco di questo attivismo, come l’incendio di Roma da parte di Nerone per vederne la bellezza, o il letto su cui il brigante greco Procuste stendeva i suoi prigionieri stirandoli o stroncandoli secondo che fossero piu’ corti o piu’ lunghi. Sospensione di attivismo che e’ attivissima moltiplicazione d’attenzione, d’interesse, di affetto, potenziamento della vita interiore proprio mediante questo collegamento in atto di tutto il reale nelle sue innumerevoli individuazioni con l’intimo nostro. Ma questo non e’ che un punto di partenza, perche’ di qui comincia un movimento, una tensione. Ad una parte degli oggetti assegno un compito di collaborazione, prendendo interamente su di me la definizione del fine del lavoro con cui essi collaborano; e questi oggetti chiamo cose. Nei riguardi delle "cose" io non mi pongo altro dovere che di adoperarle bene, di chiamarle a collaborare ad atti di cui assumo la responsabilita’; e la malvagita’ sta non nell’usare l’acqua per un bagno, ma se nel bagno affogo il bambino, invece di lavarlo semplicemente, buttando l’acqua ad altro destino. Per il carbone fossile stare nell’interno della terra o muovere una locomotiva puo’ essere indifferente, come per la pietra che sta nel monte, in un monumento o come polvere sulle strade. Puo’ darsi che un giorno il nostro occhio scopra altro e diventi possibile ridurre il campo delle cose, stabilendo con alcune di esse un rapporto di collaborazione meno imperioso e meno antropocentrico: e’ un problema questo non vano, e di un orizzonte vastissimo, schiuso proprio dal principio della nonviolenza, che e’ inquietudine continua, passione mai saziata di interesse per le individualita’. Vi e’ poi il gruppo di esseri subumani. E c’e’ come un gruppo di passaggio in tutti quegli esseri di minima vita, microrganismi e microbi, rispetto ai quali non possiamo fare che una valutazione di "cose" sempre pero’ con quella speranza e quel problema, che nuove indagini e nuove intuizioni permettano una collaborazione migliore: chissa’, per esempio, che non si riesca a trovare il modo di volgere a benefica l’azione malefica di molti microbi. Ma quando incontriamo vite piu’ sviluppate, individualita’ con cui e’ possibile stabilire un rapporto complesso, qui sentiamo la gioia di salvarci con piu’ ragione dalla considerazione di "cose". Cio’ non toglie che ci si possa interessare a cose minime, rispettarle nel loro essere; che io possa appassionarmi all’individualita’ di quella farfalla che ho visto nel boschetto e che vivra’ oramai una settimana, di quel filo d’erba, di quel sasso. Questo prova che la nonviolenza, essendo unita’-amore e’ espressione nostra, e’ collocazione e scelta volontaria, non un dogma; e ognuno puo’ a sua ispirazione (Spiritus ubi vult spirat) dirigerla. San Francesco voleva che l’ortolano non lavorasse tutto l’orto, ma ne lasciasse una parte dove le cosi’ dette erbacce potessero crescere liberamente, perche’ per lui la spontaneita’ di quel crescere, la bellezza di quelle erbe, e che esse attestassero e lodassero Dio, era la stessa cosa. E cosi egli preferiva che l’albero si tagliasse lasciandogli la radice e la possibilita’ di crescere nuovamente. Noi possiamo su tutta la scala degli esseri non umani istituire a noi stessi delle direttive, che anche se non sempre attuate, provano che in noi vive un problema, una passione, una direzione. Preferire, per esempio, di regalare piante intere piuttosto che fiori, rinunciare alla caccia, adoperarsi per addomesticare bestie selvagge. Il vegetarianesimo, per esempio, e’ una cospicua scelta che viene fatta nel campo degli esseri subumani. Si decide di rinunciare al cibo che comporti uccisione di animali; e con cio’ stesso muta il nostro modo di avvicinarsi ad essi, il nostro modo di considerarli; si accetta sorridendo ma con fermezza l’apparente stranezza che galline e pecore, dopo averci dato uova e lana, "muoiano di vecchiaia": si amplia, al posto della violenza spietata alle sofferenze e all’uccisione, quel piano di collaborazione in cui consiste l’incremento della civilta’. Questa "sospensione" introdotta nella leggerezza sterminatrice e nella freddezza utilitaria si riflette in accrescimento di valore interiore. Ma c’e’ di piu’ e forse di meglio. Io debbo confessare che, pur avendo un notevole interesse all’esistenza degli animali, mi decisi al vegetarianesimo nel 1932, quando, nell’opposizione al fascismo, mi convinsi che l’esitazione ad uccidere animali, avrebbe fatto risaltare ancor meglio l’importanza del rispetto dell’esistenza umana. Consideriamo, dunque, la nonviolenza in questi gradi anteriori come un addestramento che ha due atteggiamenti, quello di considerare cio’ che e’ altro da noi come "cosa" ma con l’impegno a servirsene per un fine degno e alto; e l’atteggiamento di considerarlo come "esistente", rispettato e amato percio’ come tale. Due atteggiamenti, come ho detto, non rigidi, ma in dialettica, in travaglio, e appunto percio’ prova della vitalita’ interiore di un appassionamento. Ma sia come un prologo al mondo umano. Noi sappiamo che tutte le volte che in pedagogia ci si e’ posti il problema del piu’ basso, di cio’ che e’ infimo, si e’ fatto un grande passo: quando si e’ cercata l’educazione dei deficienti, o dei molto piccoli o dei molto poveri, si sono scoperti sempre metodi che hanno dato risultati prodigiosi applicati agli altri. E cosi in questo prologo ci siamo posti dei temi: portiamoli ora nel mondo umano, e sentiremo una risonanza grandiosa. Riguardo ad esseri umani la nonviolenza e’ l’appello continuo e intenso alla comprensione, alla spontaneita’, alla capacita’ che ha l’altro essere umano di giungere ad una decisione razionale. Nel campo umano la dedizione a questo appello ha un fondamento piu’ saldo che per ogni altro essere: basta che io pensi che colui che incontro, potrebbe essere mio figlio: nulla di eccezionale in questo sentimento di genitura, per la somiglianza umana che c’e’ tra noi. Del resto, io penso che sempre nei riguardi di un essere umano debbo richiamarmi a un punto interno in cui io mi senta madre di lui; che debbo abituarmi a costituire costantemente questo atteggiamento nel mio intimo; che, insomma, almeno per una volta, esaurite e sfogate se si vuole, tutte le altre possibilita’, io debbo domandarmi: "ma mi sono anche considerato pur per un istante madre di costui? come agirei se fossi sua madre, certo una madre non stolta, ma pronta a vedere che cosa c’e’ a favore di lui, a sperare per lui?". La nonviolenza, porgendo l’appello alla razionalita’ altrui, e’ anche un potenziamento del tu, e dell’interesse a che l’altro viva, si svolga, e come un generarlo dall’intimo nostro, una gioia perche’ l’altro esiste, un appassionamento alla radice. Come noi potremmo avvicinarci all’infinita miseria degli esseri umani, alle loro limitazioni, curare le loro infermita’, sopportarli, se non portassimo un infinito compiacimento che l’altro esiste e proprio come essere umano? In questo atto si va oltre lo stato di felicita’ e infelicita’, e si vive il sacro per cui ogni essere che viene alla luce entra in qualche cosa di positivo, di la’ dalla sua miseria e dalla sua grandezza. Lo spirito lo tocca, e io posso raggiungerlo col mio atto: qui siamo nella presenza religiosa, che e’ piu’ di ogni limitatezza, deformita’, malattia, bruttezza. La nonviolenza mi fa risaltare l’importanza dell’atto col quale mi avvicino ad uno, atto di presenza aperta, superiore alla felicita’ o infelicita’, a cio’ che puo’ accadermi o accadergli. E se io voglio che l’altro sia in un certo modo, il ripudio dei mezzi violenti mi induce ad una tensione interiore perche’ io anzitutto viva quello che voglio dall’altro, perche’ io prenda su di me il compito di attuare quel meglio, di portarmi a quel grado, di purificarmi, di sacrificarmi, fino al sacrificio supremo di dare l’atto di nonviolenza al posto dell’atto di violenza, e di trasferire con atto d’amore nell’intimo dell’altro il punto a cui ero giunto. In questa nonviolenza si attua la fede nell’unita’ di tutti, e nell’efficacia che cio’ a cui mi tendo io (o cio’ per cui io prego, per dirla nei termini tradizionali) influisce su di un altro, pur lontano, quanto piu’ di sacrificio e di purezza interiore io vi metto. Sarebbe piu’ agevole che con un mezzo esteriore e violento io agissi sull’altro, ma quanto perderei di interiorita’, di qualita’!

Attuazione della nonviolenza Un principio che sta dentro l’atto della nonviolenza e’ la potente sollecitazione dell’impegno della propria persona. La radice della nonviolenza sta nell’essere nonviolento, internamente, prima dell’atto rivolto agli altri; e anche questo conferma che la nonviolenza non e’ un atto puntuale, ma una disposizione, una formazione, un’educazione, un’intenzione, un insieme. Se la nonviolenza e’ promovimento della tua razionalita’, della tua bonta’, della tua spiritualita’ superiore, bisogna che io anzitutto mi tenda alla mansuetudine e alla ragionevolezza. Non si puo’ insegnare la nonviolenza con l’odio e le fucilate. Se io voglio che tu agisca da persuaso interiormente, bisogna che io prima sia in tutto persuaso e non retore. Se io voglio che nel mondo ci sia qualche cosa, e in questo caso, un atto di unita’-amore insistente fino anche al sacrificio, se non ci metti tu questo atto, o ancora non ce lo metti, ce lo metto io. Quanto ai modi dell’attuazione della nonviolenza io vorrei sottrarli a quella casistica che sorge per ogni proposito di azione, e anche per questo. Tutti quelli che hanno esperienza di questo proposito, hanno anche esperienza di una lunga discussione con se stessi e con gli altri sui casi, sui modi. Piu’ di quindici anni di questa esperienza mi hanno confermato che e’ lo spirito che conta, ed e’ l’approfondimento di questo che fa progredire la civilta’. C’e’ una scala di attuazione, una scelta, una creazione; non e’ un dogma e un ordine di chissa’ chi: la nonviolenza e’ una creazione che uno attua. Ci puo’ essere un’attuazione cosi’ meticolosa da far sorridere; e non c’e’ nulla di male. Una civilta’ che consuma tanto suo tempo in mille cose futili e fatue, puo’ ben consumarlo in questo campo. C’e’ un eccesso e un ridicolo che e’ in funzione del sublime. Un discepolo di San Francesco aveva spinto cosi’ oltre il precetto dell’imitazione della santita’, che ripeteva ogni atto che vedesse fare al Santo, perfino sputare. E San Francesco ne sorrideva. Tutti sappiamo che vi sono diverse interpretazioni e attuazioni della nonviolenza, fino a quella che non si puo’ parlare di "violenza" quando si colpisce per diritto e a giusta ragione. Io qui esporro’ l’interpretazione che risulta dalla mia esperienza. Considererei come un grande dolore se nel momento della morte di un qualsiasi essere umano io non desiderassi con tutte le mie forze che quella morte non avvenisse. Non posso accettare come veramente mio il mondo dove le persone cadono come oggetti, ma quello dove tutti sono soggetti, vivono, si svolgono. Se non sentissi sempre questo, se avessi fatto qualche eccezione a questo, oggi dovrei moltipllcare la mia tensione per riparare al passato. E realmente io debbo riparare al passato, che oltre che mio, e’ di tutte le civilta’ trascorse; e, istruito da questa insufficienza, oggi non sono tanto disposto a farmi sorprendere dall’indifferenza, e sto attento perche’ non perda questa passione fondamentale ad ogni momento in cui la morte si manifesta in questa realta’. Percio’ e’ inutile che io raccolga armi vicino a me e mi addestri ad usarle, se so gia’ quale sarebbe la mia posizione domani. Da questo si riflette uno stimolo ad atteggiare il mio fare in modo che senta di non poter far conto su mezzi violenti, e che a mia disposizione non c’e’ che il prestigio dell’esempio, l’intima trasparenza, la razionalita’ della persuasione, la forza dell’anima. Potro’, a parte il ripudio della uccisione, ricorrere a dei mezzi che diminuiscano l’effetto della violenza dell’altro, specialmente se in uno stato di furia; ma sempre tali che non lo mettano in uno stato di tortura ne’ in uno stravolgimento della sua possibilita’ di razionalita’. L’importante e’ che in quel momento io mi immedesimi col problema dell’altro, e della sua formazione verso la liberta’, la razionalita’, la bonta’; e che, assicurate queste dalla parte mia, mi rifiuti ai mezzi che la turbino nell’altro. La tortura, cioe’ che io provochi in te il dolore per ottenere qualche cosa da te, che senza la tortura mi rifiuteresti, non e’ per me giustificata da nulla, perche’ io non voglio mai provocare il dolore, ma riparare al dolore: essere non al punto in cui si causa il dolore (che e’ questa realta’ e il mondo della limitatezza), ma al punto in cui si supera il dolore, che e’ la realta’ autentica, il mondo del valore. Se questo mondo e’ la mia croce, ma io sono piu’ del mondo, sono dall’infinito. Come davanti alla morte, cosi davanti alla sofferenza di un altro, ho la passione di essere non dalla parte del mondo ma del sopramondo eterno che qui si apre, non dalla materia ma dalla forma, non dall’esteriorita’ ma dall’interiorita’, non con un Dio che batte, ma con un Dio che porta nel valore dell’amore che sempre si accresce, e che, come la liberta’, non esiste, se non si fa ancora piu’ amore, ancora piu’ liberta’.

La nonviolenza e la societa’ A questo punto, dopo aver guardato la cosa dall’individuo, bisogna guardarla dalla societa’; altrimenti mi si potrebbe dire che tutto quello che ho detto e’ "prima della nascita della societa’, dello Stato". L’obbiezione piu’ formidabile e’ questa: "non faccio questione di me come singolo, della mia difesa, della mia esistenza, ma della societa’, del suo ordine, della norma che io debbo sostenere e contribuire a tener viva, per cui non e’ lecito che uno si serva della violenza: come potro’ far questo senza l’uso della forza? come potra’ avvenir questo se il cittadino manca al suo dovere di riconoscere la necessita’ dell’uso della forza in qualche caso? Una societa’ non ha connessione senza l’uso parco e regolato della forza". Qui debbo richiamare quel carattere drammatico della nonviolenza del quale ho parlato all’inizio. Ho gia’ detto che per intendere la nonviolenza bisogna lasciar di guardare l’ordine, la compostezza, la pace: bisogna, invece, prender su’ risolutamente una responsabilita’, che puo’ essere anche in mezzo all’avversione e al biasimo; e’ una scelta severa e tremenda. La nonviolenza non e’ per conservare alcuna cosa di questo mondo, sia dell’individuo o della societa’: non il piacere, il comodo, la casa, il letto, la roba, la vita, le cose fatte, costruite, l’ordine sociale, la regolarita’ dei servizi pubblici, l’esistenza dei cari, degl’innocenti. Non e’ un accrescimento di sicurezza che tutte queste cose permangano; anzi e’ una rinuncia interiore a questa sicurezza; e’ in potenza la morte di tutto questo. E’ la possibilita’ di perdere tutto cio’ che e’ nel mondo, il Memento mori, non immaginazione oziosa, ma legato a un impegno, a un’azione. Perche’ nello stesso tempo la nonviolenza afferma un valore; ed e’ dunque atto, resurrezione. La societa’ col suo ordine, la vita con i suoi oggetti, non possono costituire quell’assoluto che si imponga indiscutibile e tolga la possibilita’ di un contributo, di un’iniziativa. Siamo davanti, in questo tempo, ad una societa’ impiantata cosi’ che vorrei chiamarla "la societa’ dei pubblici servizi", una societa’ pratica, del tempo dell’attivismo, del tempo dei molti aspetti del vivere, delle varie cose. I pubblici servizi esigono una difesa di essi con tutti i mezzi; e questo non e’ la societa’ come concetto eterno: non e’ che un tipo della societa’ della vita, corrisponde a una scelta che l’uomo di oggi fa: il che non esclude che si possa fare un’altra scelta, presentare un altro tipo. Il significato religioso della nonviolenza sta proprio nel preparare un altro tipo, un’altra realta’. E’ evidente che se si volesse configurare la societa’ non con la trama interna della difesa dei pubblici servizi, ma con la trama interna della celebrazione di atti di infinito tu alle persone, tutta la prospettiva muterebbe. La societa’ romana aveva per trama la tutela dei diritti del civis, la societa’ cristiana aveva per trama la fruizione dei carismi divini. La societa’ non e’ un qualche cosa di staccato da me. E percio’ come io, in quanto individuo, ho il dovere di interiorizzarla e di rendermi conto delle sue ragioni, ho anche il diritto di andare eventualmente oltre di essa. Non quando io fossi ribelle, disordinato, ex lege, per natura; ma se seguo le leggi che ritengo giuste, se attuo cio’ che e’ ordine, se continuamente utilizzo l’esperienza tradizionale della societa’, posso bene, quando sia in gioco un valore, quando nel resto della mia vita sia solito a stare in guardia contro il gusto personale e l’originalita’ di proposito, innovare, prendere un’iniziativa, dare un contributo, e in questo caso sentire, vivere, e far vivere, che la vera societa’ e’ oltre quella dell’ordine sociale, della difesa dei diritti, del mantenimento dei pubblici servizi; ma e’ oltre, nel regno degli spiriti, cioe’ dei soggetti, cioe’ dell’amore da instaurare subito a costo di sacrifici. Accanto ad una societa’ che usa la guerra come via alla pace, la violenza come via all’amore, la dittatura come via alla liberta’, la religione mi porta ad anticipare di colpo il fine nel mezzo; e ad attuare comunque, qui e subito, pace, amore, liberta’. La religione e’ impazienza dell’attendere il fine; e oggi che l’universo, il tempo, lo spazio, non sono sentiti in dualismo stabile con l’infinito e l’eterno, porremo noi questo dualismo nella societa’ tra il mezzo e il fine?

Il limite del realismo Se si ostenta la natura umana nel suo fondo utilitario e violento, nelle sue forze brute, che vanno continuamente represse e indirizzate, ma che sono insopprimibili, la persuasione della nonviolenza non nega senz’altro questo, non chiude gli occhi come lo struzzo per non vedere il nemico; e riconosce che la situazione e’ drammatica, quasi sempre drammatica, e ne accetta le conseguenze. Pero’ porta con se’ una fede, che ha tanta conferma nella attuale concezione della realta’ fisica; la fede che tutto cio’ che e’ un dato non e’ un continuum senza interruzione, ma e’ come a respiri con intervalli, nei quali e’ possibile inserire altro. Con quale certezza possiamo noi dire che quella cosa e’ sempre cosi? Questa sospensione della continuita’ si puo’ applicare alla politica, per cui viene a risultare insufficiente e quasi ingenuo, quel certo realismo di tipo machiavellico che non tiene conto degli intervalli in cui e’ possibile far agire forze d’altra provenienza: quel realismo e’ una specie di imitazione della natura in ritardo. E cosi’ per quella natura che e’ la psiche, alla quale si vorrebbe applicare solidita’ e costanza invece di un ritmo di respiri e di tentativi con intervalli e possibilita’ di inserzione di temi e forze e prospettive diverse. La nonviolenza e’ fede in questa possibilita’ di intromissione miracolosa e rinnovatrice, per lo meno a suggerire e far rivivere una certa realta’ diversa. Accettiamo che la civilta’ culmini nel culto attivo dei valori, e che le forme della civilta’ siano insufficienti quando sono principalmente amministrative, giuridiche, diffonditrici piu’ che produttrici di valori. Ma se la nonviolenza e’ nella sua radice, nella sua intenzione, nella zolla che la sostiene, un valore, ha ben il diritto di chiedere che la civilta’ attuale si allarghi a comprenderlo. Quando si segue un valore si scopre sempre qualche cosa, una realta’ anche maggiore della cercata, come Colombo che ritrovo’ non le Indie, ma scopri’ un nuovo continente. Lo so, si puo’ perdere tutto; ma si puo’ approfondire la conferma che la vita da un punto di vista religioso e’ eterna presenza aperta nel mondo, quanto piu’ vivendo dall’intimo i valori e la loro pace, tanto piu’ incontrando asprezze, disagi nelle cose e nel corpo, colpi simili alla morte. Non per pochi aspetti la civilta’ attuale sembra perdere il senso della distinzione tra il valore, che e’ fine, e il resto, che e’ mezzo; e conquista e difende quelli che sarebbero semplici mezzi come se essi fossero valori. Si mette, certe volte, tutto nella conquista e nella difesa, e si tratta anche di cose fatue; tanto piu’ e’ importante stabilire una prospettiva, e mostrare che si e’ capaci, per un valore, di perdere tutto il resto. Mostrare, ho detto intendendo: non soltanto agli altri, ma a se stessi, perche’ anzitutto la nonviolenza ha un carattere di edificazione interiore. Cio’ non e’ contro il principio dell’estensione della razionalita’. Si puo’ e si deve accettare che la razionalita’ nell’uomo e nella societa’ si estenda sempre, e che l’uomo si faccia sempre piu’ autonomo, e la societa’ sempre piu’ democratica. Ma ad un tratto potrebbe avvenire, e avviene, che si sospende la razionalita’ e la democrazia con un atto di violenza. Il metodo religioso, invece, contrappone l’atto e l’esempio di nonviolenza, aggiunto ad arricchire la razionalita’ e la democrazia. Rendiamo la societa’ sempre piu’ democratica promovendo la razionalita’, l’autogoverno, lo scambio razionale, il controllo e lo sviluppo etico, civile, economico di tutti; e in questa societa’ aggiungiamo persone o gruppi che costituiscano centri religiosi. Tutti quelli che hanno parlato di nonviolenza nella esperienza etico-religiosa di millenni hanno sentito piu’ o meno consapevolmente che la vita offre difficolta’ e fatiche, che ogni giorno ha la sua pena, e che se ci si vive dentro semplicemente lottando, ma divisi l’uno dall’altro, non basta; che se invece si attua anche una intima e superiore unita’, di apertura sincera, di aiuto incondizionato, di sostituzione, tra noi, del bene al posto del male, allora la realta’ della lotta con le asprezze puo’ essere sostenuta, integrata, superata. E alle reazioni moderne alla nonviolenza, reazioni, per esempio, del Marx e del Sorel in nome dello sviluppo sociale, noi diciamo: ebbene, permetteteci di vedere questo flusso storico da un intimo, di aggiungere questa presenza. (Da Il problema religioso attuale, 1948)

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Carattere della nonviolenza Della nonviolenza si puo’ dare una definizione molto semplice: essa e’ la scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani. Perche’ questa scelta? Per amore: ecco, vediamo subito che si tratta di una cosa positiva, appassionata. Ma e’ l’amore che non si ferma a due, tre esseri, dieci, mille (i propri genitori, i figli, il cane di casa, i concittadini, ecc.); e’ amore aperto, cioe’ pronto ad amare altri e nuovi esseri, o ad amare meglio e piu’ profondamente gli esseri gia’ conosciuti. E qui si capisce uno dei caratteri essenziali della nonviolenza bene intesa: essa non e’ mai perfetta e non finisce mai, appunto perche’ e’ una cosa dell’anima; e’ un valore, e’ come la musica, la poesia, e si puo’ sempre fare nuova musica, nuova poesia; e la vecchia musica, la vecchia poesia, possono essere vissute piu’ profondamente. Il paragone con la musica ci fa comprendere anche un’altra cosa: come nessuno puo’ desiderare di ascoltare e comporre la "musica ", tutta la Musica; ma desidera ascoltare e comporre "delle musiche particolari e concrete"; cosi nessuno abbraccia l’astratta "Nonviolenza", ma compie atti particolari di nonviolenza, in situazioni concrete. La nonviolenza e’, dunque, dire un tu ad un essere concreto e individuato; e’ avere interessamento, attenzione, rispetto, affetto per lui; e’ avere gioia che esso esista, che sia nato, e se non fosse nato, noi gli daremmo la nascita: assumiamo su di noi l’atto del suo trovarsi nel mondo, siamo come madri. Nell’agire secondo la nonviolenza ha grande rilievo non uccidere, non dare la morte. Si potrebbe obbiettare: quella persona morra’ ugualmente, prima o poi. Rispondiamo che anzitutto c’e’ una grande differenza; e noi stiamo parlando con serieta’, per cui l’atto nostro ha il suo valore non nel fatto, ma nel proposito. E’ ben diverso che io uccida mia madre e che essa muoia assistita amorevolmente da me. Sono non solo due modi di vivere diversi, ma due mondi. Inoltre: chi ci dice che la morte sia un fatto costante, ineliminabile? Abbiamo tentato di non dare la morte ne’ col pensiero ne’ con l’atto, per vedere se la realta’ ci seguisse? Che ragione abbiamo noi di rimproverare la realta’ che da’ dolore e morte, se diamo dolore e morte? Sicche’ chi non da’ la morte, produce due cose: in se’, tanto e’ l’appassionamento all’esistenza delle persone, il senso della loro presenza anche se muoiono; e nella realta’ introduce un’iniziativa che la puo’ trasformare. Proprio l’amore per le persone, fino al rispetto della loro esistenza e fin sull’orlo della morte, prende su di se’ la presenza di quelle persone, quando e’ amore non per uno, due, dieci, ma aperto a tutti. Il nostro agire innocente sente che quelle persone, se muoiono, restano unite all’intima presenza; mentre l’omicida, soltanto se si pente amorevolmente, ritrova in se’ la presenza della persona uccisa; altrimenti sente il vuoto intorno a se’. Con la nonviolenza, dunque, s’impara concretamente che i modi di manifestarsi attuali della realta’ (tra cui la separazione, il dolore, la morte) non sono permanenti, ma possono trasformarsi in meglio; e’ una prova che vale la pena di tentare, e percio’ la nonviolenza e’ appello al mondo per una grande mobilitazione dell’unita’ amore, con la fede nella trasformazione della realta’ stessa. E’ percio’ un errore credere che la nonviolenza si collochi nel mondo lasciandolo com’e’; piu’ si pensa alla nonviolenza e si cerca di attuarla, piu’ si vede che essa ha un dinamismo tale che non puo’ accettare il mondo com’e’, ma essa porta tutto verso una trasformazione: l’umanita’, la societa’, la realta’. Come strumento di conservazione del mondo, la nonviolenza e’ discutibile; come strumento di trasformazione in meglio, essa ha un valore inesauribile, appunto perche’ non fa modificazioni e spostamenti in superficie, ma va nel profondo, al punto centrale. E un altro e simile errore e’ credere che la nonviolenza sia contro le violenze attuali, ma accetti quelle passate, dell’umanita’, della societa’, della realta’. Se fosse cosi’ la nonviolenza sarebbe conservatrice e accetterebbe il fatto compiuto, le prepotenze avvenute, le oppressioni, le monarchie, gli sfruttamenti. La vera nonviolenza non accetta nemmeno le violenze passate, e percio’ non approva l’umanita’, la societa’, la realta’, come sono ora. Non accetta la realta’ dove il pesce grande mangia il pesce piccolo; e percio’ cerca di stabilire unita’ amore anche verso gli animali, appunto per iniziare il bene; non accetta che i viventi prendano il posto dei morti, e percio’ tende a soccorrere i deboli, gli stroncati; non accetta il potere e la ricchezza privata, e percio’ tende a costituire forme di federalismo nonviolento dal basso e forme di aiuto e reciprocita’ sociale e fruizione comune di beni sempre piu’ larghe. Essa ha come guida instancabile la presenza di tutti, e il principio che ogni singolo essere e’ insostituibile. Percio’ essa tende a ridurre ed eliminare gli schemi generici e impersonali. Noi viviamo troppo di questi schemi, e molte volte non ci curiamo d’altro; ma non esistono gli schemi (gli amici, i nemici, i malati, gl’italiani, i religiosi, gli autisti, ecc.); esistono i singoli individui, e la vita fondamentale e’ quella che li considera nella loro singolarita’ insostituibile. Noi usiamo lo schema, per esempio se cerchiamo un autista, e poi un altro autista, un librario ecc. Ma il progresso e’ proprio nel ridurre questo uso di schemi. La guerra invece e’ il mostro piu’ immane di questo uso di schemi, che divora le singole individualita’: non ci sono che i nostri e i nemici; e’ percio’ sommamente diseducatrice. Ci avviciniamo cosi ad alcuni punti problematici della nonviolenza. Che cosa succede nella societa’ cosi’ com’e’ ora costituita? La risposta deve richiamare a quello che gia’ si e’ detto: la nonviolenza non puo’ mettersi nel mondo com’e’, e lasciarlo tale e quale; la nonviolenza e’ lotta (contro se stessi, le proprie tendenze. i propri sogni di quiete), e’ dramma tormentoso, e’ spinta a scegliere cio’ a cui uno tiene di piu’, a fare una prospettiva; e se uno continua a vedere la vita come la vedono tutti, trova assurda la nonviolenza; poi vengono le disgrazie e la morte, e uno non ci capisce nulla. Invece la nonviolenza fa una prospettiva che da’ una preparazione religiosa per tutte le disgrazie e la morte: l’unita’ amore con le persone, come singole e come eternamente presenti, l’unita’ amore che si perde di sentirla se noi compiamo atti di violenza e di distruzione delle persone. Tenuto fermo questo senso di eterno, esso si allarga a comprendere tutto cio’ che di bello, di buono viene creato, ed uno si sente in un mondo piu’ vero di quello apparente nel tempo e transeunte. Ora, in una societa’ se io sto inerte, sono colpevole. Ma se io, pur essendo per la nonviolenza, sono attivissimo, e con quella scelta e quella fede la vivo e la concreto e la diffondo con il mio costume, sono a posto verso la societa’. Nella quale percio’ saranno due gruppi di persone: quelle che useranno eventualmente la violenza, e quelle che non la useranno, ma esplicheranno una intensa attivita’. Ci siamo cosi preparati per affrontare una delle obbiezioni piu’ insistenti; se usiamo la nonviolenza, trionfano i cattivi. Rispondiamo che, anzitutto, l’uso della violenza non ci da’ sufficiente garanzia che trionfino i buoni, perche’ l’uso della violenza con efficacia richiede che si facciano tanti compromessi e tanti addestramenti che si perde una parte di quella bonta’, di quella elevatezza; e questo si vede dopo le guerre, quando c’e’ un diffuso trionfo di violenti, e ci vuole l’azione di nuclei puri per cercare di guarire (ecco la fortuna di idee religiose in ogni dopoguerra). Ora, gli uomini non hanno bisogno soltanto di ordine nella societa’, ma che ci siano vette alte e pure. Se per tener testa ai cattivi, bisogna prendere tanti dei loro modi, all’ultimo e’ realmente la cattiveria che vince. La cosa e’ piu’ evidente se i cattivi posseggono armi potentissime, e noi per avere armi piu’ potenti ancora, mettiamo tutta la nostra forza: alla fine scompare la differenza tra noi e loro, e c’e’ bisogno che sorga una differenza netta tra chi usa le armi potenti, e chi usa altri modi, con fede che essi trasformano il mondo. Gia’ queste poche considerazioni mostrano quali modi spirituali piu’ ricchi scaturiscono dalla nonviolenza. E anche in questo essa ha un grande ufficio nel mondo d’oggi, nel quale sembra che tutto si risolva nell’organizzazione sociale. C’e’ il pericolo di restringere l’orizzonte dello spirito. L’organizzazione sociale non e’ che un aspetto, e se noi piegassimo tutto ad essa, perderemmo cose anche piu’ importanti. E’ certo che Gesu’ Cristo porto’ scompiglio, divisioni, altri modi nell’organizzazione sociale; eppure siamo convinti che egli era ben degno di nascere. Forse col Settecento si e’ accentuata questa tendenza politico-sociologica; ma non bisogna dimenticare che la civilta’ vuol dire essenzialmente non ripetizione, ma creazione. Per di piu’ lo sviluppo tecnico ha portato il beneficio di tali comodi e servizi, che uno si e’ affezionato troppo ad essi; e allora la civilta’ perde in serieta’ confrontata con civilta’ passate, che saranno state devote a miti, ma erano piu’ evolute. Bisogna quindi tornare ad una gerarchla o prospettiva di valori; e allora si vedra’ che i valori che si difendono o acquistano con la violenza sono inferiori a quelli che si difendono o acquistano con l’attivita’ nonviolenta. Insieme con questa prospettiva, che si diffondera’ a poco a poco negli uomini, specialmente se dovranno subire una nuova guerra, c’e’ un fatto che appare nuovo. Fino ad ora chi ha attuato la nonviolenza in una parte, per esempio in India, non si e’ sentito perfettamente unito a chi ha usato la nonviolenza in un’altra parte, perche’ uno diceva di farlo per una ragione, uno per un’altra; e ci rientravano miti, dogmi diversi. Oggi c’e’ un’unificazione e noi lavoriamo per questo. E l’unificazione delle ragioni della nonviolenza porta, tra l’altro, che consideriamo violenza e nonviolenza non come un fatto privato e personale, ma internazionale. E percio’ puntiamo prima di tutto sul fatto guerra, ci opponiamo alla violenza internazionale. Una volta c’e’ stato un pacifismo molto blando, tanto e’ vero che davanti alla prima guerra mondiale e alla seconda vacillo’. Esso credeva di arrivare alla pace molto facilmente attraverso la cultura, la scienza, l’interesse al benessere, il cosmopolitismo delle classi dirigenti. Si e’ visto poi che non bastavano, e si capisce perche’. Non era stato affrontato il lato religioso del rifiuto della violenza, che cioe’ la violenza si rifiuta in nome dell’amore (e non dello star bene), di una realta’ liberata dagli attuali limiti (e non della continuazione di una realta’ insufficiente), e con una disposizione al sacrificio, ad essere come il seme del Vangelo che muore per far sorgere la nuova pianta. Il vecchio pacifismo era ottimista e di corta vista, il nuovo e’ drammatico e di fede nella liberazione dell’uomo-societa’-realta’ dagli attuali limiti. Percio’ anche a proposito dell’attuale mondialismo la nonviolenza da’ un’ottima guida. Non si oppone, sia perche’ c’e’ tanta gente che in quella forma esprime per ora quello che vuole la nonviolenza, sia perche’ c’e’ sempre qualche cosa di educativo in questo dirsi "cittadini del mondo", tanto piu’ in presenza a tanti persistenti nazionalismi, e alquanto torbidi: una prima purificazione puo’ esser quella di dire, "conveniamo insieme tutti nel mondo", vediamo di intenderci, ascoltiamo e parliamo. La’ dove la nonviolenza interviene e’ nei primato da dare; il mondialismo dice: facciamo un’assemblea mondiale e un governo, e un codice, e una polizia mondiale; la nonviolenza dice: persuadiamoci dell’interna ragione dell’unita’ umana attraverso l’impegno nonviolento, poi vedremo le forme sociali che ne conseguono. Il mondialismo sembra piu’ concreto, ma corre il rischio di mantenere la violenza e di appoggiarsi a un impero vincente, e tutto resta quasi come prima; diminuira’ qualche guerra, perche’ il diritto di farla rimane al centro dell’impero, ma e’ grave l’inconveniente che se questo governo mondiale fa ingiustizie, non c’e’ scampo (mentre ora, almeno, si puo’ mutare Stato). Il mondialismo sembra troppo facile accettarlo (e questa facilita’ dovrebbe rendere attenti). La nonviolenza pone impegni precisi, chiede fede; e’ difficile, ma va in profondo, si occupa della radice: ha fiducia di trarre da se’ e dalla trasformazione che porta nuovi modi anche sociali, diversi dai vecchi del codice, dello Stato, della polizia, della distruzione repressiva. La nonviolenza, per quello che vede finora, considera ogni rapporto non in senso di autorita’, potere, repressione, ma in senso federativo, orizzontale, aperto. Per questo nella societa’ circostante porta un modo diverso che agisce sia direttamente per le persone che coltivano in se’ questo senso orizzontale, fraterno (e che ne sono trasformate), sia indirettamente per le persone che ricevono questo nuovo agire nonviolento, purche’ costante e convinto. Bisogna tener presente questa trasformazione dell’uomo, e allora se si dice che la nonviolenza tende ad un "federalismo nonviolento dal basso", si capisce che non si tratta di un federalismo in cui ognuno resta tale e quale, ma di un federalismo nel quale opera un elemento dinamico, che e’ la nonviolenza intesa in quel senso aperto. Da quello che si e’ detto risulta chiaramente che la nonviolenza tende anche a trasformare le strutture delle comunita’, e stabilire rapporti diversi da quelli repressivi. Tuttavia si puo’ osservare che l’azione dell’organo di "polizia" in una comunita’ e’ lontana da quegli eccessi di distruzione e di eccitazione psichica e di impersonalita’ che ci sono per gli eserciti e le guerre: quell’azione e’ circoscritta, diretta specificamente contro chi porta violenza e con lo scopo piu’ di distogliere dalla tentazione che altro. Naturalmente il nonviolento tende ad altro, e a smobilitare polizie e prigioni, ed ha fiducia che questo sia possibile, perche’ crede alla superabilita’ del male e alla attuabilita’ di migliori rapporti umani; e per intanto compie un’opera instancabile perche’ la repressione sia umana, non torturatrice, educatrice, non vendicatrice, ma cooperante al bene anche del criminale stesso. Ma si rende anche conto che quello della polizia e della coercizione giudiziaria e’ l’ultimo strumento a cui una comunita’ rinuncia, e solo quando ci sia un ampio sviluppo di modi nonviolenti di convivenza. Il nonviolento si dedica a questo, specialmente con l’apertura verso il probabile violento, rimovendo le cause, rafforzando l’unita’ sociale gia’ nell’intimo. (Da La nonviolenza, oggi, 1962)

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La nonviolenza nei casi personali Nei rapporti personali (che e’ il campo dei "casi" e delle critiche nelle discussioni sulla nonviolenza) la persuasione della nonviolenza si manifesta come tendenza generale, come una direttiva che va applicata pazientemente, e con la buona volonta’ di cercare di evitare l’uso della violenza, e con la lealta’ di correggersi se si devia, e di affrontare il dolore conseguente. Chi si mette su questa linea puo’ errare mille volte, ma fa uno sforzo, apre una via, incide nella realta’ abituale e fuga l’inerzia: non merita il rimprovero di chi sta inerte a non tentare nulla. Si’, e’ vero, e’ difficile essere nonviolenti integralmente: e’ piu’ facile rifiutarsi agli eserciti e alle guerre; ma nell’ambito personale e immediato e’ piu’ difficile purificare dalla violenza i nostri atti, e ci possiamo trovare in situazioni nelle quali spingiamo la difesa fino alla violenza. L’importante e’ non stancarsi di tendere ad attuarla, vivendola nelle sue profonde ragioni; che cosa fa il musicista, se non tendere a realizzare musica meglio che puo’? eppure puo’ riuscirgli anche musica non sempre di valore, pura, alta. Se uno mi assale per colpirmi, che cosa debbo fare? E’ chiaro che dal punto di vista della nonviolenza io debbo evitare di colpirlo, e tanto piu’ se il mio colpo sarebbe per lui la morte. Se sono capace di tenerlo nella incapacita’ di colpirmi, cerchero’: lo faro’ con il dolore di esser tirato ad un contrasto con una persona ma posso tentare di farlo, e sappiamo che sono costruibili arnesi con i quali si puo’ senza uccidere e senza ferire, impedire ad uno di colpire. E’ probabile anche che io possa fare dei tentativi di parlare e di distogliere l’avversario. Certo e’ che, nel punto estremo, nel quale o muore lui o muoio io, la nonviolenza mi dice quale e’ la scelta da fare. E tuttavia le circostanze, le ragioni, significano molto se io decidessi diversamente; e con molto dolore dopo, per la tristezza del caso. Cosi e’ nelle altre ipotesi tormentose. Per esempio: se uno volesse uccidere un bambino? E’ molto probabile che vi siano mezzi per immobilizzare chi vuoi compiere quell’atto, e che sia alquanto raro il caso che egli lo possa compiere senza che lo si cerchi di tener fermo e disarmato. In ogni modo, nel caso estremo, si puo’ arrischiare anche la propria vita davanti a quella del bambino. Sara’ stimabile chi, in omaggio alla nonviolenza e per tutto cio’ che essa significa e produce, non compie la violenza di uccidere l’aggressore. Sara’ stimabile anche chi compia questa violenza, con il puro scopo di difesa del bambino. Sarebbe un’impostazione errata del problema dire che non c’e’ che un modo d’agire; e ogni altro e’ delittuoso e traditore. L’atto vale per tutta la sua sostanza, e la sostanza della nonviolenza e’ rispettabile tanto quanto quella della difesa, purche’ siano entrambe serie e profonde. Del resto, non e’ detto che tutte le volte che si opera con violenza si riesca ad impedire il misfatto; mentre se ci si desse a diffondere un’educazione alla nonviolenza si agirebbe anche sul sorgere di atti di violenza dove che siano, perche’ nell’intimo siamo tutti un’unita’. Del resto, la nonviolenza oggi si presenta con un accento straordinario. Appunto perche’ la violenza, in atto o potenziale, e’ salita a un culmine straordinario, la nonviolenza interviene per coordinare i tentativi di decongestione, e la cosa vale bene il sacrificio di qualcuno di noi se sara’ offeso ed egli non reagira’ con la violenza. Non che il sacrificio di noi, di altri o di cose, sia cercato di proposito; ma il fatto e’ che si sta non salvando la bianchezza delle proprie mani, ma intervenendo perche’ l’umanita’-societa’-realta’ prendano un nuovo corso, si trasformino. E la trasformazione essenziale, da cui mille altre, e’ quella di aprirsi ai singoli esseri, elevandoli coralmente, infinitamente, eternamente, ai valori puri. Il non usare violenza verso singole persone e’, insieme, simbolo e realta’: volere che i singoli siano presenti e partecipi in eterno; iniziare la realizzazione paradisiaca in terra, che richiede (naturalmente) iniziativa e sacrificio. Quest’aria eccezionale di ora religiosa, di fine di una realta’ e di inizio di una realta’ migliore, questa luce festiva tocca i sacrifici che la nonviolenza richiede. Viene talvolta obbiettato che e’ bene arrestare il violento con altrettanta violenza, proprio per il suo bene, per amore di lui, perche’ conosca cio’ che e’ giusto, e trovi, fuori di se’, un aiuto di forza per costringere la propria bestialita’ e cattiveria. Rispondiamo che se fosse sempre cosi, sarebbe realmente gia’ miglior cosa della violenza che trascura la situazione della persona che la riceve. Tuttavia e’ da notare che l’efficacia di un tal metodo per migliorare gli altri e’ ben discutibile, e nella realta’ il violento si vede vinto da una violenza maggiore, e non impara a trasferirsi su un altro piano. Anzi vede che non c’e’ che il piano della forza, e che vince chi ne ha di piu’. E’ molto male che agli uomini non si porga l’esempio, l’ipotesi, l’insegnamento di tutto un altro modo di comportarsi. E fanno male i sacerdoti ad abdicare, quando abdicano, su questo punto. Inoltre chi usa questa "violenza pedagogico-giuridica", si cristallizza in essa: i romani la usarono, risparmiando i sottomessi e debellando i superbi; ma solo il cristianesimo porto’ liberta’ e autentica cittadinanza mondiale, e al posto dell’intenzione pedagogico-giuridica, mise la costruttiva e reale apertura dell’anima. In quel modo, opponendo violenza al violento, si ottiene, se mai, un risultato nel momento; mentre opponendo la nonviolenza e i suoi modi si otterra’ un risultato piu’ lontano, ma veramente di qualita’ migliore. Non si puo’ sperare che poco dalla persuasione! viene obbiettato. Ammettiamolo, ma rispondendo: che se non si tenta, non si puo’ dire, e bisogna dunque tentare con cuore intrepido; e poi, il valore della nonviolenza non sta nel persuadere subito di colpo: essa afferma se stessa e stabilisce unita’ amore, apre una migiore realta’; questo atto viene deposto nell’unita’ che lega tutti gli esseri; prima o poi dara’ il suo effetto, anzi esso ha cominciato gia’ a darlo se c’e’ stato chi ha iniziato. Ma voi persuaderete i buoni, i gia’ persuasi; mentre i cattivi non vi daranno ascolto; ci vien detto. Noi non crediamo, invece, che le persone siano divisibili in due gruppi netti, ma se, col parlare di nonviolenza, si riuscisse a ritagliare un gruppo di persuasi, meglio cosi, che non, tacendo sulla nonviolenza, avere tutte persone violente. E poi: tante volte si parla di cattivi, e dei peggiori, che si volgono energicamente al bene; ed e’ vero che spesso i fortemente buoni sono dei mancati briganti: che vuol dir questo? che non dobbiamo guardare a nature fisse, precostituite, predeterminate; ma piuttosto a impulsi, esempi, forze spirituali pure che entrano nel campo della vita delle persone; ed e’ qui che la nonviolenza puo’ fare piu’ che puo’. (Da La nonviolenza, oggi, 1962)

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Ragioni della nonviolenza 1. La nonviolenza prende in considerazione il nostro rapporto con gli altri esseri viventi, con la fiducia di renderlo sempre piu’ reciprocamente amichevole, comprensivo, soccorrente, lieto, malgrado le difficolta’ che gli altri stessi possono metterci. Questa fiducia non cessa di colpo al confine degli esseri umani e spera anche per gli esseri viventi non umani; ma si rende conto che la storia con la sua spinta vitale ha separato da noi finora questi esseri (animali e piante) in forme di piu’ difficile educazione, trasformazione, liberazione. 2. La nonviolenza e’ aperta all’esistenza, alla liberta’, allo sviluppo di ogni essere. Quando nel Settecento sono stati banditi i principi di liberta’, eguaglianza, fratellanza, non e’ stato fatto tutto. La liberta’ era piu’ la liberta’ propria come diritto che la liberta’ degli altri come dovere; l’eguaglianza era un bel principio, ma si fermava a meta’ perche’ restavano i miseri e gli sfruttati; la fratellanza era piu’ quella generica con i lontani che quella difficile, nonviolenta e perdonante verso i vicini. 3. La bellezza della nonviolenza e’ che essa preferisce non di distruggere gli avversari, ma di lottare con loro in modo nobile e dignitoso, con il metodo nonviolento, che fa bene, prima o poi, a chi lo applica e a chi lo riceve. In fondo e’ piu’ coraggioso volere vivi e ragionanti gli avversar!, che farli a pezzi. 4. Ma sarebbe errore credere che la nonviolenza co

http://www.girodivite.it/Quaderno-3-Aldo-Capitini-Teoria.html



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